CONTARE E RACCONTARE: ESSERE COME SHAHRAZAD

A margine di quel che avviene, si dibatte sui libri che trattano di epidemie, cominciando dal più famoso, “La peste” di Albert Camus, che scala le classifiche. Qualcuno sostiene che è un male, qualcun altro dice guai a scrivere di queste cose. Invece, già nel lontano 1988, Beniamino Placido sosteneva che è un bene: raccontare, come sapeva Shahrazàd, non solo intrattiene, ma educa. Ed è, oggi come ieri, indispensabile.
Com’è bello trovare da qualche parte, in qualche libro (dove, altrimenti?) la conferma di un’ idea che era venuta in mente, ma che non si era certi di poter sostenere… M’ è accaduto qualche volta di accennare al curioso fenomeno per cui i due concetti sensibilmente diversi di contare (1, 2, 3, 4…) e raccontare (C’ era una volta…) risalgono spesso ad un’ unica radice verbale. In inglese, to count e to recount; in tedesco, zahlen e erzahlen; in francese, compter e conter (si Peau d’ ane m’ était conté/j’ y prendrais un plaisir extreme).
Solo nelle lingue moderne? No, anche nell’ ebraico biblico, lingua antichissima e sacra, la medesima radice di tre lettere spr può significare secondo il modo in cui è vocalizzata contare o raccontare. Come mai? Perché mai? Una risposta si trova pensando a Le Mille e una notte. Pensandoci in compagnia di due libri che sono apparsi in Francia. Il primo, recentissimo, reca il testo integrale della favola di Aladino (quello della lampada magica) tradotto dai manoscritti originali da René R. Khawam (Le Roman d’ Aladin, Phébus editore, pagg. 220, franchi 96). Dai manoscritti originali, sì. Perché Antoine Galland, il mitico viaggiatore francese che portò nell’Europa del Settecento Les Mille et une nuits, la favola di Aladino non l’aveva letta su nessun manoscritto. L’ aveva ascoltata dalla voce di un mercante arabo. Il secondo libro quello più importante, quello che reca una spiegazione dell’ equivalenza contare-raccontare è dedicato proprio a Galland, a questa singolare figura di viaggiatore-traduttore. L’ ha scritto Georges May. Si intitola Les Mille et une nuits d’ Antoine Galland ou le chef-d’ oeuvre invisible. E’ stato pubblicato dalla Casa editrice Puf qualche tempo fa (pagg. 247, franchi 135). L’ autore di questo brillante saggio dice dunque che Le Mille e una notte sono un capolavoro rimosso, invisibile. E lo dimostra: per quanto abbiano modificato dal profondo l’ immaginazione letteraria europea dal Voltaire di Zadig a Edgar Allan Poe, a Proust (ces Mille et une nuits que j’ avais tant aimées) allo scrittore argentino Borges, allo scrittore americano John Barth non si riesce a prenderle o a farle prendere sul serio, Le Mille e una notte. Sono pur sempre letteratura d’ evasione. Storie senza ragione che non significano niente, diceva Voltaire (mentre le imitava).
Né possiamo vantarci onestamente di aver progredito molto, dai tempi di Voltaire. Gira e rigira, siamo sempre vittime della stessa ideologia utilitaristica. Della stessa sindrome seriosa. Vedete quanta fortuna hanno oggi i romanzi che si presentano (millantando credito, per lo più) come impregnati di riflessione filosofica. Viene voglia a me, almeno di richiamare in campo il beneamato Adalbert von Chamisso, scrittore del romanticismo tedesco. che si era nutrito sulle Critiche di Kant, e poi se ne era stufato. Perché, diceva, i sistemi filosofici grandi e piccoli sono dei romanzoni mascherati. Viene in mente non a me soltanto il Roland Barthes del Piacere del testo: Si fa appena a tempo a dire due parole in difesa del piacere della lettura, ed ecco due gendarmi pronti a piombarvi addosso: il gendarme politico e il gendarme psicanalitico.
Con questo non intendo dire che Le Mille e una notte sono un capolavoro inutile. Possono sembrarlo, ma non lo sono. Saranno inutili nell’immediato, ma risulteranno utili sulla lunga distanza. In fondo, ci sono mille e una notte da passare. Vediamo che cosa accade. C’ è un sovrano, un magnifico sultano che si chiama Shahriyàr. Vivrebbe felice e contento se non cadesse vittima di un incidente pirandelliano. Scopre che la moglie lo tradisce: spudoratamente. Indignato, il sultano la punisce: severissimamente. Fin qui, lo seguiamo, sia pure a fatica. Non lo seguiamo più quando passa ad arbitrarie generalizzazioni: le donne sono tutte uguali, voglio punirle tutte. Lo seguiamo ancora di meno quando decide di dormire con una donna diversa ogni notte, e di mandarla a morte la mattina dopo. Per fortuna lo ferma Shahrahzàd, la figlia bella e astuta del suo visir, che ogni notte gli racconta una nuova storia. Ed ottiene, in cambio di ogni storia, un rinvio della condanna a morte. Così per mille e una notte (e poi, come va a finire? Per la conclusione, bisogna aspettare un momento).
E’ proprio a questo punto che il raccontare si rivela per quello che è: una preziosa moneta di scambio per comprare dei segmenti di vita: Conter c’ est aussi compter. A questo punto diventa difficile per chiunque persino per un Voltaire redidivo affermare che raccontare non conta, non serve a niente. Serve, eccome. Basta chiederlo a Shahrazàd. Ma solo nella sua situazione? Solo nello schema delle Mille e una notte? Forse no.
E’ sempre spiacevole doverlo ricordare, ma siamo un po’ tutti nella situazione di Shahrazàd. Siamo tutti ahimé condannati. Tutti dobbiamo morire, prima o poi. Ma c’è un senso non ancora ben esplorato in cui il raccontare serve a distrarci da, o a compensarci di, questo ineluttabile destino. E poi c’ è un altro senso in cui Le mille e una notte rivelano una loro segreta, sottile utilità. Le Mille e una notte riproducono in apparenza lo schema di altri famosi racconti in cornice, come Il Decamerone di Boccaccio o I racconti di Canterbury di Chaucer. C’ è una legge, quanto meno tendenziale, che governa queste costruzioni narrative. Visto che si racconta facciamo l’ esempio familiare del Boccaccio per distrarsi dall’epidemia che ha investito Firenze, nessun racconto deve riferirsi direttamente alla peste. Allo stesso modo, qualsiasi tipo di film può essere proiettato su un aereo in volo fra Roma e New York, ma non un film che abbia per tema una catastrofe aerea. Poiché il film viene proiettato sull’aereo proprio per distrarre dalla fatica e dalla tensione del volo, non avrebbe senso riportare l’ attenzione dei passeggeri a quella fatica; meno che mai a quel pericolo.
La stessa regola dovrebbe applicarsi a Le Mille e una notte? In nessun caso, per nessuna ragione, la bella e saggia Shahrazàd dovrebbe raccontare storie di mogli infedeli. In nessun caso dovrebbe Shahrazàd rammentare imprudentemente al sultano la sua sgradevole situazione di marito tradito e vendicativo, dalla quale, raccontando, cerca di distrarlo. E invece non è così. Nella quarta notte, nella quattordicesima, nella ventiduesima (tanto per cominciare), la spericolata narratrice va a svegliare il can che dorme nel sultano, proponendogli vicende di mogli perfide, bugiarde, criminali, maghe. E soprattutto infedeli. Che cosa fa Shahrazàd? ci chiediamo trepidanti. Scherza col fuoco? Dimentica la situazione delicata in cui si trova? Dimentica il filo di rasoio su cui cammina? Che cosa fa Shahrazàd: sta provocando il geloso sultano? No, lo sta rieducando.
Il saggio di cui sto parlando (ripeto: Les Mille et une nuits d’ Antoine Galland di Georges May) presenta qui le sue pagine più belle. A volte, entusiasmanti. Shahrazàd sta rieducando il sultano. Gli sta dicendo, con la cauta, irresistibile gradualità delle favole: Maestà, qualche volta le donne tradiscono i mariti. E’ vero. Ma è proprio così importante? Ed è proprio una buona ragione per odiarle, per diffidarne, per ammazzarle tutte? Maestà (o Vostra Felicità, come ci si esprime nel Romanzo di Aladino), vuoi ridurre tutto il mondo a questo: fedeltà/infedeltà? Ma il mondo è pieno di tante cose meravigliose, di tante vicende più belle. Non vuoi sentire la storia del califfo Harun ar-Rashid, di Alì Babà e dei quaranta ladroni, di Sindbad il marinaio? Basta con questa ossessione della infedeltà femminile, Maestà. Tu sei un grande sultano arabo, non vorrai mica comportarti come un geloso siciliano (nel senso, beninteso, pirandelliano)? Shahrazàd civilizza il sultano e contemporaneamente civilizza il lettore, che al pari del sultano ascolta sera per sera le sue storie. Così alla fine si salva. Il sultano si rappacifica con l’ universo, anche femminile, e la tiene con sé (è questa la conclusione). Sicché, quando i soliti due gendarmi ci sorprendono a leggere Le Mille e una notte in treno e ci chiedono: a che servono queste storie improbabili e inutili?, bisogna avere la forza di rispondere con cortese fermezza: a niente. Tutt’al più a comprare il tempo. A vivere mille e una notte in più. E meglio. A nient’ altro.

2 pensieri su “CONTARE E RACCONTARE: ESSERE COME SHAHRAZAD

  1. Interessante questa similitudine tra la radice di “contare e “raccontare nelle varie lingue. Certo che chi come Sherazade racconta, assume importanza, ma forse il significato più profondo è che “conta nel senso che “ordina, e la radice va insomma cercata nella Gematria ebraica, la struttura che sostiene il mondo, dove numeri e alfabeto si sovrappongono.
    La storia di Sherazade la associo al Vagabondo delle stelle di London, libri lontanissimi ma in entrambi c’è condanna prigionia e la possibilità di un oltre

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