ANTONIO TABUCCHI, PLATONE, LA GASTRITE, GLI INTELLETTUALI

Questo è un post molto lungo, e persino un po’ datato, perché la lettera di Antonio Tabucchi ad Adriano Sofri, con ampia incursione nelle parole di Umberto Eco, è addirittura del 1997. Parla di intellettuali, categoria di cui da anni  si dice tutto il male possibile, e il problema è che non è più solo qualche politico – o tutti – a farlo, ma gli stessi intellettuali, se come tali devono essere definiti coloro che lavorano con le parole e il pensiero. Anche sui social. Gli intellettuali non ci sono più! Tacciono! Si sottraggono!, dicono costoro. Eppure, quando sono davanti a un gesto intellettuale, tacciano chi lo compie di superficialità, violenza, vena autopromozionale. Chi non lo fa, tace, o magari solidarizza, chissà, in privato, fosse mai che si perde la possibilità di un passaggio televisivo.
Eppure, quando si pone la questione, ti capita di sentirti dire: eh, ma gli intellettuali sono arroganti, umiliano gli altri con le loro conoscenze. Non sarà che, almeno alcuni, quelle conoscenze le mettono a disposizione? Non sarà che siamo arrivati a un punto che chiunque sappia qualcosa più di noi è considerato individuo da abbattere perché, maledizione, si rifiuta di scendere di livello per compiacere gli interlocutori, si rifiuta di diventare quello specchio consolatorio secondo il quale uno vale sempre uno e ognuno ha diritto, ancora una volta maledizione, di occupare ogni ruolo che desidera, e di scalare le montagne anche se al massimo ha fatto due sessioni di pesi nella palestra sotto casa?
Dunque, care e cari, ecco cosa significa essere intellettuali. Ecco a voi l’intervento strepitoso di Antonio Tabucchi del 1997. E’ lungo e spesso non facile. Ma leggendolo impariamo tantissimo, e così dovrebbe essere sempre. 

 

Vecchiano, 25 aprile 1997
Caro Adriano Sofri,
il motivo di questa mia lettera aperta è costituito dalla lettura di un articolo di Umberto Eco nella sua rubrica settimanale «La Bustina di Minerva» (L’Espresso, 24/4/1997), che si intitola: «Il primo dovere degli intellettuali: stare zitti quando non servono a nulla». La tesi avanzata da Eco, che tutti noi consideriamo ovviamente un intellettuale dotato di ottima cultura, è esposta con i canoni della geometria, e nella sua astratta impostazione non si riferisce a nessuna situazione specifica (oltre ai sassi dai cavalcavia) del momento storico che tutti noi stiamo vivendo, ma si avvale di esempi metaforici che tuttavia potrebbero plausibilmente essergli applicati. Su tale articolo ho riflettuto e sto riflettendo, e mi piacerebbe sentire la tua opinione su questo tema perché ti considero un intellettuale dotato di grande lucidità di analisi, ma soprattutto perché apprezzo la tua libertà intellettuale (la parola libertà, diretta a te suona purtroppo beffarda) che è spregiudicata quanto necessario ma mai arrogante e assiomatica; e il tuo giudizio che diffida del conformismo in un paese come il nostro dove il conformismo è un fatto antico, lo trovo apportatore di «novità». E, finalmente, perché ti considero un intellettuale creativo, da una parte in virtù della dialettica del tuo pensiero, che come ogni dialettica è creativa, in quanto produce un terzo elemento nuovo; e, per un’altra parte, a causa della situazione che stai vivendo, che è (malgrado te, e ti prego di scusarmi e di non considerarmi cinico) portatrice di una «novità» culturale, magari allarmante, che io ho deciso di cogliere subito. Ed è per questo che mi dirigo a te e che ti propongo un dialogo sui mezzi a stampa dei quali ciascuno di noi dispone.
Inoltre mi interessa il tuo punto di vista. Dico «punto di vista», forse con il vizio del mio punto di vista: cioè il punto di vista di chi, avendo ormai scritto molti romanzi, ha praticato con i suoi personaggi i punti di vista più disparati, giungendo alla convinzione che il punto di vista, se in narrativa ha un’importanza rilevante, nella vita è un fatto fondamentale. E già l’antico Poeta spagnolo diceva che «una cosa piensa el bayo y otra quien lo ensilla» e cioè, che una cosa pensa il cavallo e un’altra chi gli sta in sella.
Non sono mai stato molto dotato nel disegno geometrico. Per questo ai tempi del liceo ammiravo il mio compagno di banco che senza problemi riusciva rapidamente a trasformare un solido, perfino un dodecaedro, in una figura piana distesa sul piano del quaderno e leggibile comodamente da un unico punto di vista: da colui che lo guardava di fronte. Io mi rendevo conto che quella figura sul quaderno era la conquista della purezza, della quintessenza, l’olimpica serenità acquisita dal dodecaedro che perdeva l’inquieta voluminosità con cui ingombrava lo spazio. Eppure, per quanti sforzi facessi in direzione dell’idea platonica (chiamiamola così) del dodecaedro, la mia tendenza era di farne il giro per guardarne le dodici facce, osservando la sua, senz’altro più volgare, materialità. Quella era, se così posso esprimermi, la mia ingenua illusione di «capire» il dodecaedro: cambiare punto di vista per guardare le sue facce. Questa mia naturale inclinazione fu in seguito confortata da molte letture di libri scritti da gente che sostanzialmente girava intorno ai dodecaedri (e che sarebbe noioso elencare) e, fra l’altro, da un illuminante saggio di Umberto Eco (L’opera aperta: era il 1962, e io ero un fanciullo) dove trovai un saggio assai intrigante dedicato alle poetiche di Joyce. In esso il «punto di vista» era addirittura interpretato come «metafora epistemologica» (in questo caso attraverso il linguaggio). O meglio, per dirla con Eco, «come se Joyce avesse confusamente avvertito la possibilità di vedere le cose in alcuni modi diversi da quelli tradizionali e avesse applicato al linguaggio delle “ottiche” differenti».
Quello che mi interessò di più, nell’abilissima analisi che Eco faceva di Finnegans Wake, era la reversibilità del Tempo. Applicando alla narrativa di Joyce la teoria di uno scienziato americano (Hans Reichenbach, Direction of Time, 1956) Eco dimostrava come Joyce sconvolgesse la narrativa tradizionale (e dunque, è bene specificare, la lettura tradizionale della concatenazione logica degli eventi). Osservava Eco che «se nel romanzo tradizionale, A (ad esempio la cupidigia di Don Rodrigo) è visto come causa di eventi B, C, D (fuga degli sposi, ratto di Lucia, espatrio di Renzo), in un libro come Finnegans Wake si verifica invece tutt’altra situazione: a seconda di come un termine viene inteso, cambia totalmente la situazione prospettata nelle pagine precedenti, e da come un’allusione viene interpretata, l’identità stessa di una apparizione remota viene posta in causa e deformata» (U. Eco, ora in Le poetiche di Joyce, Bompiani, 1966 varie ed. successive). La cosa, non si può negare, apriva prospettive epistemologiche assai attraenti. Leggere la realtà «al rovescio», scambiando l’asse causa-effetto era allettante. E se alla reversibilità del Tempo (e del flusso) joyciano si sostituisce la «reversibilità della Storia», la lettura si fa ancora più interessante e può riservare sorprese, soprattutto quando le cause sono avvolte nel mistero.
Per fare questo non è indispensabile possedere la maestria del linguaggio di Joyce, basta averne capito il principio. Anche perché il «sistema» di Joyce ha qualcosa che richiama un noto problema di logica (passato poi alla sciaradistica) che si può enunciare in questi termini: un condannato sta in una cella dove ci sono due porte, ciascuna delle quali sorvegliata da un guardiano. Una porta conduce al patibolo, l’altra alla salvezza. Un guardiano dice sempre la verità, l’altro dice sempre le menzogne. Il condannato non sa quale è la porta della salvezza e quella del patibolo, e non sa quale è il guardiano veritiero e quello menzognero. Tuttavia ha la possibilità di salvarsi, ma può fare solo una domanda a uno solo dei guardiani. Quale domanda deve fare? Questa la soluzione. Per salvarsi egli deve chiedere a una delle sentinelle quale sia la porta che secondo il suo collega conduce alla salvezza (o al patibolo) e poi cambiare la porta che gli sarà indicata. Infatti se interpella il guardiano veritiero, costui, riferendo in modo veritiero la menzogna del collega, gli indicherà la porta sbagliata. Se interpella il guardiano menzognero, costui, riferendo in modo menzognero la verità del collega, gli indicherà la porta sbagliata. In conclusione: bisogna sempre cambiare porta. Morale: per arrivare alla verità bisogna sempre stravolgere l’opinione di un’opinione. (È già la seconda volta, caro Sofri, che faccio degli esempi che data la tua condizione ti potrebbero sembrare di dubbio gusto. Ti prego di scusarmi.)
Naturalmente la reversibilità della «logica» joyciana sconvolge anche la cosiddetta «dietrologia». Nel senso che il «dietro» è già qui, davanti a noi. Supponiamo dunque che la lettura della tua vicenda giudiziaria, alla luce di un Joyce spiegato da Eco, possa servire da «illuminazione» per qualcuno, su alcune pagine di storia italiana recente. Questo qualcuno, se riesce a fare un ragionamento di questo genere è a suo modo un intellettuale, nel senso che usa l’intelletto e una sua metodologia. E costui naturalmente si inquieta, perché la faccenda gli appare assai inquietante. E la tua vicenda, oltre che costituire l’esempio di una sentenza che a molti appare ingiusta perché priva di prove verificabili, assume una dimensione molto più vasta: è davvero il perturbante di freudiana memoria, un unheimlich non più desunto da un racconto di Hoffmann, ma dalla Storia. Insomma diventa (mi dispiace per te che stai lì, ma mi spiace anche per noi che stiamo qui) un oscuro segno (semiologicamente inteso) che risemantizza le pagine precedenti. E a questo punto la tua vicenda giudiziaria non sarebbe più tanto l’effetto di una causa, quanto, paradossalmente, la causa postuma di un effetto preventivo. Come dire: non è l’appetito a giustificare il cibo deglutito, ma è il cibo deglutito a giustificare l’appetito.
Il discorso è complicato? Certo che è complicato. Ma io e te possiamo tentare di farlo, perché siamo due intellettuali che abbiamo letto Joyce spiegato da un intellettuale come Umberto Eco. Ma quale è la figura dell’intellettuale che propone oggi Umberto Eco nell’articolo dell’Espresso che ti dicevo? Te ne cito un brano: «Se li si prende per quel che sanno dire (quando ci riescono) gli intellettuali sono utili alla società, ma solo nei tempi lunghi. Nei tempi brevi possono essere solo professionisti della parola e della ricerca, che possono amministrare una scuola, fare l’ufficio stampa di un partito o di una azienda, suonare il piffero alla rivoluzione, ma non svolgono la loro specifica funzione. Dire che essi lavorano nei tempi lunghi significa che svolgono la loro funzione prima e dopo, mai durante gli eventi. Un economista o un geografo potevano lanciare un allarme sulla trasformazione dei trasporti via terra nel momento in cui è entrato in scena il vapore, e potevano analizzare vantaggi e inconvenienti futuri di questa trasformazione; o compiere cento anni dopo uno studio per dimostrare come quell’invenzione aveva rivoluzionato la nostra vita. Ma nel momento in cui le aziende di diligenze andavano in rovina o le prime locomotive si fermavano per strada, non avevano nulla da proporre, in ogni caso assai meno di un postiglione o di un macchinista, e chi avesse invocato la loro alata parola si sarebbe comportato come chi rimproverasse a Platone di non aver proposto un rimedio per la gastrite».
E qui, caro Sofri, colui che da intellettuale (ma io aggiungo anche da poeta e scrittore, parole che Eco non usa mai) sperava di usare la poetica dell’illuminazione joyciana come chiave epistemologica (senza parlare dell’illuminazione rimbaudiana, andando più indietro, perché il veggente esplicitato da Rimbaud ha una storia lunga, come dirò più tardi, nel percorso dell’«intellettualità»), costui, dicevo, si sente fortemente scoraggiato. Chi eventualmente avesse intuito che il Finnegans Wake è «un libro che non finisce perché è cominciato in un certo modo, ma si può dire che cominci perché finisce in quel modo» (U. Eco, Le poetiche di Joyce, cit.), si trova di fronte a una sorta di divieto. Quel principio non serve a niente: serve solo a Joyce per scrivere il suo libro. E, certo, non tutti sono Joyce. Ma, come dice Gertrude Stein, «i piccoli artisti hanno tutti i dolori e le infelicità dei grandi artisti, solo che non sono grandi artisti». E se questo principio è vero, è anche vero che, con i loro dolori e infelicità, tutti i piccoli artisti, anche se non possono scrivere il Finnegans Wake, possono almeno «sentirlo» e adoperarlo come grimaldello per scardinare la porta della realtà.
Insomma, quei piccoli artisti (o se vogliamo, «intellettuali») non è che debbano scrivere un’opera come il Finnegans, ma possono applicarne la funzione conoscitiva. Cercare cioè di percorrere il discorso al rovescio con una logica che non ubbidisce a una sequenza conformista della realtà, e che ha uno statuto agnitivo, quel tipo di conoscenza, come dice T. Wilder (che fra l’altro Eco citava proprio nel suo saggio) che è data «dall’intelligenza che riduce la paura» (anche perché la paura fa novanta). Insomma siamo al principio di Hermann Broch il quale parla di «missione» che Eco, fra l’altro, nega esplicitamente. Quella «missione del poetico» che consente all’artista di superare la sensatissima ma limitatissima logica di Wittgenstein, che invece sembra additata a modello dall’articolo di Eco, che consente di parlare solo di ciò che si conosce. È proprio qui che la mia interpretazione dell’intellettuale diverge da quella di Eco e francamente preferisco il «secondo» Wittgenstein quando dice che in certe cose una logica troppo perfetta e liscia è pericolosa perché ci si può scivolare come su una lastra di ghiaccio (dice: «Datemi l’attrito e il terreno ruvido»; cito a memoria).
Il compito dell’intellettuale (ma, vorrei insistere, quello dell’artista) è proprio questo, caro Adriano Sofri: rimproverare a Platone di non aver inventato il rimedio per la gastrite. È questa la sua «funzione» (e, specifico, funzione sporadica): ed è per questo che in un mio precedente articolo sul Corriere, rispondendo a un «Causeur» che voleva fare degli intellettuali un’Istituzione, avevo parlato di «funzione». Altrimenti che ce ne facciamo di Joyce? O di Benjamin? O di Rimbaud? Li buttiamo via? Li teniamo rilegati in cuoio nelle nostre preziose librerie o li ficchiamo in soffitta come «oggetti desueti»? E che fare di Pasolini, il nostro amato Pasolini, che affermò Io so su tutti i misteri d’Italia? Del suo «sapere» noi sappiamo che di fatto non sapeva niente. Eppure sapeva tutto. Ce lo siamo già dimenticato? Io non me lo sono dimenticato, e credo neanche tu, caro Sofri. Però forse non è superfluo citare quel suo testo intitolato Io so che è del 1974:
«Io so, io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (perché in realtà è una serie di golpes istituitisi a sistema di protezione del Potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del ’74.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato dunque sia i vecchi fascisti sia i nuovi fascisti e insieme gli ignoti [… ecc. ecc.].
Io so, perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace, che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero e coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembravano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».
Del resto, che Pasolini, già negli anni Sessanta, intendesse la figura dell’intellettuale in modo opposto da quella che cercava di diffondere la neoavanguardia, è palesato da un suo testo intitolato Reportage sul Dio, che l’intellighenzia italiana sembra aver rimosso dal suo panorama. Ma io l’ho conservato. È del 1966, anno delle Poetiche di Joyce di Eco, e apparve in un volumetto dell’editrice Sadea (Quindicinale di narrativa n. 7, lire 300) che si vendeva nei chioschi dei giornali, dove trovavi in un mucchio selvaggio (titolo di una bella rivista giovanile, fra l’altro, di tipo intellettuale-creativo) nomi come Hamsun, Traven, Caldwell. In esso Pasolini dettava all’aspirante giornalista di un settimanale liberal di allora, una sua sociologia del football, pretesto per una sociologia della sua Italia, eseguita con gli strumenti dello scrittore (e dell’intellettuale), rispetto agli strumenti della sociologia ortodossa. E lì, sbarazzandosi dell’eleganza di Arbasino («del resto su questo punto – abbigliamento, linguaggio – cerca di avere la consulenza di Arbasino»), diceva fra l’altro Pasolini: «Per quel che riguarda, dunque, il calcio come gioco e come tifo, ne sai abbastanza. Ti resta da fare qualche sondaggio sulle società calcistiche; sondaggio, dico, scandalistico. Per quelli di carattere sociologico, ci penserò io, a meno che tu non ti voglia rassicurare con la consulenza, per definizione rassicurante, di Umberto Eco».
Pasolini morì giovane come «colui che al cielo è caro», destino antico di certi poeti, e non so se ebbe occasione di continuare quel suo discorso sociologico. Ma quella pagina resta, e se qualche giornale la volesse ripubblicare ora ha l’indicazione bibliografica. Questo «sapere» di Pasolini non appartiene dunque alla logica di Wittgenstein, ma a una conoscenza congetturale e creativa, a quel «qualcosa che non è conoscenza intellettuale e che non si può tradurre in essa eppure la precede e la sostiene e senza la quale rimarrebbe fluttuante, per quanto grande sia la sua precisione e chiarezza» (Maria Zambrano, La Confesión: Género literario, 1943, ora in trad. it. da Bruno Mondadori). Mi sembra che Maria Zambrano espliciti perfettamente l’idea che la «conoscenza» intellettuale e la conoscenza artistica possono essere coniugate in una miscela assai feconda, nella quale un ingrediente ha bisogno di un altro ingrediente e dove ogni ingrediente, da solo, può risultare meno efficace. Se si intende in questo modo la figura dell’intellettuale, allora la sua funzione conoscitiva (seppure di «conoscenza di disturbo») può essere di grande vitalità. E in tal senso, la frase un po’ goliardica di Umberto Eco che egli proferì a un congresso parigino (con Jacques Attali) intitolato «Gli intellettuali e le crisi del nostro secolo» e che Eco riporta sull’Espresso, soddisfatto della sua lapidarietà («Badate che gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano ma non le risolvono»), risulterà certamente inadatta al compito degli intellettuali come in questo mio discorso viene intesa questa figura. Non solo perché trovo fuori luogo che gli intellettuali risolvano le crisi (il che porterebbe a un lungo discorso sull’equivoco fra pensiero e praxis, che certe avanguardie storiche, soprattutto Futurismo e Surrealismo hanno fatto, dove si richiede che l’intellettuale che parla eventualmente delle classi disagiate ospiti «per coerenza» i barboni in casa sua) ma perché credo che l’ipotetica funzione dell’intellettuale non sia tanto «creare» delle crisi, ma mettere in crisi. Qualcosa o qualcuno che in crisi non sono, anzi sono molto convinti della loro posizione.
Ma, riprendendo il filo forse un po’ zigzagante (me ne rendo conto) di queste riflessioni buttate giù a caldo, il «sapere» di Pasolini che procede per collegamenti apparentemente illogici come quello di Joyce o di Broch (e di tanti altri) non è certo cosa del Novecento. È cosa antica, molto antica. Appartiene in qualche modo a un misterioso frammento di Anassimandro che parla dell’ordine ingiusto del tempo («Là, da dove le cose provengono, esse ritornano, pagando l’una all’altra il castigo di essere venute secondo l’ordine ingiusto del tempo»). Appartiene a Parmenide (che anche Eco cita, e che evidentemente non interpreta al mio stesso modo: ma il fatto che sia definito l’Oscuro ce lo consente) che, al contrario di Pitagora (fautore di una Verità intesa come armonica consonanza con le sfere dell’Universo) individua il momento conoscitivo proprio nella divergenza e nella tensione retrograda («Gli uomini non comprendono in che modo ciò che / diverge non meno converge con se stesso, c’è un rapporto di tensione retrograda / come quello dell’arco e della lira», cito da l’ed. italiana dei Frammenti, a cura di M. Marcovich, Firenze, 1978) quell’Eraclito per il quale il Kosmos, sinonimo di Ordine e Bellezza è invece Caos e Bruttezza («Il più bell’ordinamento del mondo / non è altro che un cumulo di rifiuti ammucchiati a caso»). E se qualcuno poteva così intendere il Kosmos di allora, figuriamoci come può essere letto il cosmo della fine del Secondo Millennio.
È ovvio che Eco queste cose le conosce meglio di me, e mi sembra di leggere nel suo articolo che sta suscitando queste mie riflessioni una sua certa sincera insofferenza verso coloro che spacciandosi da intellettuali e castigando il «bla-bla» in realtà fanno il «can-can» giusto per, come dice Eco, far bella figura, oltre tutto lucrando nelle rubriche del loro giornale. Tuttavia il discorso presenta dei rischi: è un problema «biforcuto», come diceva il barocco Baltasar Gracián nel suo Criticón, che sulle acutezze e biforcazioni scrisse un ponderoso trattato. Insomma, quando Eco dice che l’intellettuale che si occupa dei giovanotti che tirano i sassi dal cavalcavia fa un lavoro inutile «perché la salvezza non viene dall’intellettuale ma dalle pattuglie della polizia o dai legislatori», fa sostanzialmente un discorso pitagorico, dove l’armonia non è più riferita alle sfere dell’universo ma ai legislatori o alle pattuglie di polizia. Certo è sacrosanto, sul piano dell’ordinamento sociale, che intervengano le pattuglie della polizia e che si puniscano i rei. Ma se un marito uccide la moglie sorpresa con l’amante (o viceversa, beninteso), il fatto ha una giustificazione comprensibile: la gelosia e l’onore offeso (che mi pare nel nostro codice penale siano stati addirittura contemplati come attenuanti). È cioè un delitto che possiede un «senso». Ma il delitto gratuito con cui Gide già ci inquietò con Lafcadio nel lontano 1914 (come può essere profetica la letteratura!) è sprovvisto di senso. Possiede una sua logica formale ma è carente di logica sostanziale. E se è vero che una giusta condanna dei giudici è necessaria, è anche vero che essa non spiega nulla.
E se qualcuno, ad esempio, si ricordasse la frase del Cristo secondo la quale la prima pietra la può scagliare solo colui che è senza peccato, mi sembra plausibile che questo qualcuno (il poeta, l’artista, ma anche semplicemente un qualcuno che si pone delle domande e che dunque assume la «funzione dell’intellettuale») si chieda perché questi robusti giovanotti cresciuti con i biscotti alle vitamine e dotati di fuoristrada siano privi di quel senso di peccato (o di colpa) che li potrebbe inibire dallo scagliare le pietre. A me, che sono un non credente, ma che ho letto i Vangeli e che ho riflettuto molto sulla frase di Cristo (una frase peraltro che trovo assai «intellettuale»), interessa capire perché costoro hanno perso a tal punto il senso del peccato da poter trasformarsi in angeli del male della più ordinaria quotidianità. Se da scrittore (o se si preferisce da «intellettuale») che interroga se stesso ma anche la società che lo circonda su questa questione, la mia (e l’altrui) funzione interrogativa viene ridotta alla funzione di digitare il numero telefonico dei vigili urbani, è un’attribuzione che svuota ogni capacità di «indagine» (indagine, sia chiaro, che certo ha una funzione diversa dall’indagine degli ispettori di polizia).
Insomma: se sono d’accordo con Eco che il compito di un intellettuale non è «suonare il piffero alla rivoluzione», credo non sia neppure quello di fare il 113. Non ti pare, Adriano Sofri? È questo il problema vero che forse l’intellighenzia del nostro paese non ha mai affrontato seriamente, fatta eccezione per certi casi isolati (e, sia detto, assai odiati). Una cosa che invece mi pare sia stata fatta (e si stia facendo) ad altri livelli in Francia. A mo’ di esempio mi permetto di citare alcuni brani di un intellettuale della statura di Maurice Blanchot, che affronta la questione in un piccolo libro recentissimo (1996) che riprende un articolo ormai introvabile uscito su Le Débat nel 1984 e che traeva spunto da un intervento di Lyotard (Le Monde, 8/10/1983) dove, con la disinvoltura di chi interroga la realtà soprattutto attraverso i mass media, il noto filosofo-semiologo-sociologo francese aveva decretato la morte dell’intellettuale (alcuni decenni or sono il funerale, mi pare, era stato fatto al romanzo, poi risorto: e qualche maligno osservò che i celebranti lo seppellivano perché non erano capaci di scriverlo).
«Recentemente, Lyotard ha pubblicato delle utili pagine intitolate Tomba dell’intellettuale. Ma l’artista e lo scrittore, sempre in cerca della loro tomba, non si illudono di potervisi mai riposare. Tomba? Se la trovassero – come un tempo i crociati, secondo Hegel, partirono per liberare il Cristo nel sepolcro venerabile, benché sapessero bene, dalla loro stessa fede, che esso era vuoto e che essi non avrebbero potuto, in caso di vittoria, che liberare la santità del vuoto – sì, se la trovassero non sarebbero al termine ma all’inizio della loro fatica, avendo preso coscienza che non vi sarebbe stato riposo che nella infinita prosecuzione delle opere.
A questo proposito, mi domando se attraverso la loro sconfitta e la loro disperazione necessarie, artisti e scrittori non portino aiuto e soccorso a coloro che vengono definiti intellettuali e che forse vengono prematuramente seppelliti»* (M. Blanchot, Les intellectuels en question. Ébauche d’une réflexion, Paris, 1996, pp. 7-8).
In sostanza quello che Blanchot rammenta a Lyotard è che l’atto di conoscenza intellettuale è anche un atto creativo. O meglio, Blanchot si domanda (e la domanda è velatamente retorica perché postula una risposta affermativa) quanto l’artista e lo scrittore, pur con i loro fallimenti e le loro miserie (specificazione importante, perché il fatto artistico prevede uno scacco, ma per Blanchot vale più per la sua intenzionalità che per i suoi risultati), non apporti un suo fondamentale aiuto al «lavoro» dell’intellettuale. Mi pare di capire in sostanza che, fatte le debite riserve, Blanchot esprima un concetto di fiducia nella funzione dell’arte e della letteratura come atti intellettivi, laddove Lyotard, sorprendentemente (o forse pour cause) non prende neppure in considerazione lo scrittore e l’artista quali figure di intellettuali, mutilando di fatto una figura della sua migliore parte creativa. Insomma, non ne coglie l’apporto dello slancio vitale e di conseguenza lo sotterra, gli scava la fossa («Un artista, uno scrittore, un filosofo non è responsabile che di questa unica questione: cos’è la pittura, la scrittura, il pensiero?», J.-F. Lyotard, art. cit.).
Tirando le somme si potrebbe dire che la visione di Blanchot (magari di un vago sapore romantico, seppure controllato da un certo «pessimismo della ragione») esprime una posizione vitale; quella di Lyotard, che è sostanzialmente di sapore enciclopedico (anche se un’Enciclopedia «mossa» e capricciosa alla Lyotard, dove i lemmi cambiano di posto) ha una visione tassonomica e funzionale della cultura, ed esprime una posizione funebre. Quali considerazioni si possono trarre da queste due diverse posizioni di intendere l’intellettuale? Le seguenti. Che per Blanchot la funzione dell’intellettuale è quella di produrre novità, per Lyotard è di tramandare il sapere, di diffonderlo ed eventualmente di gestirlo, mantenendolo tale e quale e riducendolo a norma. Con tutto ciò non voglio certo negare l’importanza dell’Encyclopédie, sulla quale si fonda l’epoca illuminista e che fu essenziale strumento di diffusione della cultura filosofica, tecnica e scientifica. Ma, se l’illazione non è esagerata, ne dedurrei che fra il Diderot direttore dell’Encyclopédie e il Diderot autore di Jacques le fataliste (o magari dei pamphlets filosofici che nel 1749 gli costarono il carcere) Blanchot trovi più novità in quest’ultimo.
Se non è troppo dire (ma non è vero che il troppo stroppia quando si tratta di parlare chiaro) Lyotard nel suo articolo attribuisce alla figura dell’intellettuale una funzione manageriale, cioè da funzionario della cultura. Il perché è semplice: perché non gli è mai venuto il sospetto che Platone fosse responsabile di non aver inventato il rimedio per la gastrite. Se avesse avuto questo sospetto avrebbe letto poesie. Per esempio un Addio di Alexandre O’Neill, dove un poeta vinto dalla vita e dalla sua situazione storica dedica questi versi a una donna che lo lascia: «Non potevi restare su questa sedia / dove passo il giorno burocratico / il giorno-dopo-giorno della miseria / che sale agli occhi e arriva alle mani / ai sorrisi, all’amore mal sillabato / alla stupidità, alla disperazione senza bocca / alla paura sull’attenti / all’allegria sonnambula, alla virgola maniaca / di un modo funzionario di vivere».
Ma il discorso porterebbe troppo lontano, verso una sociologia dell’intellettuale come gestore della cultura in una società come la nostra, e non è questa la mia intenzione, caro Adriano Sofri, lasciamo perdere questo argomento.
Ma poiché a questo punto la definizione di intellettuale diventa così difficile da cogliere e da specificare, mi pare importante cercare di dipanare la matassa con un «ritratto» che Blanchot ne fornisce: «Che ne è degli intellettuali? Chi sono? Chi merita di esserlo? Chi si sente squalificato se gli si dice che lo è? Intellettuale? Non lo è né il poeta né lo scrittore, né il filosofo né lo storico, né il pittore né lo scultore, non lo è il sapiente, anche se insegna. Sembra che non lo si sia sempre, non più di quanto non lo si possa essere interamente. È una parte di noi stessi che non solamente ci distoglie momentaneamente dal nostro compito, ma ci riporta verso ciò che si fa nel mondo per giudicare o apprezzare ciò che vi si fa. Detto in altro modo, l’intellettuale è tanto più vicino all’azione in generale e al potere quanto più egli non si immischia nell’azione e non esercita un potere politico. Ma non se ne disinteressa. Ritraendosi dal politico, non se ne distacca, ma cerca di conservare questo spazio di ritirata e questo sforzo di ritiro per profittare di questa prossimità che lo allontana al fine di installarvisi (installazione precaria), come una sentinella che non è lì che per sorvegliare, per tenersi sveglio, e attendere con un’attenzione attiva in cui si esprime meno la preoccupazione di se stessi che la preoccupazione per gli altri.
L’intellettuale non sarebbe allora che un semplice cittadino? Sarebbe già molto. Un cittadino che non si accontenta di votare secondo i suoi bisogni e le sue idee ma che, avendo votato, si interessa a ciò che risulta da questo atto unico e, mantenendo la distanza rispetto all’azione necessaria, riflette sul senso di questa azione e volta a volta parla e tace. L’intellettuale non è dunque uno specialista dell’intelligenza: specialista della non specialità? L’intelligenza, questa inclinazione dello spirito atta a far credere che egli ne sappia di più di quanto ne sa, non fa l’intellettuale. L’intellettuale conosce i suoi limiti, accetta di appartenere al regno dello spirito, ma non è credulo, dubita, approva quando è necessario, non acclama. Ecco perché egli non è l’uomo dell’impegno, secondo un’infelice definizione che ha spesso e a buon diritto fatto uscire André Breton fuori di sé. Ma ciò non vuol dire che egli non prenda partito; al contrario, avendo deciso secondo il pensiero che gli sembra più importante, pensiero dei pericoli e pensiero contro i pericoli, egli è l’ostinato, il perseverante, giacché non v’è coraggio più forte del coraggio del pensiero» (M. Blanchot, cit., pp. 12-14).
Continuando nel mio discorso zigzagante, ritorno all’articolo di Eco: «Quando la casa brucia, l’intellettuale può solo cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti, ma se ritiene di avere una missione specifica si illude, e chi lo invoca è un isterico che ha dimenticato il numero telefonico dei pompieri». Il «vedi alla voce pompieri» è un suggerimento di utilissima praticità che può risolvere immediatamente il problema, e che evidentemente riposa sulla rassicurante fiducia nell’istituto dei pompieri. Ma che ne è di quel «dubbio» che può essere utile a sua volta? E se ad esempio i pompieri fossero in sciopero? E se i pompieri fossero in competizione con un’istituzione analoga ma concorrente che si chiamasse, poniamo, vigili del fuoco? E se i pompieri (ipotesi scherzosamente fantascientifica) fossero quelli di Fahrenheit 451 di Bradbury-Truffaut (che sono guarda caso due intellettuali?). Comunque, anche dando per efficaci le pompe dei pompieri, resta il problema delle cause dell’incendio. Causale corto circuito? Sbadataggine dell’inquilino? Cause sconosciute? Certo, ci si affiderà alla competenza degli inquirenti, che si suppongono efficaci e probi. Ma nell’eventualità che il risultato dell’inchiesta lasci ragionevoli dubbi, supponendo che all’origine dell’incendio ci sia, che so?, un ordigno incendiario, che facciamo: archiviamo?
L’articolo di Eco si conclude così: «Cosa deve fare l’intellettuale se il sindaco di Milano si rifiuta di accogliere quattro albanesi? È tempo perso se gli ricorda alcuni immortali princìpi, perché se colui non li ha introiettati alla sua età non cambierà idea leggendo un appello; l’intellettuale serio a quel punto dovrebbe lavorare per riscrivere i libri scolastici su cui studierà il nipote di quel sindaco, ed è il massimo (e il meglio) che gli si possa chiedere». Non neghiamo che l’intellettuale avveduto ritenga inutile rieducare il sindaco di Milano: magari gli sembrerebbe più opportuno, nel caso che non gli piaccia l’operato di quel sindaco, manifestare la sua opinione per indurre gli elettori a non rieleggerlo più. Tuttavia mi sembra assai ottimistica la pur nobile e roussoiana idea di un intellettuale che alle sue sudate carte affidi il senso della sua vita affinché i nipotini del sindaco di Milano siano da grandi migliori del nonno. Senza contare che quei ragazzini potrebbero anche dargli del filo da torcere, e il povero abate Parini ne sa qualcosa. Il che non esclude ovviamente che un volenteroso intellettuale con vocazioni didattiche possa intraprendere quest’opera buona. Allez-y.
Per quanto mi riguarda, io, caro Adriano Sofri, oggi, ora, in quanto intellettuale (o meglio in quanto scrittore, il che è differente, ma sostanzialmente uguale) voglio vivere nel mio oggi e nel mio ora: nell’Attuale. Voglio essere sincronico col mio Tempo, col mio mondo, con la realtà che la Natura (o il Caso, o Qualcosaltro) mi ha concesso di vivere in questo preciso momento del Tempo. L’idea di essere diacronico per i nipotini di tutti i sindaci d’Italia per quando arriveranno all’età della ragione non mi seduce affatto. Insomma: se un qualche platone o chi per lui ha provocato una gastrite tale che perfino il Diritto soffre di stomaco, e se magari anche tu (il che mi parrebbe legittimo) sentissi un po’ di acidità al piloro, che dirti da intellettuale a intellettuale? Che tu prenda ogni mattina un cucchiaino di Magnesia Bisurata per vent’anni e vedrai che ti passa?
Adriano Sofri, ci sono dei muri fatti di mattoni che ci separano, ma il Tempo in cui entrambi viviamo è lo stesso. Io sono qui, oggi, un giorno d’aprile del 1997. E questa per me è la cosa più importante di ogni altra, perché so che è irripetibile. Ed è per questo che ti scrivo questa lettera: perché se il chiavistello dietro il quale fisicamente ti trovi è stato chiuso da qualcuno, sono certo, leggendo ciò che scrivi, che tu non ti rassegni a far chiudere sotto un chiavistello il tuo intelletto, e da intellettuale lo usi affinché il chiavistello ti venga riaperto. E neppure io, che sono fuori, voglio chiudermi nel mio «fuori» con un chiavistello. Il mondo può essere una prigione, e Il mondo è una prigione (1948) di Guglielmo Petroni (uno scrittore, un intellettuale) ne è una splendida descrizione romanzesca. Ma è anche uno dei più bei libri sulla Resistenza. È questa la novità intellettuale di quel libro. Era una novità allora, può essere una novità anche oggi. Certo lo spazio di movimento è angusto e la stanza un po’ all’oscuro. Non è facile far luce, e del resto, come diceva Montale, ci si deve accontentare dell’esile fiammella di un fiammifero. Ma è già qualcosa. L’importante è tentare di accenderlo. Anche un fiammifero Minerva.

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