BROLLI E LA TRADUZIONE SUPREMA

Ripresa autunnale. Tornano, nell’ordine, le metropolitane affollate, le nuove edizioni dei testi per le medie a venticinque euro cadauna, i libri in bozze e no, un interessante carteggio fra Piero Sorrentino e Tiziano Scarpa a proposito degli “scrittici”, su Nazione Indiana.
E torna la rubrica di Daniele Brolli, “I ritratti dell’editoria italiana”, su Pulp. Vi porgo la parte che riguarda la traduzione. Anzi, la traduzione per Adelphi. Anzi: una traduzione per Adelphi in particolare….
In un ideale decalogo del buon traduttore, una delle voci più importanti sarebbe l’invisibilità. Certo, è impossibile che un traduttore non abbia una “lingua” sua, che non sia portato ad alcune costruzioni sintattiche o orientato verso alcune scelte lessicali. Ma questo deve avvenire sempre nell’ambito dello scarto semantico offerto dalla lingua originale. Non ci sono lingue che coincidano pienamente, si potrebbe anzi dire che le parole non trovino mai riscontri certi in un’altra lingua e che la struttura di una frase collabori a ridarci quanto scritto nel testo originale; altrimenti, certo, basterebbe un traduttore automatico. Il buon traduttore, quello che si rende invisibile ed esalta le caratteristiche dell’autore, rispetta il registro linguistico, si chiede come suoni quel testo in lingua originale e cerca di trasporlo adeguatamente. Poi ci sono gli arroganti che si spacciano per traduttori, che usano il testo originario come pretesto per esaltare se stessi.
Ai corsi di traduzione letteraria l’aspirazione massima è tradurre per Adelphi, come vertice di un percorso professionale. Un equivoco originato da due fattori: la straordinaria coerenza interna dei testi che escono da Adelphi, privi di incongruenze linguistiche; il compenso a cartella di cui si favoleggia sia il più alto pagato in Italia. Anche lo snobismo ha il suo peso nel far credere che si tratti di un’élite… Non sto a ripetere il solito discorso che in Adelphi c’è una “normalizzazione” dei testi verso l’alto, in cui redazionalmente si alza il registro linguistico fino a far diventare Simenon simile a Nabokov, né andrò a spulciare traduzioni come quella di Santuario di Faulkner, dove la lingua originaria, seppure dotata di una particolare densità, a un lettore americano risulta scorrevole, mentre in italiano è stata resa con un’artificiosa complessità della frase… questi potrebbero sembrare cavilli, fisime, opinioni, infingimenti di un fissato. Voglio solo raccontare un’esperienza che sembra una puntata di Ai confini della realtà.
Il primo dubbio, leggendo La macchina in Corsia Undici, libricino che contiene solo un racconto di Charles Willeford uscito in origine su “Playboy”, mi è venuto dalla postfazione, firmata dallo stesso traduttore (nonché uno dei responsabili della casa editrice), Matteo Codignola. “Che cazzo c’entra” mi sono chiesto con la raffinatezza che mi contraddistingue, “A Love Supreme di John Coltrane – citato in esergo e alla fine del pezzo – con Willeford?” La risposta è molto semplice e l’avrei intuita qualche minuto dopo: non c’entra niente con l’autore, ma piace un casino al traduttore. Che poi non sarebbe un semplice traduttore ma, se vogliamo, il vero autore di questo racconto. Anzi, se desideriamo rimanere nell’ambito della raffinatezza con un’immagine colorita: Codignola usa Willeford come un burattino (e vi lascio immaginare dove gli abbia infilato la mano…) e da perfetto ventriloquo cerca di fargli dire quello che vuole lui. Così scrive una postfazione in cui situa Willeford come meglio crede, inserendo elementi biografici un po’ alla rinfusa, schivando una struttura cronologica, che è troppo a buon mercato per un intellettuale che si rispetti, solo per certificare che l’autore è un grande e che in quanto tale non ha niente a che vedere con la letteratura popolare, anzi: esula. Non prende in considerazione neanche per un momento che Willeford è stato un grande scrittore proprio per aver segnato (come altri suoi “colleghi”) una svolta nella letteratura popolare senza allontanarsi da essa. Quando la regola è trasformare in un raffinato letterato un narratore dotato di un lessico allo stadio del primo apprendimento e di una ripetitività degna di un maniaco depressivo come Simenon (ancora lui, ma, cosa volete, dettare i suoi romanzi al registratore prima e dopo aver fatto sesso costringeva lui alla semplicità e noi all’invidia), ovviamente è dura riconoscere che uno scrittore popolare fosse dotato di una forte identità letteraria. Scommetto che se l’Adelphi pubblicasse, per esempio, Le tigri di Mompracem, finiremmo per scoprire una nuova versione adelphiana in cui Emilio Salgari e Giorgio Manganelli scrivevano allo stesso modo.
Willeford è un autore che amo molto, uno scrittore di noir che ho pubblicato per primo in Italia e di cui continuo a curare alcune uscite. Perciò posso affermare di conoscere a fondo il suo stile. E, con l’orgoglio tipico dell’appassionato, l’idea che venga pubblicato da Adelphi mi fa solo piacere, perché mi comunica l’idea che è uscito definitivamente dalla cerchia degli appassionati di genere. Nella postfazione si sorvola su questa sua appartenenza al contesto, si cerca di portarlo al di fuori descrivendolo come un folle geniale incappato quasi per caso nel mondo del paperback usa e getta americano più per imperizia che per scelta. Ci vengono spacciate come degne di nota informazioni come la tiratura nel 1953 di High Priest of California:151.000 copie – senza dire (o forse, visto che il “pulp” è così lontano dalla mentalità Adelphi, senza sapere) che per l’epoca era una tiratura media nel settore, difatti alcuni paperback raggiunsero tirature di milioni di copie. L’inizio della postfazione è memorabile, anche per la parsimonia nell’uso delle virgole: “Per chi vede ogni giorno le menti migliori dell’editoria isterizzarsi nello sforzo inane di aggiungere qualcosa a libri e schede biografiche degli autori l’idea che esistano casi in cui il problema è semmai togliere (qualche eccesso stilistico qui, qualche episodio troppo colorito per essere anche vero là) fa balenare un raggio di speranza in un futuro migliore, o almeno possibile”.
Eccitato dai termini scatologici, si sofferma con pruderie infantile su un pezzo scritto da Willeford che: “…si intitola A Guide for the Underhemorrhoided (non essendo mai stato tradotto in italiano, si può fortunatamente citare in originale…” Ma non ce la fa proprio, Codignola, e poche pagine più avanti lo riprende: “…in cui Willeford aveva dovuto subire la famigerata emorroidectomia…”
Credo che invece di tante parole più o meno alla rinfusa, per rispetto al lettore, fosse utile dare alcune informazioni, per esempio che Adelphi non è il primo a pubblicare Willeford (con un racconto di trenta pagine), ma che esistono romanzi già pubblicati da Bompiani, Phoenix, Marcos y Marcos, Hobby & Work. Magari a un lettore potrebbe piacere leggere anche altro, parlare con più cognizione della sua produzione letteraria, che non è così bislacca e incongrua come emerge dalla postfazione, avrebbe potuto introdurlo alla lettura (forse è troppo pedagogico per un editore à la page). Si poteva spiegare anche che il racconto in questione riprende alcune situazioni di partenza da due romanzi di Willeford: Pick-Up e The Woman Chaser (tradotti rispettivamente come La sbandata e Il cacciatore di donne). E che ne esistono due versioni differenti, la prima delle quali, pubblicata da “Playboy” nel 1961, non è quella che appare in traduzione da Adelphi, tratta invece dall’antologia del 1963 a cui dà il titolo.
Ma, tornando al punto di partenza, sapete che nella traduzione Adelphi Willeford scrive un po’ come Mordecai Richler? Non sarà perché il traduttore è lo stesso? Appena ho iniziato la lettura ho avvertito qualcosa che non andava. I personaggi di Willeford sono sornioni, diretti, psicopatici, impulsivi nelle azioni e nel dialogo mai engagé. Così mi è venuta la curiosità di andare a confrontare con il testo originale: be’, la storia è la stessa, ma il tono è diverso, in italiano è più acceso, estroverso, con costruzioni che tradiscono quelle dell’originale, andando oltre l’interpretazione, spingendosi nel terreno dell’invenzione. Fin dove si può criticare una traduzione? La conoscenza dell’autore aiuta a rispettarne la lingua. E come insegna E. M. Forster in Aspetti del romanzo, spesso il rispetto del registro linguistico del personaggio ci comunica intuitivamente tutto quello che di lui non viene descritto. Qui non sono in discussione errori o meno, Codignola è disinvolto fin quasi all’anacronismo (che dire della definizione “nube tossica”?) o al trapezismo lessicale (a pagina 22: “un discreto raggiungimento per un attore, anche se televisivo), ma non si può fare a meno di notare che dello spirito del testo originale, in cui l’implicito sta nel levare piuttosto che nell’eccesso, rimane ben poco.
La differenza, in questi casi, è tra il racconto di qualcuno che ha letto quel romanzo e leggerlo noi stessi. L’equivoco tra un’eco e una traduzione.

19 pensieri su “BROLLI E LA TRADUZIONE SUPREMA

  1. La traduzione di Codignola potrà essere legnosa, ma questo mi sembra il solito sputacchiare livoroso di Brolli che qui trova grandi spazi (e verrebbe da domandarne il perché, ma passi). “Come?! Un autore che ho scoperto io?! E nessuno me lo viene a dire?! Non me lo propongono da tradurre?! Che crepino tutti!!!”. Poi, basta dare un’occhiata a certi romanzi editi a suo tempo dalla Phoenix, da Brolli curata (uno su tutti, un Jonathan Carroll che contava una media di sei/sette errori di traduzione e refusi a pagina) per intuire di che pasta sia fatto questo eroe di Pulp e Lipperatura…

  2. Il problema è che tutti i libri stranieri che escono per Adelphi soffrono di questa lingua omologata, trasformata in “stile Adelphi” con ben poco rispetto per le differenze. Il problema si presenta soprattutto con gli autori di lingua tedesca (Junger scrive come Kraus che scrive come Herrigel che scrive come Heine etc, il che chiaramente non è possibile in origine), ma in realtà tocca tutta la produzione Adelphi: sembra di leggere un unico, ultraprolifico scrittore che trascende le epoche e i luoghi e si presenta volta per volta dietro personalità fittizie. C’è un appiattimento su una singola e dispotica idea di quello che dovrebbe essere la prosa, e quel modello viene fatto valere in ogni caso, facendo convergere tutti i titoli verso una sorta di meta-libro che è poi il catalogo Adelphi.

  3. Brolli non so nemmeno chi sia, ma il problema sollevato è reale. Chi nega che esista una “lingua Adelphi” verso il cui modello qualunque autore tradotto, vivo o morto, viene… indirizzato, nega l’evidenza o forse non ha mai letto più di un libro Adelphi tradotto dal tedesco…

  4. Che post succulento benchè itratti di nvidiosetti! Il fatto è che i cattivi furbi esprimono cattiverie intelligenti – anche se ciò non li esime dal fare una figura di merda.
    Le case editrici: adelphi li mitteleuropeizza tutti quanti. Invece sono andata a leggere il povero Bernard Malahmud da quelli di Minimum Fax e n’artro po’ pareva un rockettaro. So regazzi, come si dice a Roma questi qui di Minimum Fax. Ma l’idea del traduttore trasparente, ma non ci avevamo rinunciato da lunga pezza? all’oggettività ci rinunciano Maturana e Varela eh, i letterati dovevano farlo anche prima. Forse c’è qualcosa di tremendamente precario labile e soggettivo, ed è quel giudicare quanto un traduttore è intellettualmente affine a chi traduce, quanto senza saperlo o sapendolo hanno gli stessi libri la stessa sintassi, certe vicinanze mentali. Non mi intendo di traduzioni granchè – Ma penso a cosa potrei combinare se mi dessero da tradurre Kenzaburo Oe.

  5. ah. curioso.
    perché si tratta della traduzione di Mario Biondi (non il musicista, che poi non è nemmeno rockettaro) pubblicata da Mondadori nel 1984, che ha concesso ai revisori di cambiare solo qualche virgola e poco altro, e ha personalmente approvato ogni riga della versione pubblicata.
    fra l’altro, Mario Biondi è milanese.
    suggestione?

  6. Lasciando stare le polemiche di ogni sorta, a me lo spunto di discussione appare meritevole di approfondimenti. Lancio quindi alcune provocazioni, chiedendovi se secondo voi:
    – In Italia piacciono di più (alle case editrici? ai lettori?) le traduzioni addomesticate, e/o riscritte?
    – E’ vero che importa meno l’aderenza al significato originale, del fatto che sia scritto “in bell’italiano”? [basta vedere gli strafalcioni presenti sulla maggior parte dei libri in commercio, che un buon parlante di lingue estere riconosce a colpo sicuro]. E quindi, un buon traduttore deve saper scrivere bene in italiano più di quanto conosce la lingua da cui traduce?
    – E’ vero che il lettore e/o gli editori italiani non sono ancora pronti a recepire traduzioni “fedeli” dei contemporanei stranieri, anche se meno olezzanti di “belle lettere”? A volte l’impressione è che si debba sempre e comunque alzare il tono di un testo perché questo abbia dignità letteraria.
    Si può definire definire un’estetica della buona traduzione in italiano?
    Questi sono solo alcuni degli interrogativi senza risposta che nascono a uno come me, che legge tanto anche nelle lingue originali.
    Grazie dell’ospitalità.

  7. Farouche magari ci hai ragione, non lo credo – che possiamo discutere sulle sensazioni:)? sarebbe buffo no? – ma potrebbe essere. Minimum fax ha il merito di aver pubblicato tante cose che mi piacciono, cose di americanoni e jazzisti, ci ho ritrovato la coerenza di una linea editoriale in un autore che è molto fuori da quella linea ecco.
    ma mi piace la proposta di bibliofilo, salvo il fatto di ignorare che razza di lettori semo noi italici! Noi italici alla traduzione non ci facciamo granchè caso. salvo casi eclatantissimi: per esempio io uno che mi ritraduca Henry Roth Call it Slip, lo pagherei di persona perchè la traduzione garzanti ha delle antichezze proprio buffe. E mi pare non ce ne siano altre in giro, correggetemi se sbaglio. Questa cosa del far caso alla traduzione è qualcosa di molto celebrale – ma molti lettori medi hanno per quanto possano essere colti, un piacere molto sentimentale e istintivo della lettura. Pensare alla resa in lingua richiede una sospensione celebrale che non sempre abbiamo voglia di attuare. Di soliito ci faccio caso quando un libro non mi piace. Se mi piace …. pippa!
    Ma i quesiti tuoi. beh Io credo che una traduzione in una lingua altra da quella di chi scrive sia sempre un tradimento e mi sfugge il perchè l’italico lettore non sarebbe pronto a una fedeltà semantica. Tanto più che in Italia leggono in pochi e spesso. Magari non fanno caso ai traduttori, ma son destri eh! per il resto la gente al massimo ragiona de doppiaggio. Solo che, l’idea di una fedeltà semantica, per come la vedo io riesce bene solo se c’è il potenziale per una familiarità mentale. Vabbè questo l’ho già detto. mi fermo:)

  8. Pochi commenti, davvero pochi per un pezzo del genere.
    Sarà perché il popolo dei lettori e il popolo degli internauti non coincidono perfettamente? Può darsi, ma io propendo per un’altra ipotesi.
    Questo post l’hanno letto in tanti, soprattutto fra gli addetti ai lavori, se la segnalazione è arrivata a me che non leggo abitualmente Lipperatura e sono assolutamente marginale rispetto a quel mondo, vuol dire che certamente ha avuto una bella eco.
    Il fatto è che Brolli dice cose vere e risapute nel mondo editoriale. Solo che pochi (o nessuno) di quelli che stanno al fondo della piramide hanno il coraggio di dire apertamente certe cose, e farle diventare di dominio pubblico, per paura delle conseguenze (dice Brolli stesso che “ai corsi di traduzione letteraria l’aspirazione massima è tradurre per Adelphi, come vertice di un percorso professionale”, e la speranza è sempre l’ultima a morire, no?). Chi non ha niente da perdere può esporsi a dire che il re è nudo, tutti gli altri della corte se ne stanno zitti e accettano lo “status quo”.
    Dice Tiziano Scarpa a proposito di quell’ambiente, anche se da un punto di vista lievemente spostato: “Scrivere critica letteraria è un lavoro di merda: se scrivi quello che pensi la paghi in forme talmente divertenti e rocambolesche, sùbito o a distanza di tempo, in angoli della psiche altrui o in assai più concreti frangenti della cosiddetta industria culturale…”
    Se poi mi obiettate che al “popolo dei lettori” non gliene può fregare di meno di essere informato di un “dettaglio” del genere, e che si accontenta di leggere i libri Adelphi perché sono belli… che dire, probabilmente avete ragione. I traduttori però, da questa e altre questioni, potrebbero riguadagnare un po’ della loro dignità bistrattata.

  9. Sulle questioni specifiche sollevate nel post, e poi nei commenti, non so dire, non avendo, come traduttore, mai avuto direttamente a che fare con Adelphi (a parte il tentativo, andato a vuoto, di proporre un’autrice spagnola), benché nell’ambiente voci su un preciso trattamento redazionale dei testi circolino eccome. Posso giusto segnalare che a fine mese, dal 28 al 30, a Urbino si terranno le V Giornate della traduzione letteraria, con un paio di tavole rotonde e diversi seminari, uno dei quali, su editing e traduzione, tenuto da Ena Marchi, editor della narrativa francese e italiana proprio di Adelphi. Chi fosse interessato magari fa ancora in tempo a iscriversi, per poi, in quell’ambito, provare a tornare sull’argomento.

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