DECIMO INTERLUDIO: LA TELEFONATA AI POMPIERI (ECO, TABUCCHI, VOI, NOI)

Ieri pomeriggio, in una conversazione in diretta a proposito dei sei ergastoli comminati ad altrettanti scrittori e giornalisti turchi, rei di aver inviato “messaggi subliminali” in favore del golpe (sic!), mi sono trovata insieme d’accordo e in disaccordo con Helena Janeczek. Lei sosteneva che abbiamo una pessima stampa, che si chiude nei nostri confini e non dà che un minimo spazio a quanto avviene nel mondo (vero) e che la reazione degli scrittori e degli intellettuali non è però così assente. Non sono del tutto d’accordo sul secondo punto, nel senso che tendo a vedere il bicchiere mezzo vuoto, in questo caso.
Con le dovute eccezioni, che però sono sempre le stesse, delle scrittrici e degli scrittori che sui loro profili social e sui blog e soprattutto nei loro libri testimoniano di tenere gli occhi ben aperti su quanto accade, mi sembra che il nostro piccolo mondo letterario sia sempre più chiuso su se stesso. Ripeto, con le dovute e importanti eccezioni, che non sono neanche pochissime: i Piccoli maestri, intanto, e tutti coloro che singolarmente non disgiungono letteratura e vita. Impegno, si sarebbe detto un tempo.
Niente di nuovo, per carità. Mi è tornata infatti in mente un’antica polemica, che risale ormai a vent’anni fa: nel 1997, sulla Bustina di Minerva, Umberto Eco scrisse un lungo e forse disincantato intervento che conteneva questa frase:
“l’unica cosa che l’intellettuale può fare, quando la casa brucia, è telefonare ai pompieri”.
A rispondergli fu un intellettuale prezioso, Antonio Tabucchi, in un piccolo libro che si chiamava La gastrite di Platone, dove dichiarava di preferire, al ruolo di telefonista, quello del clandestino che “indaga sul non dato da conoscere” . Quel libro riprende una lunga, bellissima lettera ad Adriano Sofri che venne precedentemente  pubblicata su Micromega, e che, nella parte finale, dice:
“Il «vedi alla voce pompieri» è un suggerimento di utilissima praticità che può risolvere immediatamente il problema, e che evidentemente riposa sulla rassicurante fiducia nell’istituto dei pompieri. Ma che ne è di quel «dubbio» che può essere utile a sua volta? E se ad esempio i pompieri fossero in sciopero? E se i pompieri fossero in competizione con un’istituzione analoga ma concorrente che si chiamasse, poniamo, vigili del fuoco? E se i pompieri (ipotesi scherzosamente fantascientifica) fossero quelli di Fahrenheit 451 di Bradbury-Truffaut (che sono guarda caso due intellettuali?). Comunque, anche dando per efficaci le pompe dei pompieri, resta il problema delle cause dell’incendio. Causale corto circuito? Sbadataggine dell’inquilino? Cause sconosciute? Certo, ci si affiderà alla competenza degli inquirenti, che si suppongono efficaci e probi. Ma nell’eventualità che il risultato dell’inchiesta lasci ragionevoli dubbi, supponendo che all’origine dell’incendio ci sia, che so?, un ordigno incendiario, che facciamo: archiviamo?
L’articolo di Eco si conclude così: «Cosa deve fare l’intellettuale se il sindaco di Milano si rifiuta di accogliere quattro albanesi? È tempo perso se gli ricorda alcuni immortali princìpi, perché se colui non li ha introiettati alla sua età non cambierà idea leggendo un appello; l’intellettuale serio a quel punto dovrebbe lavorare per riscrivere i libri scolastici su cui studierà il nipote di quel sindaco, ed è il massimo (e il meglio) che gli si possa chiedere». Non neghiamo che l’intellettuale avveduto ritenga inutile rieducare il sindaco di Milano: magari gli sembrerebbe più opportuno, nel caso che non gli piaccia l’operato di quel sindaco, manifestare la sua opinione per indurre gli elettori a non rieleggerlo più. Tuttavia mi sembra assai ottimistica la pur nobile e roussoiana idea di un intellettuale che alle sue sudate carte affidi il senso della sua vita affinché i nipotini del sindaco di Milano siano da grandi migliori del nonno. Senza contare che quei ragazzini potrebbero anche dargli del filo da torcere, e il povero abate Parini ne sa qualcosa. Il che non esclude ovviamente che un volenteroso intellettuale con vocazioni didattiche possa intraprendere quest’opera buona. Allez-y.
Per quanto mi riguarda, io, caro Adriano Sofri, oggi, ora, in quanto intellettuale (o meglio in quanto scrittore, il che è differente, ma sostanzialmente uguale) voglio vivere nel mio oggi e nel mio ora: nell’Attuale. Voglio essere sincronico col mio Tempo, col mio mondo, con la realtà che la Natura (o il Caso, o Qualcosaltro) mi ha concesso di vivere in questo preciso momento del Tempo. L’idea di essere diacronico per i nipotini di tutti i sindaci d’Italia per quando arriveranno all’età della ragione non mi seduce affatto. Insomma: se un qualche Platone o chi per lui ha provocato una gastrite tale che perfino il Diritto soffre di stomaco, e se magari anche tu (il che mi parrebbe legittimo) sentissi un po’ di acidità al piloro, che dirti da intellettuale a intellettuale? Che tu prenda ogni mattina un cucchiaino di Magnesia Bisurata per vent’anni e vedrai che ti passa?
Adriano Sofri, ci sono dei muri fatti di mattoni che ci separano, ma il Tempo in cui entrambi viviamo è lo stesso. Io sono qui, oggi, un giorno d’aprile del 1997. E questa per me è la cosa più importante di ogni altra, perché so che è irripetibile. Ed è per questo che ti scrivo questa lettera: perché se il chiavistello dietro il quale fisicamente ti trovi è stato chiuso da qualcuno, sono certo, leggendo ciò che scrivi, che tu non ti rassegni a far chiudere sotto un chiavistello il tuo intelletto, e da intellettuale lo usi affinché il chiavistello ti venga riaperto. E neppure io, che sono fuori, voglio chiudermi nel mio «fuori» con un chiavistello. Il mondo può essere una prigione, e Il mondo è una prigione (1948) di Guglielmo Petroni (uno scrittore, un intellettuale) ne è una splendida descrizione romanzesca. Ma è anche uno dei più bei libri sulla Resistenza. È questa la novità intellettuale di quel libro. Era una novità allora, può essere una novità anche oggi. Certo lo spazio di movimento è angusto e la stanza un po’ all’oscuro. Non è facile far luce, e del resto, come diceva Montale, ci si deve accontentare dell’esile fiammella di un fiammifero. Ma è già qualcosa. L’importante è tentare di accenderlo. Anche un fiammifero Minerva”.
Più tardi, all’uscita del libro, Tabucchi commentò:
“In fondo la nostra intellighenzia ama gli scrittori che fanno i vedutisti, in giro per la bella penisola a caccia di ritratti, tipo la “terra leggiadra” celebrata da Cardarelli (…) Ciò che irrita, io credo, è la proposta di un linguaggio letterario come strumento di conoscenza, fuori dalla logica di Wittgenstein che impone di parlare solo di ciò che si conosce. Ma la letteratura non parla di ciò che si conosce, sennò sarebbe cronaca, reportage. Parla invece del “non dato da conoscere”, e lo fa per immaginazione, per supposizioni. La sua è una conoscenza, come dice Maria Zambrano, “ipotetica e aurorale” che tuttavia non è meno importante della forma logica o scientifica di cui disponiamo. E’ questo che dà fastidio (…) . Noi capiamo meglio la mafia attraverso i romanzi di Sciascia che non per certe sentenze giuridiche, pure importantissime. La letteratura non deve cogliere il fatto specifico ma lo spirito che ha mosso le cose. Deve scavare nel profondo (…)  Credo che possa esserci una letteratura che non produce capolavori e che tuttavia descrive un clima. C’ è una letteratura media, a volte anche molto popolare, come quella americana degli anni Venti e Trenta, attraverso la quale si possono percepire un immaginario collettivo, certi comportamenti e i meccanismi del potere con una qualità di informazione che non corrisponde a un’ eccelsa qualità estetica. Parlo di scrittori di gialli, di fantascienza, perfino di un Bradbury, che certo non è Kafka. Insomma, non occorre esser Céline, perché poi sarà il lettore a decifrare. A questa letteratura non chiedo di esser convincente, ma di seminare dei dubbi, che è già una grande funzione. E, senza far nomi, non escluderei affatto che in Italia ci siano scrittori in grado di partire da questi indizi per costruire quelle finzioni che paradossalmente possono condurre alla verità”.
Infine, nel 2006, in L’oca al passo, Tabucchi si congedò così:
“Chi ha scritto queste pagine è uno scrittore di letteratura. […] Misurarsi con la vita può far male, specie se lo si fa senza eccessive mediazioni letterarie o romanzesche. Lo hanno fatto altri scrittori in passato e l’ho fatto a lungo anch’io, come queste pagine testimoniano. Ma non lo si può fare per sempre. È giusto che uno scrittore, a un certo punto, ceda il testimone della visione diretta della realtà e riprenda i suoi strumenti più consoni. È quello che faccio, chiudendo questo libro. Il futuro è di vostra competenza: pensateci voi”.
Ecco, è esattamente quel “pensateci voi” che mi dà da pensare. In quanti siamo, dentro quel “voi”, adesso?

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