ALTRE DUE COSETTE SU TOLKIEN

Ma quanto si parla di Tolkien, eh? Dopo anni in cui la discussione sul professore è stata relegata ai margini, tutti scrivono de Il signore degli anelli e de Lo Hobbit, si fanno convegni (lunedì, a Milano) e mostre (mercoledì, a Roma) e anche dall’estero ci si interessa allo strano caso dell’autore preferito delle destre.
Ci tornerò in modo ampio, nei prossimi giorni, qui o altrove. Per ora, mi limito a segnalare due interventi: quello di Wu Ming  ieri e quello di Edoardo Rialti (che ne aveva già scritto benissimo) sul Foglio di oggi, dove si ricorda anche l’uscita, più che simbolica, di Maria Elena Boschi contro i maghi e a favore di Draghi, con tanto di innocente bambino munito di cartello. Simbolica non perché Tolkien vada ascritto alla sinistra (ma per favore), ma perché dell’immaginario, del mito, del fantastico, molta sinistra non ha capito nulla, e spesso ancora non capisce.

Quando, nel 2010, intervistai Wu Ming 4 per Repubblica su un convegno tolkieniano, quell’intervista si apriva così:
“Su Tolkien – racconta Wu Ming 4 – pesa un’ipoteca ormai quarantennale dovuta sostanzialmente a due fattori concomitanti. Il primo è l’approdo nel nostro paese di Tolkien: che è stato traghettato da intellettuali vicini alla destra e anche all’estrema destra neofascista e misticheggiante. Questo fece sì che per molti anni venisse considerato l’autore tradizionalista che non è mai stato. Il secondo fattore riguarda la sottovalutazione o la misinterpretazione da parte della critica letteraria di sinistra, che – con le rare eccezioni di Portelli e Lodigiani – ha applicato a Tolkien il pregiudizio nutrito su tutta la letteratura fantastica”.
Un pregiudizio pesante, che – sottolinea Wu Ming 4 – prende alla lettera alcune teorie di Todorov giustificando il fantastico solo come allegoria del reale. “E dunque va bene Orwell, vanno benissimo 1984 e Fattoria degli animali: ma non chi scrive fantastico in quanto tale. Tolkien sosteneva di non scrivere allegorie: distingueva, anzi, fra allegoria e applicabilità, laddove la prima è un atto di imperio da parte dell’autore, che racconta una cosa per parlarti di altro come fa, appunto, Orwell. L’applicabilità è invece la libertà del lettore: è lui che può riscontrare nell’opera una vicinanza con le cose che gli accadono attorno. L’applicabilità significa lasciare sempre aperta la narrazione”.

Quali furono le reazioni? Riccardo Chiaberge sul Sole 24 ore e Franco Cardini mi accusarono di voler “consegnare Tolkien alla sinistra”. Così Cardini: “la giornalista coglie l’occasione per lamentare il fatto che per troppo tempo la “sinistra” abbia lasciato alla “destra” un equivoco monopolio sul grande autore di heroic fantasy, per ribadire il giudizio sull’inconsistenza della “cultura di destra” e per chiedere che finalmente si faccia giustizia e si restituisca il filologo e romanziere cattolico inglese all’ambito culturale cui egli naturalmente e di diritto appartiene. Ch’è, ovviamente, quello della “sinistra”.”
Il mio unico intento era ed è quello di contribuire a restituirlo alla letteratura, semmai, ma pazienza.
Ancora: quando, nel 2016, realizzai con Arturo Stalteri il ciclo di Pantheon dedicato a Tolkien, mi sono trovata nella graziosa posizione della fetta di prosciutto in un panino. Da una parte moltissimi ascoltatori di Radio3 insorsero contro una trasmissione dedicata a un autore “misogino” e “fascista”. Dall’altra, da destra, sono stata pesantemente accusata di non applicato la par condicio politica su Tolkien, non invitando studiosi di altra parte.
La par condicio. Su Tolkien.

Ripeto, ci tornerò. Ma resta l’anomalia di un paese dove di un autore immenso si parla per questioni politiche. Non è grave: se almeno servisse a farlo leggere.

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