La vostra eccetera è in partenza per Rimini (non per vacanze: presentazione numero 56). Vi lascio con la recensione di Crimini italiani uscita oggi sul quotidiano. State, come sempre, bene.
Bisogna saper guardare, avverte Giancarlo De Cataldo nella nota introduttiva a Crimini italiani (Einaudi Stile Libero, pagg.538, euro 19.80). Bisogna addentrarsi nel buio, aggiunge, e scavare nelle gallerie segrete del nostro paese per comprendere se la sua vita reale coincide con la percezione che ne abbiamo.
In questo senso, la seconda antologia di noir italiano, uscita a qualche anno di distanza dal fortunato capostipite Crimini, centra il bersaglio. E lo fa al momento giusto, nel tempo in cui il paese medesimo si autoinfligge la paura come condizione esistenziale, spesso contro ogni logica e a volte contro la statistica. Gli italiani, come è noto, vedono se stessi come cittadini inermi, esposti ad un pericolo che non meritano, blindati in un perenne stato d’assedio contro un male straniero. Ma gli undici scrittori che raccontano il paese da Nord a Sud (dalla Val d’Aosta a Matera, da Bari ad Asti, da Genova a Campobasso, dall’Abruzzo a Bolzano), sostengono che la verità è un’altra, e che è un altro anche il male.
Furbizia, amore per le scorciatoie, disprezzo per la giustizia: questi i miti comuni, questa l’unità d’Italia narrata dagli autori che hanno partecipato all’antologia. Con due tematiche che attraversano tutti i racconti: il delitto individuale della brava gente (che si innesta, a volte senza neanche saperlo, nel grande Sistema Criminale) e la distorsione del vero che riguarda non soltanto la collettività, ma anche i singoli. Molti dei personaggi convivono, infatti, con un’identità segreta. A volte, sono i primi a non sapere chi siano davvero.
Una costante schizofrenica narrata in modo esemplare nel racconto che chiude l’antologia, Niente di personale, di Carlo Lucarelli: serratissima partita a due fra una poliziotta leale e innamorata di suo marito e l’uomo che doveva essere il suo assassino. Ovvero, un killer che deve le proprie fortune all’aspetto ingannevole, “morbido, paffuto, tenero”, dietro cui si cela una consapevole ferocia. Wu Ming, in Momodou, svela invece il meccanismo con cui la verità muta e sbiadisce dopo ogni passaggio. La morte di un immigrato viene dunque narrata a ritroso, dalla sbadata cronaca giornalistica conclusiva fino alle premesse che si annidano nell’infanzia della vittima e del suo assassino: ai tempi in cui ognuno dei due immaginava di essere la persona opposta rispetto a quella che sarebbe diventata.
Il delitto che si compie in Non è vero di Diego De Silva sembra addirittura una faccenda minore:un chirurgo subisce le pressioni di un avvocato per operare un mafioso sotto falsa identità. Ma a sua volta il medico ha un segreto, la relazione con l’anestesista Sara, e Sara stessa si troverà a dover cercare una verità che è ancora al di sotto dell’intreccio di menzogne che vorrebbe spezzare. Qualcosa di affine avviene nel magistrale gioco di incastri di Massimo Carlotto in Little Dream, dove delitto si somma a delitto, e dove il peggiore è quel che si cela in una clinica per curare i disturbi dell’alimentazione.
La via del rispecchiamento fra realtà percepita e cuore nero dell’Italia viene seguita da tutti: Sandrone Dazieri, Giorgio Faletti, Marcello Fois, Giampaolo Simi, Loriano Macchiavelli. In alcuni serpeggia un possibile sconfinamento, un’allusione appena percepibile a mondi altri: avviene non soltanto in La doppia vita di Natalia Blum, scritto da un Gianrico Carofiglio che sembra Poe, ma nel racconto di Giancarlo De Cataldo, Neve sporca, dove una classica vicenda di narcotraffico trova una risoluzione imprevista grazie ad un padre privato della figlia, e ad una lupa che appare misteriosamente in una tormenta di neve.
Qualunque sia la strada scelta, il risultato è quello di far combaciare, infine, i tasselli perduti, ricostruendo l’immagine di un paese che ha a disposizione un’ enorme quantità di informazioni, ma scarsissima memoria: e che di un evento, per spaventoso che sia, conserva traccia solo nella manciata di giorni in cui la notizia scivola dalle prime pagine dei giornali a quelle interne, per poi diventare trafiletto e infine svanire. A meno che qualcuno non lo raccolga e lo rielabori: con passione, e con i toni (epici,sì) che sono necessari per non dimenticare.
ho capito adesso il titolo del post…..
“Gianrico Carofiglio che sembra Poe”. Siamo proprio sicuri?
Due cose mi vengono in mente:
1. arrivando alla stazione di Rimini c’è davvero uno di quei graffiti coloratissimi ( ce ne sono diversi per la verità) con la K davanti a Rimini (K-Rimini): eloquente.
2. il bel libro di Simona Argentieri sull’ambiguità.
Oggi non c’e’ memoria. C’e’ consumo. E il consumo non ha memoria.
E’ un mondo in decoposizione, questo, in cui nulla rimane, se non il Nulla. Ray Bradbury sul suo epico e veggente ‘Farhenait 451’ aveva previsto tutto questo che oggi viviamo. Pochi, i pochi che rimaranno sono coloro che rielaboreraanno ‘ toni epici’, nascosti e braccati nei recessi della società, ovvero il bosco finale di Farhenait 451.
L’uomo del gambrinus
Io mi prenoto per fare l’uomo-film invece che l’uomo-libro. E scelgo Truffaut.
Comunque mi segno questo libro. Magari si nasconde qualche bel soggetto…