BIG PINK: DI 8 MARZO. E DI KING.

Sulla questione 8 marzo, mi pare di aver detto parecchio, e soprattutto mi pare sia evidente che concordo con quante hanno deciso di lasciare le celebrazioni “ufficiali” a chi della questione femminile ha fatto (e purtroppo sta facendo) mera cosmesi: vedasi le liste elettorali, su cui tornerò. La vostra eccetera si propone dunque di trascorrere la giornata di domani andando a vedere Vogliamo anche le rose con la primogenita. Domenica 9, invece, sarò a Tivoli.
Nel frattempo vi offro una lettura. E’ la recensione di Wu Ming 1 (apparsa ieri su L’Unità) di Duma Key di Stephen King (ancora non reperibile in italiano, pazientate, e state bene).
Più di due anni fa, recensendo Colorado Kid di Stephen King (L’Unità, 16/12/2005), scrissi: “Se di una storia tolgo il capo e lascio solo la coda, o lascio il capo ma tolgo la coda, eppure la storia continua a comportarsi come se avesse un capo e una coda, come quando dopo un’amputazione si prova prurito a un arto fantasma… cosa cambia nel rapporto di fiducia tra chi racconta e chi ascolta? Come reagisce il lettore quando il libro allunga la mano per grattarsi e si vede che la gamba non c’è più… eppure la storia sta in piedi?”
Come potevo immaginare che proprio il prurito a un arto fantasma sarebbe stato al centro di un futuro romanzo del Re? Duma Key, pubblicato negli USA da Scribner e in corso di traduzione in Italia, è la storia di Edgar, imprenditore edilizio che dopo un gravissimo incidente si ritrova claudicante, con un’anca ricostruita e il braccio destro amputato. Non solo: ha riportato lesioni cerebrali, il suo rapporto con memoria e linguaggio è cambiato per sempre ed è soggetto a imprevedibili scatti di collera, istanti in cui – letteralmente – “vede rosso”. La sua condizione mette a rischio l’incolumità di chi gli è vicino, a partire da sua moglie, che infatti chiede il divorzio.
Su consiglio del suo psichiatra, Edgar torna a coltivare la passione del disegno abbandonata da ragazzo. Per dedicarvisi in santa pace, adotta la strategia del buen retiro: lascia il Minnesota e affitta una casa rosa salmone (la ribattezza “Big Pink”) su Duma, isolotto quasi disabitato delle Keys, arcipelago della Florida. Quasi disabitato, perché in un’altra villa lungo la spiaggia vivono la padrona di casa (e praticamente di tutta l’isola), l’ultra-ottuagenaria Elizabeth detta “Libby”, e il suo domestico/badante Wireman.
Wireman è un ex-avvocato, ha perso moglie e figlia in due distinti incidenti – rievocati in un capitolo straziante – e invano ha tentato di uccidersi sparandosi alla tempia. Il lungo, elaborato “rituale di avvicinamento” tra i due ultracinquantenni è la parte più bella del libro, come sempre sono belle le storie di amicizie costruite con fatica, un passo dopo l’altro sul terreno comune del trauma, alla timida ricerca di un nuovo inizio.
La vecchia Libby, dal canto suo, fa i conti con l’Alzheimer e i lasciti di un’infanzia oscura, remota eppure incombente, passato lontano che è futuro prossimo. Libby è custode di un segreto di morte riguardante Duma, la sua spiaggia e la giungla tropicale che ricopre buona parte dell’atollo, un rimosso maligno che torna evocato dall’arte, per colpa dell’arte: quando Edgar sente un intenso prurito al braccio fantasma, l’unico modo per farlo passare è dipingere, furiosamente, fino a raggiungere uno stato di trance. Nei quadri e nei disegni appaiono oggetti incongrui, animali “sbagliati”, sagome di sconosciuti, il tutto accostato come in un rebus. Con distesa lentezza, dettaglio dopo dettaglio, scivoliamo nel genere horror e l’arcano da svelare concerne un personaggio mitologico: Persefone, moglie di Ade, sovrana dell’Oltretomba.
Come ha scritto Beppe Sebaste – non a caso grande ammiratore di King – nel suo romanzo H.P. L’ultimo autista di Lady Diana (Quiritta 2005, Einaudi 2007), il piacere che si prova leggendo un libro così “non coincide con i momenti culminanti, con le peripezie o le rivelazioni del senso, la scoperta della verità [bensì] coi momenti morti, la bonaccia della storia, i fatti banali e quotidiani, le ripetizioni del già noto”. In molti romanzi di King, a rapire il lettore è proprio il racconto della “bonaccia”, il ritmo della vita quotidiana, o meglio: il tentativo di tornare a quel ritmo, di riconquistare una quotidianità dopo che un dramma ha distrutto la vecchia vita. E’ questo il vero eroismo dei personaggi di King (Mike Noonan in Mucchio d’ossa, Lisey Landon in La storia di Lisey, Edgar Freemantle e Jerome Wireman in Duma Key), non il fatto che affrontino fantasmi, psicopatici o morti viventi. L’eroismo del quotidiano rende Duma Key un romanzo memorabile, tanto che dispiace quando la storia, dopo tanti indugi, si abbandona all’extra-ordinario, al soprannaturale. Intendiamoci, il patatrac e la corsa contro il tempo delle ultime cento pagine sono più che godibili, e il finale è uno dei migliori scritti da King (autore sempre a rischio di anticlimax), ma sono i primi 3/4 del libro a rimanere impressi. L’ultima parte è rideclinazione del già-narrato, lavoro sui clichés nel tentativo di “riaccenderli”. King, del resto, lo annuncia già a pag. 57, quando Edgar confessa: “Sapevo che i tramonti erano clichés, per questo li dipingevo. Mi sembrava che, se fossi riuscito a sfondare anche una sola volta il muro del già-visto-già-fatto, forse sarei arrivato da qualche parte.”
In Duma Key le brecce nel muro non mancano, ed è merito della lingua. King scrive sempre meglio, con una felicità di soluzioni e un nitore assenti dalle sue opere di gioventù, quelle tanto rimpiante dai fans più conservatori. Alcune frasi sono versi, con effetti di lirismo e melodia che, seppure talvolta stucchevoli, sovente lasciano ammirati. Anche chi non sa l’inglese può riconoscere la bellezza di frasi come: “More orange tile – the roof of the mansion inside – rose in slants and angles against the blameless blue sky“.
Tuttavia, questo è solo uno degli aspetti della lingua di Duma Key. C’è un continuo sforzo di “risemantizzare”, di aprire le parole a sensi nuovi, il che rende questo romanzo, come molti di King, intraducibile o quasi.
Tutti e tre i personaggi principali hanno lesioni al cervello, in particolare ai centri del linguaggio. Nel caso di Edgar, King coglie ogni occasione per “incidentare” le frasi riempiendole di errori, invenzioni dislessiche, anagrammi: beath-ded al posto di death bed; l’esortazione offensiva “eat your shirts” (“mangiati le camicie”) al posto di “eat your shorts” (“mangiati i calzoncini”); frasi fatte che divengono astrazioni, come “mettere il danno [harm] davanti alla forza [force]” anziché “il carro [cart] davanti al cavallo [horse]”. La maestria stilistica di King sta nell’inventare calembours in modo non casuale ma attento ai significati: la mano di un personaggio [hand] diventa un prosciutto [ham]. Quel personaggio sta vomitando [throwing up], e King ricorre a un verbo indecifrabile, sowing up, che evoca sì la semina [to sow] ma, posto subito dopo il prosciutto, richiama alla mente una scrofa [sow]. Il campo semantico è insomma quello della macellazione, e infatti il personaggio è una vittima predestinata. Sovra-interpreto? Forse, ma forse no.
Anche il linguaggio di Wireman è balordo: attacca una frase in inglese ma non può fare a meno di slittare nello spagnolo (la lingua della moglie morta), e in ogni discorso infila compulsivamente versi di canzoni dei suoi anni verdi (“quando credevo che Jerry Garcia potesse cambiare il mondo”). Pochi giorni fa il New York Times ha definito „irritante“ il modo di parlare di Wireman. Può essere vero, ma come critica è fuori fuoco: Wireman ha una pallottola incastonata nel cranio. C’è chi scambia la propria moglie per un cappello, figurarsi se non possiamo tollerare qualche “muchacho” e “amigo” di troppo.
Infine Libby: dopo aver sbattuto la testa da piccola, è rimasta letteralmente senza parole, tabula rasa terminologica, e ha dovuto ricostruire tutto. Oggi parla quando si alzano le nebbie dell’Alzheimer, e si esprime in modo criptico e allusivo.
A ponti fitti, per il traditore italiano (Delio Tubner) saranno pazzi da pagare.
A un certo punto, per il tramite di Edgar, King descrive la mente di una persona malata come fosse uno stato-nazione, un paese sotto dittatura, e conclude: “La guarigione è una rivolta, e tutte le rivolte riuscite sono iniziate in segreto”. Nei giorni scorsi non una recensione ha omesso di ricordare il celeberrimo incidente subito da King nel 1999. Eccetto l’amputazione del braccio e i danni cerebrali, il referto medico era quasi sovrapponibile a quello di Edgar: gamba destra fratturata in nove punti, colonna vertebrale lesa in otto punti, anca deragliata, un polmone collassato, lacerazioni del cuoio capelluto. A seguire: operazioni chirurgiche, lunga convalescenza, difficoltà a stare seduto, ripresa fisica grazie alla pratica (toh!) della scrittura.
Duma Key non è il primo libro in cui l’autore fa tesoro di quell’esperienza: ce l’ha raccontata in On Writing; ne abbiamo sentito l’eco – e anche qualcosa di più – in Buick 8, ne L’Acchiappasogni e in Cuori in Atlantide; l’incidente è addirittura entrato nel plot de La Torre nera. Eppure mai come in questo libro King ha raccontato il dolore dell’infermità, la tenerezza per le parti del corpo che non funzionano più come prima (o addirittura non esistono più), l’impresa di tornare a compiere gesti semplici in modo semplice, la soddisfazione al superamento di ciascuna soglia. Che questa “rivolta di guarigione” venga incoraggiata e strumentalizzata da forze malvagie è un altro paio di maniche: chi legge sa distinguere le conquiste vere da quelle finte, quelle figlie di volontà e impegno da quelle realizzate in trance. Questione di sfumature, di equilibrio della narrazione. Si cammina con suole di sughero su una lama di rasoio, tutti insieme, autore e lettori.
Resta da capire cosa rimarrà di tutto questo nella versione italiana. Chi può permettersi di leggere Duma Key in lingua originale, lo faccia senza indugi. Gli altri incrocino le dita. Forza Tubner, no, Dimner, no, aspettate, ce l’ho sulla pinta della cinghia, Dibber, Dapper, Dobbi-dy-duh. Ah, sì, Dobner. Tullio Dobner. Forza e coraggio. Massimo rispetto, da collega e da fan.

11 pensieri su “BIG PINK: DI 8 MARZO. E DI KING.

  1. Eh beh! Il re è il re, e se le premesse son queste mi sa che si spinge tranquillamente oltre Slow Man di Coetzee… me lo leggerò in inglese!

  2. Loredanerrima te sei troppo barricadiera:)))
    Hum, la cosmesi serve. La cosmesi è il linguaggio con cui la cultura pensa a se stessa.
    Ce lo so che non è molto chic, giuro stragiuro che non lo faccio più, ma anche perchè non mi piace aver detto una cosa su di te non a te (una critica ma anche un complimento) ti posto parte del commento che ho lasciato da massimo.
    “Mi piacerebbe poter dire, come per altre ricorrenze che i tempi sono maturi perchè si faccia a meno delle celebrazioni. Generalmente a me, della festa dell’otto marzo, a me come singola e quotidiana, non me ne po’ fregà de meno. Sono una donna privilegiata, a casa mia la trisnonna era dirigente, la bisnonna all’università, e via così. donne che hanno avuto uomini con coglioni a sufficienza per poter tollerare un ego altrettanto abbondante accanto. La festa della donna in questo senso non mi serve.
    Pure, vale lo stesso discorso che è valso per il giorno della memoria. La cosmesi della Loredana Lipperini, una donna che stimo moltissimo ma che ha i pregi e i difetti della barricadieritudine di vocazione, è il lessico con cui la cultura occidentale nella sua globalità – ivi compresi i suoi strati più deboli – è capace di pensare a se stessa. Non è che semo tutti intellettuali. quando si nasce con certe stimmate culturali, non è che ci si pensa granchè mentre si sta in fila alla posta pe pagà le bollette.
    In questo senso, la cosmesi dell’otto marzo, come la cosmesi della giornata della shoah, per chi vi si trova “celebrato” e “martirizzato” sono esperienze regolarmente spiacevoli e dolorose – dimostrano l’arretratezza della loro cultura di appartenenza, e la necessità della celebrazione è dimostrata dalla sua stessa esistenza.
    E infatti: qualcuno fa politica riparlando di aborto, ma nessuno si mette nei panni di una donna che se vuole un figlio, potrà contare solo ed esclusivamente su se stessa, perchè non c’è un asilo nido, perchè il contratto di lavoro è a termine, e sia mai che te lo rinnovino una volta che sanno che sei incinta. E ci sono moltissime moltissime cose ancora da sistemare. Non voglio dire nel mondo, perchè io ho conosciuto molte donne arabe e mi hanno messa di fronte a una consapevolezza di se che la mia arroganza occidentale non sospettava, e il discorso è intenso e complicato (anche se si c’è molto da dire) -voglio dire qui in Italia. Qui nel mio paese.”

  3. Cara Loredana, per la prima volta nella mia vita, questo 8 marzo lo voglio davvero festeggiare. A modo mio, s’intende. Ma con profondo senso di appartenenza a questa specie. Mai come in questo momento ho sentito la differenza, gli schieramenti, la violenza. Non è questo il modo migliore per festeggiare anniversari (il ’68). Le conquiste fatte non sono ancora entrate a pieno titolo nel Dna dell’umano genere. C’è da essere Ancora dalla parte. E ancora si devono convincere gli uomini e le donne a stare Dalla parte. Faccio gli auguri a te, a me stessa e alle generazioni che verranno. Mai dare per scontato.
    un abbraccio
    Elisabetta

  4. Buona festa della donna a tutte, e visto che siamo in tema segnalo il titolo in homepage di Alice/Virgilio: “Spogliarelli, shopping e cortei: l’8 marzo scatena le donne”. Giusto per dire come è messa la situazione.

  5. concordo con Anghelos..incredibile in tutti i siti internet un altra volta si è data più importaza a temi frivoli come gli spogliarelli maschili e nn è stata presa sul serio, anzi quasi beffeggiata la nostra lotta contro il patriarcato. Siti maschilisti, che poi si vede dalle tante donne in bikini ke ci propinano.

  6. Grazie innanzi tutto a Loredana, è la prima volta che scrivo ma il libro l’ho letto già da mesi ed è stato davvero prezioso, certo avrei preferito non avere conferma di molte cose, ma meglio sapere. Stasera 8 marzo al ristorante con amiche ma anche qualche uomo, garbata minoranza. Dalla parte delle bambine veramente, se in Italia continua così la mia eventuale figlia dovrà lottare per un diritto di cui godeva mia nonna. Abbiamo permesso troppo, abbiamo ignorato, abbiamo smesso di stare dalla nostra parte, illudendoci forse che ormai non ce n’era più bisogno. A volte penso che noi donne non possiamo fare a meno di soffrire, anche procurandoci dolori che potremmo evitare, a cominciare dagli uomini sbagliati che noi dobbiamo “salvare”. A questo proposito consiglio la lettura dell’ultimo bellissimo, incredibilmente autentico romanzo di Chiara Gamberale: “La zona cieca”. Dobbiamo essere più consapevoli e combattive, dobbiamo insegnare agli uomini il rispetto e la considerazione che meritiamo. No, non è vero che esistono solo aspiranti veline e sculettanti attricette da videoclip…forse però le donne vere si sono un pò addormentate…bisogna farsi sentire! W l’8 marzo tutti i giorni. Saluti, Vale

  7. dopo aver partecipato al “dibattito” sul sito della feltrinelli , riguardo il ruolo delle donne nella società , ho ricevuto il tuo libro;
    l’ho letto,riletto,approfondito,interiorizzato.
    essere ventenni e in transizione da maschiaccio a ragazzina e/o da ragazzina a donna , è terribilmente faticoso.
    lo è anche in relazione alla gente che mi circonda, alle situazioni nelle quali vivo . ma mai mi sognerei di rinnegare la mia identità di genere , che è meravigliosa ; e non mi stancherò di andare incontro alla mia esigenza d’una ulteriore appartenenza a questo genere . neanche tutta la chiusura mentale che ci sovrasta potrà convincermi a non essere orgogliosa d’essere “donna” .

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