STRADE

 Questa intervista a Simona Vinci è uscita sul numero scorso di Mente e Cervello. Ve la porgo e vado a chiudere il sudato scritto austeniano.

Periferie, paesaggi, capannoni. Centri commerciali. Multisale. Outlet. Ipermercati. Luoghi dove si va per acquistare, e quasi sempre per acquistare le stesse cose: telefoni cellulari, scarpe, gadget tecnologici, abiti. Immagini che sfilano ai due lati di strade sempre uguali, e che con sempre maggiore frequenza è possibile trovare nei romanzi italiani: nei fatti, quella che un tempo era l’on the road della trasgressione e della fuga verso la libertà sta diventando l’oggetto dello sguardo pensieroso e severo degli scrittori. Caso eclatante, quello di Niccolò Ammaniti in Come Dio comanda, dove lo squallore paesaggistico ha un ruolo ben più importante del semplice sfondo. Poi sono venuti Nicola Lagioia, Gianni Biondillo, Beppe Sebaste nella raccolta Periferie, curata da Stefania Scateni sugli echi delle rivolte parigine delle  banlieues.

   Ma raccontare i “luoghi degli ultimi” non è soltanto un gesto di disincanto e di pietà: i luoghi del degrado sono, spesso, anche quelli dove nascono nuove possibilità. Lo testimonia perfettamente il secondo dei due testi di Simona Vinci usciti nel giro di poche settimane. Oltre a Rovina (edizioni Ambiente, pagg. 140, euro 10), dove  la scrittrice affronta direttamente il tema della speculazione edilizia in un’ ambientazione unica, la via Emilia, tratto Parma-Reggio, il romanzo Strada provinciale Tre (einaudi, pagg. 228, euro 15): dove l’allontanamento dalla città di una giovane e misteriosa donna, Vera, fra camion, gas di scarico e reietti, coincide con l’allontanamento dall’identità costruita. Di lei non sappiamo nulla, se non il suo desiderio di lasciarsi ogni cosa alle spalle. La strada corre senza fine, scriveva Tolkien: ma qui, sulla strada, non c’è l’avventura. O, se c’è, è amarissima.

 Simona Vinci, peraltro, viaggia non poco: e appena disfatta la valigia, racconta: “Dovevo andare in Africa per capire cos’è davvero una strada, cosa significa, cosa ha significato nella storia dell’umanità, vedere questa linea di terra battuta strappata alla foresta a colpi di machete sulla quale si riversano migliaia di persone, a piedi, trasportando per chilometri l’acqua, il cibo…le nostre strade sono un inferno percorribile solo dalle automobili e dai camion, camminare è impossibile, incontrarsi è impossibile”.

 Questo sembra uno dei tuoi temi chiave, ultimamente. Il cambiamento del paesaggio e la profonda modifica della funzione, anzi, dell’idea stessa di strada. Mi pare che non da oggi tu racconti le ferite del paesaggio con la stessa lucidità e lo stesso dolore con cui hai narrato e narri il corpo. E’ così?
Corpi e paesaggio sono la stessa cosa. Noi siamo il paesaggio che abitiamo, come noi lo modelliamo, così lui modella noi, soffriamo delle stesse malattie, delle stesse nevrosi. L’inquinamento – anche estetico- del  paesaggio si ripercuote sui nostri corpi e sulle nostre menti. Mi sembra incredibile che così pochi se ne accorgano: tutto il male che facciamo ai luoghi che ci ospitano ci torna indietro moltiplicato. E’ dunque male che facciamo a noi stessi. Abbiamo riempito di cemento tutto quello che potevamo, abbiamo costruito, spianato, modellato, invaso, e quando non riusciamo a crescere in orizzontale lo facciamo in verticale. Tonnellate di cemento che ricoprono il nostro paese in quella che Antonio Cederna profetizzava come un’ininterrotta crosta edilizia. E continuiamo, senza tregua. Fino a che resterà un singolo metro cubo di spazio da occupare. Il nostro territorio è un corpo ammalato, in fase terminale. Dal cemento non si torna indietro, una volta che lo hai versato, lì rimane. E lo stesso vale per l’inquinamento che si deposita nei nostri corpi.

 Ma in questo osservare e riproporre non sei sola. Sembra che stia crescendo, infatti, l’attenzione dei narratori verso le periferie e verso la devastazione urbana. Eppure, fino a meno di dieci anni fa, i non-luoghi che ora non possono che destare orrore contenevano persino una promessa di libertà. Come se in essi l’identità potesse essere sciolta da ogni legame. Cosa è cambiato?
Semplicemente, quei luoghi non hanno mantenuto le promesse. Anzi. Quella promessa di libertà si è rivelata una trappola: luoghi del deserto, senza centro, senza senso, senza bellezza. Luoghi dove si passa, si transita, ma dove non si può sostare, dove non si crea comunità.
La mancanza di bellezza, ma soprattutto di possibilità del paesaggio urbano incide  dunque sui nostri corpi. Credo, non casualmente, che le conseguenze della fuga e della corsa di Vera lungo la strada provinciale si ripercuotano soprattutto sul suo corpo: a cui nega il cibo, la pulizia, il riposo. Un corpo violato. Ma non del tutto solo: perché le possibilità negate dalla strada  vengono invece dagli emarginati. Un vecchio, e un immigrato,  Dimà, che formano un gruppo elettivo con lei. Ka-tet, lo avrebbe chiamato Stephen King.  Qual è la loro funzione?
Il vecchio e Dimà, il ragazzo ucraino che la protagonista incontra durante la sua fuga, sono in un certo modo lo specchio di ciò che lei vorrebbe essere, ciò in cui aspira a trasformarsi: un paria, un essere invisibile. Allo stesso tempo, sono una nuova possibilità di famiglia basata non sui legami di sangue o sulle promesse – niente di consacrato o di legale- ma piuttosto sul sostegno reciproco che spesso ci si offre tra persone che non hanno nulla e che condividono dolori e perdite simili. In questo momento in cui si fa di tutto per ribadire un concetto di famiglia che nella realtà va sgretolandosi e che non risponde più alle esigenze vere della gente, mi sembra fondamentale provare ad inventarsi nuovi modi di ‘fare squadra’, nuove possibilità di reti sociali fondate su presupposti nuovi. Reti elastiche però, non gabbie. 
Per questo, dunque, con il tuo personaggio hai compiuto un’operazione di azzeramento? Età e provenienza non contano. A mala pena conterebbe il sesso. Anche qui: una constatazione o l’ipotesi che poter fare a meno di questo possa costituire anche una forza?
Qualsiasi definizione ti diminuisce, qualsiasi identità ti lega, ti chiude dentro una gabbia. Il tentativo del personaggio del romanzo è quello di scrollarsi di dosso tutte le possibili identità, tutte le possibili definizioni. Anche se naturalmente questo è impossibile: ogni volta che ci si ferma da qualche parte, ogni volta che si entra in una qualsiasi ‘comunità’ si acquista un’identità, e si viene definiti. Sogno identità elastiche. Anche se mi pare un ossimoro.
Torniamo al parallelo con il corpo: non è strano che alla devastazione dell’ambiente circostante, alla fine della bellezza paesaggistica, corrisponda l’ossessione per la bellezza corporea? Modificare, tagliare, levigare, gonfiare. Soprattutto il corpo femminile sta diventando un simulacro necessariamente perfetto, necessariamente privo di ogni segno, di ogni cicatrice. Almeno visibile…
Già lo pensavo dieci anni fa, che il corpo è l’unica cosa che possediamo davvero, o meglio che ci illudiamo di possedere, è sul corpo, sul nostro corpo, che possiamo intervenire, modificandolo, plasmandolo…quando non possiamo più esercitare un controllo, o qualsiasi forma di potere, su nient’altro, abbiamo sempre il corpo (penso all’incidenza dell’anoressia tra le adolescenti, ad esempio) in realtà è un’illusione perché anche i nostri corpi non ci appartengono; quell’immagine idealizzata che cerchiamo disperatamente di raggiungere, quell’immagine che ci rimandi un’identità che finalmente ci somigli, in realtà è un’immagine che niente ha a che fare con noi, è un modello che ci viene venduto, esattamente come tutto il resto. E’ un’idea di qualcun altro. E vorrei anche sottolineare che non credo che il tema del corpo sia un tema squisitamente femminile, anzi. Penso che sia un tema enorme, che tocca tutti. Parlare del corpo, dei corpi, è parlare di tutto il resto: penso alle sperimentazioni farmaceutiche, alla compravendita di parti del corpo, alla pornografia, alla medicalizzazione, all’effetto delle armi chimico-batteriologiche, alle storie dei soldati americani esposti ai rischi dell’uranio impoverito durante la guerra del Golfo…sto facendo esempi in tutte le direzioni….per dire che è sul fronte del corpo, quello dei poveri e dei deboli, soprattutto,  che si combattono le battaglie peggiori…poi non so…sono appena tornata dall’Africa, quando vedi centinaia e centinai di bambini affetti da malattie come la poliomielite…malattie per le quali esiste un vaccino e che in Occidente sono state debellate, ti prende una gran rabbia e ti fai un sacco di domande…
A dispetto di tutto, la tua Vera, comunque, va avanti e non abbandona la strada. E’una, mi viene da chiedere, speranza?
Più che una speranza, direi una possibilità. Il romanzo si chiude senza una direzione definitiva. Io non lo so cosa accadrà a quella donna, forse continuerà a camminare in eterno, forse è già morta, forse, non esiste neppure, è una specie di chimera.
In effetti, una chimera sarebbe a suo agio nel tuo romanzo. Che ha toni epici. Come se fosse un fantasy iper-realista, con una fuga che continua all’infinito, proprio come nella Torre nera. Significa che la nostra realtà ha toccato, o è vicina a toccare, la rovina al punto da far coincidere la fantascienza apocalittica del passato con la realtà?
Precisamente. In questo senso, penso che l’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, sia emblematico. E’ una specie di fotografia sovraesposta del futuro prossimo.

 

 

3 pensieri su “STRADE

  1. L’inquinamento – anche estetico- del paesaggio si ripercuote sui nostri corpi e sulle nostre menti. Mi sembra incredibile che così pochi se ne accorgano: tutto il male che facciamo ai luoghi che ci ospitano ci torna indietro moltiplicato
    e’ verissimo e mi fa rabbia leggerlo. Vado sempre a piedi, in bici, in autobus, viaggio in treno. Diventa ogni giorno più difficile. Non vi dico la rabbia quando attraverso sulle striscie pedonali e le macchine accelerano nella speranza di riuscire a passare prima dei pedoni. Le scatole di metallo e benzina invadono i marciapiedi e ti costringono a giri assurdi. Respiri aria di merda e vai incontro a certe facce da SUV che vedresti volentieri appiccicate alla carta moschicida. Camminare sulle strade e fuori dai sentieri e attrezzature del trekking è da sfigati. La peggiore tra le figure umane di questo mondo di ‘vincenti’.
    Se l’inverno è brutto e la macchina considerata ‘necessaria’, l’estate è ancora peggio. Stesse facce da SUV imprigionate in loculi semoventi col condionatore a palla. Nei tempi intermedi d primavera e autunno sono scocciati perchè non sanno come regolare il calore e il ghiaccio. Ho sempre l’impressione che buona parte degli umani sotratti alla mobilità della macchina sarebbero costretti in una condizione di vermi. Non lo dico a voce alta, spero sempre che non mi stendano mentre sttraverso la strada 🙂
    besos

  2. abito in una piccola città di provincia, e anche qui il traffico è caotico. stamattina, ho assistito a questa scena: una macchina è impunemente salita sul marciapiede per svoltare a DX, evitando la fila ferma al semaforo che le rallentava l’arrivo all’incrocio. Il problema è che la macchina era una cinquecento “storica” e l’autista un attempato settantenne. non aveva la faccia da SUV: siamo impazziti tutti?

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