UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN

Sul quotidiano di oggi, dalla vostra eccetera.

Molto prima de Le ceneri di Angela di Frank McCourt, ci fu Un albero cresce a Brooklyn: e fu, nell’ordine, un best-seller, un film, un musical, una storia in grado di attraversare le generazioni.  Era dunque il 1943, e Sophina Elisabeth Werner, nata per l’appunto a Brooklyn da genitori tedeschi, scrisse il suo primo romanzo: la vita di una bambina che cresce nella fame e nella miseria, e che conserva intatta la propria dignità e, soprattutto, il sogno di diventare autrice teatrale. Betty Smith (questo lo pseudonimo che Werner scelse)  fu effettivamente una drammaturga prima che una romanziera: ma fu con quella vicenda autobiografica che conquistò il successo.  

   Un albero cresce a Brooklyn rimase ventidue settimane nella classifica dei best seller, vendette quattro milioni di copie, venne tradotto in sedici lingue. Nel 1995 la New York Public Library lo inserì fra i libri del secolo. Nel 1945 Elia Kazan ne trasse un film. Nel 1951 George Abbott lo trasformò in musical. Nel 1974 divenne una serie televisiva. Venne citato persino in un cartone animato di Bugs Bunny (Una lepre cresce a Manhattan). In Italia arrivò nel 1947, venne molto amato,  fu ristampato nel 1971, un anno prima della morte dell’autrice.    Poi, semplicemente, scomparve dalla circolazione, rimpianto da almeno tre ondate di lettrici che  lo ebbero fra le mani negli anni dell’adolescenza e cercarono di rintracciarlo su bancarelle e siti Internet. Fortunatamente, giunge ora  la nuovissima ristampa proposta da Neri Pozza (pagg. 575, euro 14), nella traduzione di.Antonella Pietribiasi: e la storia ricomincia.

   Storia in apparenza lineare, peraltro. Siamo nel 1912:  immigrati tedeschi, irlandesi, italiani, popolano i quartieri poveri vestiti di stracci e animati da molte speranze. Francie Nolan e suo fratello Neeley sono, a loro modo, felici. E’ vero, spesso non hanno carbone per scaldarsi e cibo per nutrirsi: ma in queste occasioni la loro madre gioca “agli esploratori polari”,  che devono eroicamente sopravvivere finché qualcuno non verrà a salvarli. Mangiano frutta molto di rado: ma ogni giorno hanno a disposizione caffè a volontà,  e Francie può limitarsi a godere del calore della tazza sulla sua mano, per poi gettarne via il contenuto. Uno spreco, certo: ma quel lusso può consentirle di capire come vivono i ricchi, e sentirsi ricca a sua volta. Perché la sua è una famiglia particolare: la madre Katie è una donna di grande bellezza e di orgoglio indomabile. E’ sulle sue spalle che si regge la sopravvivenza di tutti, specie quando il marito, lo splendido e fragile Johnny che ama troppo il canto e l’alcool, viene licenziato e infine muore. Al contrario dei genitori, però,  Francie non desidera l’integrazione sociale (che la madre Katie conquisterà con le seconde nozze): sogna lo studio e la scrittura. Ma non una scrittura d’evasione: è quanto rivendica fin dagli anni della scuola, opponendosi ad una maestra che la invita a raccontare “la bellezza” e non la povertà, che è “sordida”. Francie, insomma, sa che soltanto attraverso il suo impegno intellettuale potrà uscire dal ghetto.

   Che ha, peraltro, le sue gioie. Se si ha la forza di sopportare l’impatto di un albero di Natale senza cadere, e ottenerlo così in dono. O se, il sabato, si va da Charlie “Al buon mercato”, dopo aver venduto allo straccivendolo quel che si recuperava dalla strada. Con una manciata di dolcetti di Charlie  in una coppa di vetro blu e un libro preso in prestito dalla biblioteca, Francie trascorre pomeriggi di felicità arrampicandosi a leggere sui gradini di una scala antincendio, proprio accanto all’albero del Paradiso, uno dei pochi che cresce nel cemento. L’illusione  è quella di vivere, per qualche ora, fra i suoi rami: e questo le basta.

9 pensieri su “UN ALBERO CRESCE A BROOKLYN

  1. finito di leggere ieri sera. dopo averlo aspettato e cercato anni.
    poi vai in libreria, e sta li sullo scaffale – dove per altro avrebbe dovuto stare sempre – e pensi “ma è lui?” e poi “finalmente lo posso leggere anch’io?” e esci con il libro nella borsa come se fosse un regalo.
    e allora pensi anche, se fosse sempre così quando si porta a casa un libro. e non lo so se è stata l’attesa, la sopresa, l’epifania, ma è davvero un signor libro.

  2. “Un albero cresce a Brooklyn” l’ho letto quando facevo le medie, negli anni Sessanta, grazie agli Oscar Mondadori. Con 350 lire – una paghetta rimediata – mi sono portata a casa il romanzo.
    Lo comprai, il libro, nel negozietto di Renatone. Lui era proprio “one”, con certe sventole di mani e un’altezza stellare che gli consentiva di raggiungere gli scaffali più alti della sua cartoleria. Il negozio era “etto”, minuscolo, pieno di libri, giocattoli, matite e gomme per cancellare, cartelle, fogli sparsi, blocchi per disegnare. Un caos paradisiaco! Renatone vendeva libri ma non li leggeva. Però, gli piaceva sapere se il libro, scovato sui suoi scaffali, era piaciuto e, soprattutto, di che parlava. Gli raccontai – brevemente – di questo albero di Brooklyn e di come la storia m’avesse colpito il cuore e, soprattutto, m’avesse svelato un modo caldo di raccontare la vita. Con le parole che stanno nei libri.
    Devo a Renatone – cartolaio, giocattolaio, venditore di matite e di libri – tante occasioni di stupore “romanzesco” che m’hanno illuminato l’adolescenza.

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