INTERLUDIO: SLEEPING BEAUTIES

La versione estesa della recensione a Sleeping Beauties di Stephen e Owen King uscita ieri su Repubblica.
“E se sei nata donna/Sei nata per essere ferita”, dice la canzone di Sandey Posey, “Born A Woman”, in esergo a Sleeping Beauties, ultimo romanzo di Stephen King scritto con il figlio Owen (traduzione di Giovanni Arduino, Sperling&Kupfer, pagg. 652, euro 21,90). Per chi cerca strade culturali per raccontare la violenza contro le donne di cui oggi le cronache sono inevitabilmente piene, la lettura risulta più utile di centinaia di saggi: ne sia riprova lo scherno inacidito nei confronti di King dopo l’uscita americana e nelle ore successive a quella italiana, con accuse di aver abdicato al politicamente corretto o di essersi trasformato in “suffragetta invasata”.
Polemica sciocca, come sa chiunque abbia davvero letto King, che dal primo romanzo ha sempre raccontato il punto di vista delle donne, dall’adolescenza angariata di Carrie alla silenziosa resistenza di Dolores Claiborne, e che ha più volte inserito nelle sue storie riferimenti ai centri antiviolenza (in Insomnia e in Rose Madder), alle donne abusate e picchiate (da It in poi) e che a quella violenza reagiscono (Notte buia, niente stelle). In Sleeping Beauties si mette in scena, semmai, una radicalizzazione di quei racconti: quasi una distopia alla Margaret Atwood che rientra però prima di avverarsi.
Siamo a Dooling, West Virginia: nel carcere femminile arriva una nuova ospite, Evie Black, un sorriso terribile e allegro come quello del demone Randall Flagg ne L’ombra dello scorpione, lunghi capelli, una conoscenza del mondo ancora più lunga. Con la venuta della Prima Donna e del suo corteo di falene, tutte le sue discendenti si addormentano di un sonno non umano. Quando cedono (e molte resisteranno disperatamente) e abbassano le palpebre, filamenti bianchi escono dai loro corpi e le chiudono in un bozzolo. Svegliarle comporta la morte per chi si azzarda a farlo. Alcuni, sulla spinta degli inevitabili gruppi Facebook complottisti, decidono che è meglio bruciarle.
Ma come sarebbe un mondo senza donne? E quale altro mondo potrebbero creare le donne stesse se attraverso il sonno giungessero in una sorta di Gilania, l’arcana società neolitica che precedeva il patriarcato e dove l’uguaglianza fra i sessi era normalità? Gilania, qui, si chiama il Nostro Posto, e vi si accede nel sonno, guidate da animali sacri (una tigre bianca, un serpente rosso, un pavone e una volpe che fa da tramite impersonando una delle voci narranti) e attraverso un Albero Madre. Le donne che vi giungono, tutte giustamente imperfette, hanno la possibilità di farne non un Eden, ma un luogo migliore del mondo che si sono lasciate alle spalle e dove si spara, si picchia, si uccide. Un mondo senza uomini, ma non perché ai maschi appartenga la colpa originale, sembra sottintendere King: perché, semmai, l’organizzazione sociale che si sono dati nei millenni non prevede alternative a quella patriarcale. Occorrerà una scelta, da parte delle belle addormentate: restare o tornare dai propri figli e compagni, che spesso sono generosi ed empatici, come lo psichiatra del carcere Clint Norcross, marito della sceriffa Lila, e altre volte sono troppo ossessionati dal possesso per non essere violenti, come il quasi-antagonista Frank Geary? Su quella scelta non potrà intervenire neanche la Prima Donna, quella Evie che, come tutte le divinità, giunge in una città tranquilla per portare scompiglio: la scelta si fonda sull’amore e sulla speranza, ed è di questo, non di guerra fra i sessi, che King ha sempre parlato. Certo, privilegiando le donne: perché, come raccontò in un’intervista, “La mia idea è che, nel complesso, le donne se la sappiano cavare in molte più situazioni e siano più abili degli uomini a risolvere problemi. Spero che nei miei libri questo si veda”. Qui, in particolare, si vede benissimo.

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