Gene Sharp (1928-2018). Fra l’altro, fondatore dell’Albert Einstein Institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». Filosofo, attivista, nato in Ohio. Molte altre cose, in realtà. Soprattutto ispiratore di movimenti nonviolenti. Diceva:
«L’azione non violenta è una tecnica per condurre conflitti, al pari della guerra, del governo parlamentare, della guerriglia. Questa tecnica usa metodi psicologici, sociali, economici e politici. Essa è stata usata per obiettivi vari, sia “buoni” che “cattivi”; sia per provocare il cambiamento dei governi sia per supportare i governi in carica contro attacchi esterni. Il suo utilizzo è unicamente responsabilità e prerogativa delle persone che decidono di utilizzarlo»
Nel 1953 esce il suo primo libro, Gandhi Wields the Weapon of Moral Power. Sharp aveva 25 anni. L’introduzione venne firmata da Albert Einstein:
“Al processo di Norimberga il seguente principio fu accolto: che la responsabilità morale del singolo non potrà più essere sostituita dalle leggi dello Stato. Possa venire presto il giorno in cui questo principio non sarà meramente applicato a cittadini di una nazione sconfitta! Gene Sharp può aver trovato la forza di completare questo lavoro dalla battaglia interiore che questi quesiti hanno generato”.
In quello stesso anno, rifiuta la coscrizione militare per non prendere parte alla guerra in Corea. Viene condannato a due anni di prigione.
Si trasferisce in Europa. Studia, molto. Nel 1973 esce The Politics of Nonviolent Action. A Study in the Control of Political Power. Come si ricorda qui, quel saggio “viene tradotto in moltissime lingue ed estratti dell’opera furono addirittura pubblicati sulla rivista polacca Annex, di proprietà del movimento Solidarnosc, all’epoca stampata a Londra e diffusa solo clandestinamente in Polonia per via della repressione della nomenklatura comunista del Generale Wojciech Jaruzelski. Divenne in breve tempo un ‘classico’ del pensiero non violento.”
Ancora.
“Su richiesta degli attivisti per la democrazia in Birmania, Sharp si introdusse illegalmente nel Paese dove tenne seminari e lezioni sulla lotta non violenta a studenti e ai combattenti ribelli Karen. Nonostante alcune perplessità iniziali, l’esperienza in Estremo Oriente lo indusse a pubblicare un pamphlet maneggevole e riassuntivo delle tecniche di lotta non violenta. From Dictatorship to Democracy (1993) avrebbe fatto il giro del mondo, tradotto in 34 lingue, alimentando così le speculazioni più fantasiose intorno alla sua figura ormai globalmente riconosciuta.”
Scelgo il testo, da Internazionale, con cui lo ha ricordato Martín Caparrós per El Pais.
“È stata una di quelle cose che, in mancanza di una definizione migliore, chiamiamo ancora “caso”: proprio quella mattina mi sono chiesto che fine avesse fatto. Ho pensato a lui perché parlavamo di Ucraina, della primavera araba e di altre rivolte che hanno usato i suoi metodi, mi sono ricordato di quanto fosse anziano e dei suoi problemi di salute, e ho temuto per lui.
Qualche anno fa non sarei riuscito a liberarmi da questa paura, ma ormai non c’è più spazio per l’incertezza. La speculazione e le congetture che accompagnavano le mai abbastanza lodate chiacchiere da caffè sono cadute tra le grinfie di Google. Non c’è dubbio che abbia il diritto di durare più di 0,67 secondi. Questa volta l’informazione mi ha lasciato senza fiato: Gene Sharp era morto da poco, il 28 gennaio 2018.
Era nato nel 1928 a North Baltimore, in Ohio, figlio di un pastore protestante e di una casalinga. A diciott’anni andò all’università, diventò sociologo, lo vollero mandare in guerra. Nel 1953 lo condannarono a due anni di prigione per essersi rifiutato di combattere in Corea. Una volta scarcerato fece l’operaio, la guida per un cieco, il militante, il segretario di un leader sindacale pacifista.Poi se ne andò dagli Stati Uniti: visse alcuni anni in Norvegia e in Inghilterra, continuò a fare l’attivista, riprese gli studi, scrisse il suo primo libro sulle tattiche del mahatma Gandhi. Con il tempo il suo sguardo sulla nonviolenza perse idealismo e diventò pragmatico: gli sembrava il modo migliore per affrontare quelli che sono in grado di esercitare una violenza più grande, i dittatori.
Con questa prospettiva lavorò per anni ai tre volumi del suo lavoro più ambizioso, The politics of nonviolent action, che pubblicò nel 1973 mentre insegnava all’università del Massachusetts. Poi scrisse un altro libro, che avrebbe dato senso alla sua vita: Come abbattere un regime. Era quasi un opuscolo, cento pagine nate per aiutare alcuni esuli birmani. Negli anni novanta circolava clandestinamente in fotocopie e versioni pirata.
La sua tesi è che la resistenza alle dittature deve basarsi su una strategia pianificata e organizzata a priori. Bisogna identificare quali istituzioni sostengono il potere del dittatore per ostacolare il loro funzionamento, svuotarle, disarmarle, e mettergli fine. Per questo è necessario applicare diverse tattiche: il libro presenta un ampio ricettario.
Spesso è stato efficace. L’hanno usato i serbi che hanno cacciato Slobodan Milošević, gli ucraini di Maidan, gli egiziani di piazza Tahrir, i tunisini, i georgiani, i venezuelani, gli iraniani. Gene Sharp è stato la loro guida da lontano: poche persone dei nostri giorni hanno avuto un’influenza altrettanto profonda e silenziosa.
Di tanto in tanto lo candidavano al premio Nobel per la pace. Di tanto in tanto qualche dittatore lo accusava di lavorare per la Cia, e in sua difesa si pronunciavano intellettuali come Noam Chomsky o Howard Zinn. Lui nel frattempo continuava a pensare, a scrivere e ad aiutare i ribelli, coltivando orchidee. Quattro anni fa, quando l’ho intervistato nella sua casa di Boston, era già molto malato.
Mi ha accolto raggomitolato sulla sua sedia a rotelle, minuto, sorridente, gli occhi azzurri. Abbiamo parlato per un paio d’ore. Verso la fine mi ha detto che a volte si chiedeva se la sua vita fosse servita a qualcosa”.