Girolamo De Michele oggi su Liberazione. Da meditare.
«Come è stato possibile che chi sapeva tutto della fabbrica, della catena di montaggio, del rapporto fabbrica-territorio negli anni Settanta e Ottanta, a un certo puntosi sia trovato completamente spiazzato di fronte al cambiamento?»
Questo interrogativo potrebbe, da solo, valere la fatica di leggere le densissime pagine dell’ultima opera di Aldo Bonomi, “Il rancore. Alle radici del malessere del nord” (Feltrinelli, 2008, 158 pp., € 12.00): un libro che bisognerebbe leggere in parallelo coi recenti “Paura liquida” di Zygmunt Bauman (Laterza, 234 pp., € 15.00) e “Spinoza: individuo e moltitudine”, a cura di R. Caporali, V. Morfino e S. Visentini (Il Ponte Vecchio, 2007, 408 pp., € 25.00) per comprendere le passioni della società nella quale siamo immersi, e progettare una via d’uscita per una sinistra che, in modo paradossale, non ha saputo cogliere le specificità dei cambiamenti in corso tra anni Ottanta e Novanta ed ha rimosso o sublimato le espressioni di questi mutamenti dietro esorcismi verbali o supponenze teoriche: «aver concentrato lo sguardo in alto, nel cielo della politica, ignorando ciò che nel frattempo accadeva in basso, sul territorio». Una sinistra che, con la scuola teorica dei Quaderni Rossi, «fu capace di leggere i grandi cambiamenti delle prime fasi dell’industrializzazione, di individuare nell’operaio massa fordista il cuore di una nuova composizione sociale affluente». Mentre nell’accademia erano di moda squisite discussioni salottiere sul disincanto, la secolarizzazione e l’oblio dell’essere, la Valcamonica conosceva quella concreta forma di disincanto derivante non dall’esegesi ermeneutica, ma dall’essere attraversati dalla ristrutturazione di un’economia a monocultura siderurgica: un effettivo «non ritrovare quelle condizioni effettuali dalle quali si era partiti», al cui termine si manifestava «un sordo rancore che coniugava modernamente arcaismi ed etnoecologia, la magica esaltazione del vivere la “montagna incantata” come luogo di salvezza dai cambiamenti tumultuosi che bussavano alle porte». Se si fosse applicato [a questi mutamenti il metodo dell’operaismo, della ricerca sul campo, «sarebbe stato relativamente facile capire quello che stava succedendo. Ma così non è stato». Dove abbia portato questa idea di cultura tutta teoria, che sorvola i luoghi reali per calarsi in festival e circoli letterari buoni per blandire il Principe, ma senza alcun rapporto con i luoghi in trasformazione, è sotto gli occhi di tutti.
Per chi voglia invece tenersi distante dai cieli del sublime e dell’effimero e continuare a sporcarsi le mani sul terreno della prassi, conviene far tesoro non solo del metodo di Bonomi, ma anche della sua narrazione. Che è narrazione, in primo luogo, di passioni: una vera e propria fenomenologia delle passioni, unificate dal «sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto» che accomuna la “paura operaia” alla “paura della scarsità”, del non avere accesso a sufficienti risorse. In secondo luogo, è narrazione plurale e multiforme di conflitti: non solo quelli identificabili come conflitti di classe, ma anche di tipo inedito, di non sempre facile decifrazione. Al conflitto di matrice fordista, la presunta fine del quale giustificherebbe l’idea di una società mite e pacificata, si affiancano i conflitti tra il locale e il globale; tra le piattaforme produttive e i luoghi di confine; tra flussi e luoghi; tra le nuove identità, ritrovate o inventate, e i nuovi stranieri; tra il bisogno di comunità come ritorno all’origine e la dimensione globale che dissolve le comunità. Lungi dal tendere al mite e all’omogeneizzazione, il sociale si sfrangia e moltiplica i punti di frizione, ciascuno dei quali richiede un lavoro di ricostruzione sul campo e di messa in opera di strategie di narrazione. Bonomi insiste molto su questa dimensione del narrare, e a giusta ragione: all’incapacità della sinistra tradizionale di narrare la società dell’ultimo quindicennio (della quale il nord costituisce, per certi versi, il laboratorio) corrispondono strategie narrative opposte ed efficaci, a dispetto dell’apparente rozzezza. Dietro la retorica berlusconiana del nuovo miracolo italiano «si celava il racconto del lavoro autonomo come ricaduta della deindustrializzazione e di un processo di fabbrica diffusa» che in modo differenziato si era dispiegato lungo un arco che, dal lavoro autonomo come forma flessibile di ristrutturazione e selezione (la Fiat Torino) alla trasformazione di una marca di frontiera in limes di attraversamento (l’autoporto di Gorizia), passando per l’affermarsi del polo lombardo del fare televisione (Milano) e del tentativo di riposizionarsi nella competizione, attraverso la rivendicazione di infrastrutture, di realtà come Brescia e Vicenza. In modo analogo, l’elaborazione della categoria dello “straniero” viene narrata all’interno di una produzione simbolica stereotipata, ma dotata di senso e con capacità di produrre effetti pratici, che reagisce alla frantumazione dell’identità tradizionale riposizionandola su modelli di identità perduta, non importa se realmente radicati in una passata tradizione o frutto di quella che Hobsbawm chiama “l’invenzione della tradizione”. Straniero è quindi solo in ultima battuta il rom di Opera: prima di questi sono stati narrati, cioè raffigurati (con la capacità tipica della retorica, fatta propria dalla Lega, di identificare in modo riconoscibile il proprio avversario) lo “straniero di provenienza”, estraneo alla società locale (dal meridionale all’extracomunitario); allo “straniero di professione”, che ricopre ruoli riconosciuti come parassitari o improduttivi dalla comunità locale; ma anche, è straniero chi si pone al di fuori della sottocultura del lamento. Come ha notato Bauman, la tradizionale duplice strategia di assimilazione/rifiuto della straniero diviene impraticabile nell’età della globalizzazione, con effetti devastanti in termini di percezione sociale del sé e dell’altro. Ciò che nel concreto osserva Bonomi è che questa strategia si coniuga, inevitabilmente, ad un grumo sedimentato di rancore che viene percepito come conflitto interiore (il rivendicare un’identità nell’epoca della frantumazione delle identità), soffocato al proprio interno e proiettato all’esterno, sul territorio occupato dagli avversari, dai competitori, dagli “altri”: «i rom, in questo senso, rappresentano il limite, il nostro possibile futuro di uomini sradicati da processi che ci paiono al di fuori delle possibilità di controllo». Le grigliate di Opera, dove un’intera comunità assedia poche decine di nomadi, sono espressione di una voglia di comunità figlia dell’apocalisse culturale (nel senso di De Martino: del non sapersi più riconoscere), della “solitudine della metropoli” come «condizione in cui qualunque allarme sociale manda in crisi il nostro modello di comunità originaria». Ma Opera è anche l’emblema di un conflitto tra luoghi e flussi che li attraversano: come la Val di Susa, «una comunità locale che si sente attraversata d un flusso e si mette di traverso»; come la base Dal Molin di Vicenza, un enorme flusso «che atterra in un luogo senza mediazioni, suscitandone la reazione virulenta» (e dove, aggiungiamo, praticando il conflitto trasversalmente si è pur vinto, strappando alla destra un caposaldo storico del Veneto). Più in generale, nel conflitto tra flussi e luoghi c’è, ammonisce Bonomi, «qualcosa di malato che avanza», e che, in assenza di una capacità di governo di questi conflitti, rischia di produrre “comunità maledette”, generatrici di rancore, “sangue e suolo”. La ristrutturazione selvaggia, il devastante impatto dei processi di globalizzazione, accompagnati da una crisi senza precedenti di legittimità delle istituzioni incapaci di fornire risposte e rassicurazioni (la crisi della “governance” studiata negli anni Ottanta da Foucault) ha prodotto per un verso un impasto di figure sociali, una nuova plebe (nell’accezione di Hannah Arendt) – gli “spaesati”, gli “stressati”, i “naufraghi del fordismo” – che costituisce uno dei serbatoi elettorali della Lega. per altro verso, queste comunità in crisi sono attraversate da uno spostamento emotivo dalla passione calda della politica verso le piccole, fredde passioni degli interessi: col conseguente proliferare di figure radicate nell’individualismo proprietario, nell’ambivalenza del sentimento egoistico che se alimenta sentimenti di chiusura e ripulsa, non di meno «esalta il farsi da sé, il contare sulle proprie forze». Si tratta di una moltitudine rancorosa, identitaria, socialmente invidiosa, che si contrappone nei fatti a quelle nuove identità radicate nel globale, siano esse portatrici delle passioni calde della critica alla globalizzazione o protagonisti di quell’economia dei flussi globali che sorvola i luoghi praticando la deresponsabilizzazione etica e la tecnocrazia come unico criterio decisionale.
Rispetto a questo quadro, la proposta di Bonomi è nel “mettersi nel mezzo” tra flussi e luoghi, nel “fare società”: «nessuna crescita economica da sola potrà garantire sviluppo della società, convivenza tra soggetti diversi e nemmeno livelli soddisfacenti di benessere. E pur non essendo sempre facile delineare una linea di separazione tra ciò che è artificiale, definito funzionalmente, e ciò che è contestuale, definito antropologicamente, la funzionalità deve saper recuperare anche quest’ultima dimensione a essa estranea». In altri termini, si tratta di uscire dalla narrazione di un’emergenza continua (dietro la quale c’è un nefasto impasto di scarsità di saggezza e mancanza di esperienza) e di costruire, anche a partire dalla narrazione di esperienze reali esistenti, o recuperabili dal passato – narrazioni sagge, dunque – «un’identità da società di mezzo, cioè quella dimensione intermedia tra società ed economia»: una dimensione che rimanda alle autonomie locali, ai percorsi di rappresentanza e di rappresentazione, alle autonomie funzionali. Una dimensione autopoietica.
“uno spostamento emotivo dalla passione calda della politica verso le piccole, fredde passioni degli interessi”?
Direi che in Italia il fulcro del sogno e della passione calda è e rimane la “famiglia”, con tutte le virgolette del caso. E purtroppo da queste parti una politica del sociale sembra alimentare molto meno dei denari o della sicurezza dei privati gli interessi (presunti) della fiamma del focolare.
Miopia.
bonomi rilegge da tempo e in modo meritorio le analisi del postoperaismo sulla trasformazione produttiva seguita agli anni 70 (bologna e fumagalli su tutti, e in parte negri per via di lazzarato), analisi che circolano da almeno 15 anni peraltro. Purtroppo gli eredi del pci, sia in direzione riformista che rifondante, le hanno sempre ignorate (più i secondi dei primi, a dire il vero), coi bei risultati che vediamo. Anche in area “antagonista” si è preferito utilizzarne solo la fraseologia piuttosto che capire cosa cacchio volessero dire (esemplari l’apporto militaresco di casarini o quello fantasmagorico di bifo, in questo senso).
bene l’analisi di bonomi dunque, per quanto trovo ancora debole e meccanicistica tutta la parte in cui dall’analisi materiale si passa a quella “sentimentale”, identificando nella paura identitaria l’origine dei problemi e non, più semplicemente e oggettivamente, nell’assenza di qualsivoglia governance dei processi, o persino riconoscimento della loro legittimità ed esistenza, i quali processi di conseguenza non potevano che marcire lì sul posto.
(faccio anche notare che paura e rancore non sono sentimenti contigui, semmai paura e sottomissione, e che più che rancore si dovrebbe rintracciare l’odio, è che quest’ultimo non è necessariamente di destra anche se a volte si mostra come tale).
Sottolineo anche che il richiamo iniziale del post al metodo della conricerca o inchiesta dei quaderni rossi e successivi, dovrebbe alludere anche all’importanza di letture dei processi sociali che non rinuncino per principio a rintracciare in essi, anche nei più sporchi, tracce d’altri “sentimenti” e in particolare i germi del desiderio, delle “macchine desideranti”. Perché non esiste strategia di sinistra (di emancipazione) che non ci si debba basare in positivo sulle spinte del desiderio, e se si pensa che non ve ne siano tanto vale il suicidio politico (il fatto che i sentimenti dominanti del popolo di sinistra siano da tempo la tristezza cosmica e la percezione di lontananza dal proprio tempo, di stranieri in questo mondo, piuttosto che la gioia e la passione, la dice lunga sull’abbandono delle “sane radici materialistiche” a favore di un atteggiamento di estenuato, nobile e aristocratico disincanto da mitteleuropa, una vera e propria ripulsa e nausea di fronte al diverso che dovrebbe un pochetto far riflettere, magari).
Anche perché diversamente si finisce nel solito cul de sac: non si può far politica dicendo semplicemente “è un mondo di zombie sfigati e di stronzi”, ma sostituire quell’atteggiamento suicida con “le trasformazioni sociali hanno prodotto un mondo di zombie sfigati e di stronzi” non ci fa avanzare granché nella comprensione dei processi, né delle strategie alternative, pratiche, da offrire a quegli zombie.
Era il 1997 e Paolo Rumiz pubblicava per “Editori Riuniti” ” LA SECESSIONE LEGGERA dove nasce la rabbia del profondo nord”. Poco piu’ di dieci anni fa. La situazione era gia’ drammatica ma sicuramente poco compresa, cosi’ alleggerita da ironia e sfacciataggine surreali. Qui il dramma successivo e conseguente: aver continuato a non comprenderla. A non comprendere che “con il successo del suo linguaggio popolare, la Lega Nord svela che e’ cresciuta una nuova pianta-uomo: quella dello spaesato, uscito dalla cultura di paese e smarrito in quella globale. Per radicarsi a uno spazio vitale in cui fatica a riconoscersi, non cerca risposte razionali ma simboli. E Bossi prima ancora che uno spazio politico, ha occupato questo territorio immaginario e mitico, dove non ha concorrenti”.
ecco, appunto, sta cosa che questi abitanti delle valli non cercano risposte ma simboli e narrazioni è una cosa indubbiamente molto intellettuale, ma un po’ mi fa antropologo dell’800 in visita agli aborigeni “che in fondo sono come noi”. sottovalutare e non rintracciare la razionalità delle scelte altrui non è molto razionale, imho
@Paolo
non è che Bonomi la pensi come te: la famiglia, sostiene “tiene”: ma non è più in grado di svolgere il ruolo di luogo protetto, veicolatore di passioni e interessi, di un tempo: «Si ha fiducia nella rete cortissima della famiglia, tiene un po’ il volontariato, ma sono completamente desertificate le reti sociali verso i vicini di casa, le parrocchie, gli abitanti del paese, i servizi del comune e lo stato». In questo senso, “mettersi in mezzo” significa chiedersi quali nuove reti di relazioni possono collegare nuclei locali (come la famiglia) a un mondo che appare, privo di collegamenti, lontanissimo.
sì, fare società.
pescato in rete un Tocqueville che assomiglia a Nostradamus.
“De la démocratie en Amérique” Alexis De Tocqueville, 1840
“… Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell’abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri…
Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po’ di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l’ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla.
Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all’universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo”.
@ spettatrice (e per i patiti di Tocqueville)
su un Tocqueville che sembra non Nostradamus, ma Foucault c’è uno studio straordinario, ma assolutamente ignorato: la seconda parte di “Fragile cristallo” di Sandro Chignola (editoriale scientifica, napoli, 2004). Non per caso Chignola è uno dei migliori lettori di Foucault.
Girolamo, grazie per la segnalazione
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ho già segnalato CATTEDRALE di Saverio Fattori. E’ uscito il Capitolo VII e visto che sono in vena di citazioni ecco l’appunto sulla storia generazionale di un po’ di ‘fascisti naturali’. Ok, è solo citazione, non sono favorevole alle generalizzazioni. Però….. gli anni ’80 per certe cose aiutano/aiutarono
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…Con il Frank mi è subito chiaro il problema. Non posso giocare all’operaio che rivendica la propria anzianità aziendale come valore assoluto degno di rispetto. Non inventerò filastrocche su come tutto una volta era meglio, i vecchi tempi eroici di chissà quale cazzo di eroismo. Suonerebbero stonate con gente nata nel mezzo degli anni Ottanta. In queste generazioni non ci sono residui di etica politica a presiedere azioni e pensieri. Sono tutti fascisti naturali, nessuna dottrina ha corretto l’istintività. Sono cresciuti con Studio Aperto, anestetizzati e iperattivi al tempo stesso…..
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http://www.carmillaonline.com/archives/2008/05/002625.html#002625