DI BERTOLUCCI, DI ARMADI, DI ZUPPIERE

Molte segnalazioni, stamattina.
Per cominciare, ieri pomeriggio Repubblica mi ha chiesto un intervento sul “caso” Bertolucci. Lo trovate qui, insieme a quello, precedente, di Elena Stancanelli, e ai pareri di Francesca Archibugi e Paolo Repetti.
A proposito di casi controversi: chiedere o no la chiusura di Guardaroba perfetto, la trasmissione “fashion” per bambine? Un altro genere di comunicazione dice sì, e spiega perché, tweet alla mano. A dirla tutta, io preferirei un ripensamento generale sulle trasmissioni e le pubblicità destinate a bambine e bambini, più che un singolo gesto.
Sempre ieri (giornata movimentata, in effetti) ho parlato con Caterina Pasolini, che per Repubblica ha scritto questo articolo sulla rappresentazione delle donne (specie le mamme) in televisione. Siamo in argomento, e ve lo posto qui sotto.

Donne che spignattano con aria estatica mentre lui lavora o guarda la tv. Mamme sorridenti che nutrono tutta la famiglia, con aria premurosa. Sono immagini di ordinaria pubblicità, dalla pasta al latte, che corrono sulle nostre reti. Sono luoghi comuni messi sotto accusa ieri dalla presidente della Camera Laura Boldrini.
«Sulle donne e sul loro ruolo nelle istituzioni e nella società civile i media sono pieni di stereotipi. Penso agli spot con le mamme che servono la famiglia o il corpo femminile usato per promuovere viaggi e computer. Penso a chi ha scritto che sono aumentate le spese di pulizia alla Camera perché c’è un presidente donna, come se l’unica cosa che può fare bene una donna è tenere pulite le aule».
L’Italia si guarda e si specchia, divisa tra schermi e realtà, tra ricerca di identità e nostalgia di una famiglia vecchio stile, «perché in quelle donne accudenti forse trova soddisfazione un bisogno di affetto», spiega lo psicologo dei consumi Giovanni Siri. Annamaria Testa, pubblicitaria di fama, di quelle signore servizievoli invece non ne può proprio più. «Non sopporto di vedere ancora donne rigorosamente tutte bionde e tutte sorridenti con la zuppiera perennemente in mano, ma gli spot sono la punta dell’icerberg di un atteggiamento ben più ampio della nostra società. Basti pensare a quale immagine trasmettono i telegiornali. Se devono intervistare un esperto nell’80 per cento dei casi è un uomo, quando si tratta di sentire gente comune, pareri su acquisti e banalità quasi sempre è una donna. Così si dimenticano di rappresentare schiere di ingegneri, scienziate, medici, politiche ». Qualcosa deve cambiare. Lo ha detto ieri anche il presidente della Rai Anna Maria Tarantola che ha sottolineato «come nella tv pubblica, dove le giornaliste sono arrivate al 40 per cento, le donne e la loro opinione debbano essere ulteriormente rafforzate e meglio rappresentate anche a discapito dello share».
E se «il compito di educare non è della pubblicità», molto può fare per aiutare a cambiare. Di questo è convinta Annamaria Testa: «Perché abbiamo bisogno di meno stereotipi e più modelli di ruolo, bisogna abbandonare i luoghi comuni che ingabbiano le donne e imprigionano gli uomini, perennemente fotografati in camicia azzurra, mai grassi, mai con gli occhiali. Un mondo finto», che lei prova a smontare sul sito www.nuovoeutile.it.
Gli spot mutano lentamente. «Si è provato a fare pubblicità con uomini che cucinano e si occupano dei bambini, ma non hanno funzionato, la donna che nutre e accudisce invece rassicura», spiega il professor Siri. Perché la femminilità, aggiunge, è ancora ostaggio dell’immaginario maschile che vede le donne secondo le categorie di prestazione e rifugio affettivo. E la vera emancipazione avverrà solo quando le donne riusciranno a vedersi attraverso i loro occhi, non specchiandosi nello sguardo degli uomini.
Ma per cambiare mentalità e visione bisogna cominciare dalla scuola. Loredana Lipperini, scrittrice, giornalista, non ha dubbi. «Bisogna partire dai libri di testo dove già a sei anni ti spiegano che i saperi necessari sono diversi a seconda del sesso. Un esempio? Le maghe devono solo essere capaci di ballare e cucinare, i maghi invece devono risolvere enigmi. Gli stereotipi imprigionano in ruoli fissi, dall’asilo alle pubblicità: dove le bambine si vestono o si tingono le unghie mentre i bambini giocano». Difficile cambiare. «Le aziende hanno paura di rischiare e fanno le stesse pubblicità, eppure all’estero ricerche hanno dimostrato che usando l’ironia, snobbando gli stereotipi e osando nel linguaggio pubblicitario, si viene premiati nelle vendite».  Parola di Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi.

8 pensieri su “DI BERTOLUCCI, DI ARMADI, DI ZUPPIERE

  1. L’antidoto sicuramente è quello di mostrare modelli alternativi. In casa lo si fa, a scuola a volte si, sui libri di testo purtroppo no.
    Ieri a casa di amici guardavo con i nostri figli minori (io ho due maschi, loro due femmine) i giochi e i libri. Un tripudio di principesse. Alcuni libri sono decisamente rivoltanti (ne sfogliavo uno in cui la protagonista doveva vincere un concorso di bellezza per poter sposare il principe), ma anche i giochi di per se’ sono alquanto stucchevoli: cavallini rosa con le criniere da pettinare, winx con le ali scintillanti ecc.
    Faccio notare che gli amici in questione sono ben consapevoli del discorso dei ruoli e dell’identità di genere, ma non riescono ad arginare la deriva dei giochi solo al femminile. Anche per questo facciamo spesso giocare insieme i nostri figli, in modo che possano confrontarsi e “contaminarsi”.
    Ieri per esempio i grandi hanno improvvisato di essere genitori di due grandi pelouches e hanno fatto la loro rappresentazione di vita quotidiana. I piccoli si sono contesi bambolotti…

  2. Riguardo a Bertolucci, leggo che ancora una volta la posizione di Loredana è in minoranza, o quantomeno Repubblica ha voluto mostrarla così.
    La posizione di Francesca Archibugi è systematically correct, se mi passate il termine. E non avevo dubbi in proposito.
    Quella di Elena Stancarelli è: cinema e realtà sono due cose completamene diverse. Segno che se anche è una cinefila, non ha visto con attenzione Lynch. La giustificazione che “Ultimo tango a Parigi” sia un capolavoro (chi l’ha stabilito ufficialmente?) non regge. Anche “Il trionfo della volontà” è effettivamente un documentario straordinario. Abbiamo tutti sbagliato a segare la carriera di Leni Riefenstahl?
    Ci sono molti aneddoti su casi di “violenze” dei registi sui propri attori. Soprattutto tra registi ed attrici. Ma alla palla che fosse necessario per ottenere quella scena, mi fa solo pensare che il regista non fosse capace. Se invece di un’esordiente, Bertolucci si fosse trovato davanti un’attrice con maggior peso contrattuale non si sarebbe mai azzardato. Ergo ne deduciamo che si sia comportato come uno stronzo: forte con i deboli.
    Anche io credo che la finzione e la realtà abbiano molte differenze. Ma forse più che la Schneider, se lo sarebbe dovuto ricordare Bertolucci.

  3. Ribadisco: anche il più manipolatore e “violento” (le virgolette sono d’obbligo) dei registi ti avvisa per tempo di cosa prevede la scena che devi girare..pertanto bertolucci in questo caso non è giustificato nemmeno su un piano artistico.

  4. Mi sto facendo l’idea che, al di là dello stupro, la querelle su “Ultimo tango a Parigi” sia lo specchio della miseria culturale nella quale siamo immersi da anni. La stessa distinzione tra “stupro-in-carne-ossa-e-*sangue*(non colore rosso, sangue vero)” e “violenza psicologica” è indicativa: forse che la psiche non è parte integrante della persona, dell’interfaccia mente-corpo, spirito-materia che ogni essere vivente è? Quanto deve regredire la comprensione dell’essere umano per sminuire a psicologia una violenza che (grazie al cazzo!, se perdonate il francesismo) non arriva a essere “fisica”?
    E sull’arte, questa riproposizione di una sorta di zona di esenzione dalla vita e dalle responsabilità che comporta ogni atto compiuto (compresa l’emissione di cazzate incartate in carta oleata con parole forbite) quanto è regressiva? Davvero siamo alle peggiori mitologie romantiche di terza mano, al dannunzianesimo d’accatto (cioè quello dei dannunziani di risulta).
    Ricordo una confessione sulla tirannide del teatro fatta da Eduardo De Filippo, sull’aver dedicato tutta la vita al teatro quasi dimenticandosi di avere dei figli, e di aver scoperto un giorno che i figli erano cresciuti, e per fortuna venuti su bene nonostante un padre assente: lo confessava piangendo sul palco, Eduardo, davanti a una platea che aveva appena visto recitare padre e figlio assieme. Arte e teatro avranno preso possesso dell’attore-Eduardo, ma l’essere umano-Eduardo dava prova di una coscienza critica (si chiamerebbe facoltà di giudizio) e autocritica tanto dure con sé quanto il teatro lo era stato con lui.

  5. Ho appena visto la pubblicità delle scarpe per bambine Lelli Kelli: “Hanno la zeppa!” “Così diventiamo più alte!”; in omaggio trousse di trucchi.
    Certo, forse modelli più evoluti non vendono…un mondo dove anche i padri cucinano e accudiscono i figli, anche i bambini maschi fanno le torte, le bambine non passano il tempo a truccarsi ma per dire ascoltano musica e giocano a carte, e anche le donne lavorano in ufficio o in magazzino, è impensabile…Oppure per il catalogo dell’IKEA che mi è arrivato l’altro giorno a casa. L’IKEA, quell’oscura aziendina che si rivolge a un ristretto pubbblico di intellettuali e rivoluzionari…

  6. Intanto l’arte si chiama così perchè è artificiale, ciè fatta da qualcuno. In ogni caso, ogni azione compiuta per produrre l’opera è reale, fa parte della vita e il fatto di essere finalizzata a produrre un’opera d’arte non la rende meno reale.
    In conclusione, il film resta un capolavoro, ma Bertolucci e Brando furono dei belli stronzi.

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