[…]
Che il drago della Morte
venga & si nutra del mio cervello
& carne & che sia altro
da me
Finché non venga il mio turno ed io
entri in quelle fauci e mi trasformi
in una cieca roccia coperta
di felci velate di rugiada che
io adesso non sono
Se non un universo di pelle e fiato
& pensiero che cambia e
mano che brucia & ammorbidito
cuore nel vecchio letto della
mia pelle Da questa singola
nascita nato di nuovo come sono
per essere così –
La mia identità ora senza nome
né uomo né drago né
Dio
Bensì il Me che sogna sotto
vere stelle con tenere
lune rosse nel mio ventre &
il Sole il Sole il
Sole mio padre visibile
che rende visibile il mio corpo
attraverso i miei occhi!
(Allen Ginsberg, “The Change: Kyoto-Tokyo Express”, 1963)
“[…] e andò a zonzo e batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.”
(D. F. Wallace. I-D-B-B pag. 140 Oblivion, Einaudi)
Conobbi Franco Lattanzi all’inizio degli anni ’70 in un’occasione per me singolare, un convegno organizzato dalla rivista “L’Erba Voglio”.
Nonostante la stima che avevo nei confronti di Lea Melandri, infatti, non era quello un ambiente che, in quella mia fase di operaismo hard, frequentassi molto.
Franco veniva dalla Federazione Comunista Libertaria di Roma, uno dei gruppi allora definiti piattaformisti del movimento anarchico. Nonostante i piattaformisti fossero o, almeno, fossero ritenuti una versione bolscevizzante dell’anarchismo, il gruppo piattaformista romano, e Franco in particolare, tendeva ad un superamento del movimento anarchico specifico ed ad un’adesione ad un più ampio movimento di opposizione sociale, quello che, in maniera per la verità imprecisa, venne anche definito come l’autonomia diffusa.
In quell’occasione nacque un sodalizio molto forte. Entrambi, pur venendo da esperienze alquanto diverse, ci proponevamo una ridefinizione di una prassi e di un’elaborazione libertarie che ci sembravano allora, magari con qualche presunzione da parte nostra, inadeguate al livello dello scontro politico e sociale del tempo.
In quegli anni tentammo di ripercorrere una serie di elaborazioni teoriche del passato dall’anarchismo classista e comunista al consiliarismo passando per l’unionismo industriale degli IWW e per l’elaborazione della sinistra antiburocratica degli anni ’50 e ’60 come quella rappresentata dalla rivista “Socialisme ou Barbarie”. Questo mentre eravamo impegnati 25 ore al giorno nelle lotte e nel confronto con altre posizioni teoriche e politiche.
Dal nostro incontro, e soprattutto dalla nostra collaborazione con diversi altri compagni, nacque, in particolare, la versione stampata della rivista “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” che, sino al 1976 era uscita come un bollettino ciclostilato essenzialmente milanese.
La redazione della rivista era allora un laboratorio politico per noi appassionante, un luogo di confronto di idee, di ricerche, di esperienze.
Franco in quell’ambiente giocava un ruolo importante. Una solida preparazione, una straordinaria curiosità intellettuale, una qualità notevolissima dell’esposizione e della scrittura ne facevano un redattore di primo piano e, soprattutto, un interlocutore in mille avventure politiche ed esistenziali.
Attraverso di lui e dei compagni del suo milieu romano stringemmo, infatti, rapporti importanti con collettivi di lavoratori di Roma e ci misurammo in una discussione sovente stimolante.
La redazione allora era, è opportuno ricordarlo, prima un collettivo politico che un luogo di studio. La definizione “per l’organizzazione diretta di classe” era presa assolutamente sul serio.
La redazione di Roma della rivista portava nella discussione un’attitudine parzialmente diversa rispetto a quelle “nordiste”, una maggior attenzione al quadro politico e l’ambizione di svolgere un ruolo nelle vicende della sinistra sovversiva del tempo che erano sostanzialmente assenti nella componente classista dura dei compagni del nord.
Ricordo ancora le risate che ci facevamo quando Franco raccontava che diffondeva con altri il primo numero della rivista durante i fatti del ’77 romano pubblicizzandola come rivista moralista e fabbrichista.
Franco non era solo, in quegli anni, un compagno. Era anche un amico della lunga adolescenza che accompagnava il maggio rampante italiano. Con lui se ne combinavano di tutti i colori dalle mangiate pantagrueliche alcune delle quali meriterebbero una narrazione a parte alle avventure con le signorine che, in più di un’occasione, furono le stesse.
Con lui e con Giovanbattista Carrozza, il terzo membro più stretto del nostro sodalizio, conquistammo sul campo il soprannome di “I tre mandarini” ad opera di un ruspigante gruppo di operai toscani più classisti, almeno nelle intenzioni, di noi e decidemmo di dar vita ad una rivista letteraria dallo stesso titolo, rivista che non vide mai la luce.
Assieme vivemmo la fine del maggio rampante e le prime lotte del precariato sociale, la nascita di “Collegamenti Wobbly”, scoprimmo assieme, lo cito, che i colori del tramonto sono simili a quelli dell’alba.
Prendemmo poi strade diverse e il mutare stesso del nostro stile di vita portò a diradare i rapporti.
Restò un’amicizia importante e una serie di incontri anche se non frequenti. Mi parlava a volte dei suoi libri e delle sue ricerche, delle sue curiosità e delle sue inquietudini.
Sapevo di suoi problemi di salute e di sue sofferenze interiori e sin da quando lo avevo conosciuto mi era chiaro che il suo vitalismo, come sovente avviene ai vitalismi, era la maschera di tensioni profonde e di un sostanziale male di vivere.
Con lui, è buffo ricordarlo, giocavo a volte la parte del saggio. Ora non potrò più tirargli metaforicamente le orecchie e sentire le sue risposte a volte ironiche a volte ciniche e la cosa mi mancherà molto.
Cosimo Scarinzi
Sbancor (deceduto in un frontale con un camion pieno di vodka sovietica) http://italy.indymedia.org/mail.php?id=953363
spero che abbia finto, come succedeva in questo articolo, e che riscriva presto reincarnato in qualcun’altro.
Anche se non sapevo chi fosse e non sempre ero d’accordo su tutto quello che scriveva.
Buona reincarnazione.
Ci sono oggetti preziosi, nei cassetti. A volte sono fotografie o fogli scritti. Li tieni li’ perché sai che, ogni volta, sanno svelarti qualcosa, allargano lo spazio in cui vivi. Poi, in un trasloco, semplicemente li perdi. Ho sempre pensato, forse solo per concedermi un sollievo, che fosse perché era il momento giusto, perche’ la risonanza era completa, ormai infinita.
Non e’ cosi’, purtroppo.
Avrei voluto leggere ancora sbancor, il suo punto di vista spiazzante, prezioso, necessario.
E avrei voluto bere un bicchier di vino, buono, con lui, almeno una volta…
prosit
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[…]
Che il drago della Morte
venga & si nutra del mio cervello
& carne & che sia altro
da me
Finché non venga il mio turno ed io
entri in quelle fauci e mi trasformi
in una cieca roccia coperta
di felci velate di rugiada che
io adesso non sono
Se non un universo di pelle e fiato
& pensiero che cambia e
mano che brucia & ammorbidito
cuore nel vecchio letto della
mia pelle Da questa singola
nascita nato di nuovo come sono
per essere così –
La mia identità ora senza nome
né uomo né drago né
Dio
Bensì il Me che sogna sotto
vere stelle con tenere
lune rosse nel mio ventre &
il Sole il Sole il
Sole mio padre visibile
che rende visibile il mio corpo
attraverso i miei occhi!
(Allen Ginsberg, “The Change: Kyoto-Tokyo Express”, 1963)
mi spiace moltissimo…
In mezzo a brutte notizie ci mancava questa pessima.
Ciao Sbancor
m.fv.
pioggia su di te, amico
Farewell my friend…farewell
“[…] e andò a zonzo e batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.”
(D. F. Wallace. I-D-B-B pag. 140 Oblivion, Einaudi)
mancherà a molti di noi.
Conobbi Franco Lattanzi all’inizio degli anni ’70 in un’occasione per me singolare, un convegno organizzato dalla rivista “L’Erba Voglio”.
Nonostante la stima che avevo nei confronti di Lea Melandri, infatti, non era quello un ambiente che, in quella mia fase di operaismo hard, frequentassi molto.
Franco veniva dalla Federazione Comunista Libertaria di Roma, uno dei gruppi allora definiti piattaformisti del movimento anarchico. Nonostante i piattaformisti fossero o, almeno, fossero ritenuti una versione bolscevizzante dell’anarchismo, il gruppo piattaformista romano, e Franco in particolare, tendeva ad un superamento del movimento anarchico specifico ed ad un’adesione ad un più ampio movimento di opposizione sociale, quello che, in maniera per la verità imprecisa, venne anche definito come l’autonomia diffusa.
In quell’occasione nacque un sodalizio molto forte. Entrambi, pur venendo da esperienze alquanto diverse, ci proponevamo una ridefinizione di una prassi e di un’elaborazione libertarie che ci sembravano allora, magari con qualche presunzione da parte nostra, inadeguate al livello dello scontro politico e sociale del tempo.
In quegli anni tentammo di ripercorrere una serie di elaborazioni teoriche del passato dall’anarchismo classista e comunista al consiliarismo passando per l’unionismo industriale degli IWW e per l’elaborazione della sinistra antiburocratica degli anni ’50 e ’60 come quella rappresentata dalla rivista “Socialisme ou Barbarie”. Questo mentre eravamo impegnati 25 ore al giorno nelle lotte e nel confronto con altre posizioni teoriche e politiche.
Dal nostro incontro, e soprattutto dalla nostra collaborazione con diversi altri compagni, nacque, in particolare, la versione stampata della rivista “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” che, sino al 1976 era uscita come un bollettino ciclostilato essenzialmente milanese.
La redazione della rivista era allora un laboratorio politico per noi appassionante, un luogo di confronto di idee, di ricerche, di esperienze.
Franco in quell’ambiente giocava un ruolo importante. Una solida preparazione, una straordinaria curiosità intellettuale, una qualità notevolissima dell’esposizione e della scrittura ne facevano un redattore di primo piano e, soprattutto, un interlocutore in mille avventure politiche ed esistenziali.
Attraverso di lui e dei compagni del suo milieu romano stringemmo, infatti, rapporti importanti con collettivi di lavoratori di Roma e ci misurammo in una discussione sovente stimolante.
La redazione allora era, è opportuno ricordarlo, prima un collettivo politico che un luogo di studio. La definizione “per l’organizzazione diretta di classe” era presa assolutamente sul serio.
La redazione di Roma della rivista portava nella discussione un’attitudine parzialmente diversa rispetto a quelle “nordiste”, una maggior attenzione al quadro politico e l’ambizione di svolgere un ruolo nelle vicende della sinistra sovversiva del tempo che erano sostanzialmente assenti nella componente classista dura dei compagni del nord.
Ricordo ancora le risate che ci facevamo quando Franco raccontava che diffondeva con altri il primo numero della rivista durante i fatti del ’77 romano pubblicizzandola come rivista moralista e fabbrichista.
Franco non era solo, in quegli anni, un compagno. Era anche un amico della lunga adolescenza che accompagnava il maggio rampante italiano. Con lui se ne combinavano di tutti i colori dalle mangiate pantagrueliche alcune delle quali meriterebbero una narrazione a parte alle avventure con le signorine che, in più di un’occasione, furono le stesse.
Con lui e con Giovanbattista Carrozza, il terzo membro più stretto del nostro sodalizio, conquistammo sul campo il soprannome di “I tre mandarini” ad opera di un ruspigante gruppo di operai toscani più classisti, almeno nelle intenzioni, di noi e decidemmo di dar vita ad una rivista letteraria dallo stesso titolo, rivista che non vide mai la luce.
Assieme vivemmo la fine del maggio rampante e le prime lotte del precariato sociale, la nascita di “Collegamenti Wobbly”, scoprimmo assieme, lo cito, che i colori del tramonto sono simili a quelli dell’alba.
Prendemmo poi strade diverse e il mutare stesso del nostro stile di vita portò a diradare i rapporti.
Restò un’amicizia importante e una serie di incontri anche se non frequenti. Mi parlava a volte dei suoi libri e delle sue ricerche, delle sue curiosità e delle sue inquietudini.
Sapevo di suoi problemi di salute e di sue sofferenze interiori e sin da quando lo avevo conosciuto mi era chiaro che il suo vitalismo, come sovente avviene ai vitalismi, era la maschera di tensioni profonde e di un sostanziale male di vivere.
Con lui, è buffo ricordarlo, giocavo a volte la parte del saggio. Ora non potrò più tirargli metaforicamente le orecchie e sentire le sue risposte a volte ironiche a volte ciniche e la cosa mi mancherà molto.
Cosimo Scarinzi
Sbancor (deceduto in un frontale con un camion pieno di vodka sovietica)
http://italy.indymedia.org/mail.php?id=953363
spero che abbia finto, come succedeva in questo articolo, e che riscriva presto reincarnato in qualcun’altro.
Anche se non sapevo chi fosse e non sempre ero d’accordo su tutto quello che scriveva.
Buona reincarnazione.
Ci sono oggetti preziosi, nei cassetti. A volte sono fotografie o fogli scritti. Li tieni li’ perché sai che, ogni volta, sanno svelarti qualcosa, allargano lo spazio in cui vivi. Poi, in un trasloco, semplicemente li perdi. Ho sempre pensato, forse solo per concedermi un sollievo, che fosse perché era il momento giusto, perche’ la risonanza era completa, ormai infinita.
Non e’ cosi’, purtroppo.
Avrei voluto leggere ancora sbancor, il suo punto di vista spiazzante, prezioso, necessario.
E avrei voluto bere un bicchier di vino, buono, con lui, almeno una volta…
prosit
riposa in pace