Donne abusate che non fuggono. Qui trovate l’articolo di Maria Novella De Luca sulla ricerca dell’Università di Bologna e Fondazione Icsa. Qui sotto, l’intervento di Michela Marzano. A margine, la breve considerazione sul fatto che non è solo nell’anima delle donne che andrebbero cercate, forse, le cause.
“Gli uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”. Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie.
Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare
l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo. Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.”
alle radici del marcio della nostra società.Brava.Non vanno comunque dimenticate la paura indotta della solitudine(Pavese,che per molti aspetti non è stato un bell’esempio parlava dell’arte di bastare a se stessi),e il terrore di rinunciare nel medio periodo ai presunti agi della vita borghese.In quelche maniera in posti come questo si cerca di dare al nebuloso concetto di solidarietà femminile lo spirito del kibutz.La strada è lunga e piange i suoi martiri(parola che forse non è possibile declinare se non al maschile.Un caso,forse),agili e forti le vostre leve,spero.Salud
“Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici”
No. Non lo è. Dire questo è fuorviante. Certo, succede che donne che subiscono o assistono a situazioni di violenza da piccole, possano poi accompagnarsi con uomini violenti. Ma non è la regola, nè – soprattutto – la chiave di comprensione.
Ci sono donne che sono state molto amate da piccole, vivendo un’infanzia affettivamente ed economicamente agiata, che finiscono poi a vivere situazioni di violenza da cui escono dopo molto tempo, sempre che riescano ad uscirne. Molte ne muoiono.
I motivi sono molteplici, così come diversi ed interconnessi sono i tipi di violenze che si perpetrano contro le donne: fisica, sì, ma anche psicologica ed economica. E anche i tempi e i modi della nostra legislazione non aiutano affatto, anzi.
In occasione del 25 novembre dello scorso anno abbiamo fatto una serie di interviste a Caterina Righi, operatrice della Casa delle Donne per non Subire Violenza di Bologna, indagando i diversi tipi di violenza (fisica, psicologia ed economica) e i motivi che inducono le donne a convivere con queste situazioni drammatiche per anni prima di chiedere aiuto. In una intervista di presentazione del festival “La violenza Illustrata” organizzato dallo stesso centro antiviolenza in quei giorni , la direttrice artistica Chiara Cretella ci dice “Il problema è che di violenza contro le donne si parla, ma spesso se ne parla male”. E questo crea molto danno, perchè non dà la dimensione reale, ne impedisce la comprensione e, di conseguenza, la prevenzione.
Dire che subiscono violenza le donne che hanno vissuto una vita disagiata, fa pensare a molte di essere immuni, quando magari stanno già subendo una prima forma di violenza (partner che esige la password di facebook, o che si mostra geloso e insofferente se lei esce con altre/i) senza rendersene conto.
Allo stesso modo usare continuamente foto di donne piene di lividi nelle campagne di sensibilizzazione, se da un lato può essere d’impatto, dall’altro è in contrasto con i dati realtivi al fenomeno: si dice che una donna su tre nella vita abbia subito una qualche forma di violenza, ma certo non si vedono in giro così tante donne tumefatte. Infatti: i lividi non si espongono, si coprono con il fondotinta, oppure sono in zone del corpo non visibili. Sappiamo che “insospettabili” sono gli uomini che feriscono e uccidono le donne, ma “insospettabili” sono anche le donne abusate. Potrebbe essere (e secondo le statistiche lo è) la nostra vicina di casa, quella con la vita apparentemente perfetta, un marito premuroso e magari pure facoltoso, figli bravi a scuola… e non lo sapremo mai, finchè non capiterà qualcosa di eclatante e drammatico.
Non voglio di certo impedire a nessuno di dire la sua su un determinato argomento, nè accanirmi contro i risultati delle ricerche, ma credo che se davvero si vuole capire (o al meno provare a farlo) questo fenomeno così complesso e così diffuso, sia necessario dare voce a chi se ne occupa con esperienza e competenza da decenni. E i dati statistici possono essere diabolici, perchè sembrano oggettivi, ma non lo sono, perchè le scelte (ambito della ricerca, tipologia di domande,etc) sono sempre personali e le conclusioni sono indissolubilmente legate al punto di vista di chi osserva. Si parla di durata della relazione, di area geografica, di figli… ma nulla si dice sulla difficoltà che hanno le donne nel riconoscere, ammettere, nominare la violenza. Ed è difficile chiamare “violenza” qualcosa che fino a pochi decenni fa il Diritto di Famiglia autorizzava: tuo marito poteva “corregere” i tuoi comportamenti a suon di botte e tu per legge dovevi prenderle e abbassare la testa. La legge è cambiata, ma i cambiamenti sociali sono molto più lenti: ancora oggi la vergogna e il senso di colpa pesano come macigni sulle donne abusate, addomesticate a ritenersi le uniche responsabili per non essere riuscite a costruire una famiglia perfetta. Ancora oggi molti e molte faticano a comprendere (e ammettere) che ci possa essere uno stupro all’interno di un matrimonio.
La ragione non è che non siamo state amate da piccole, ma che ci hanno insegnato per secoli che la vita di coppia è fatta anche di questo: gelosia, schiaffi, sopportazione. Tanto che nelle scuole, ragazzine di 16 anni mi dicono che avrebbe ragione un ragazzo a colpire con un pugno la fidanzata che l’ ha tradito, ma non viceversa, o che è sintomo di una relazione sana e genuina il fatto che il partner insista per avere rapporti sessuali anche se loro non ne hanno voglia: “Vuol dire comunque che gli piaccio e tiene a me”.
Un caro saluto
Mari
Mi riconosco in questa posizione
http://zauberei.blog.kataweb.it/2012/07/04/psichico-107punto-personale-su-questioni-di-genere/
Loredana, se il link non va bene, cassa pure.
però una cosa non mi è chiara: gelosia (che comunque non è solo maschile) deve voler dire per forza violenza? Una persona che prova gelosia ma non picchia e non impedisce all’altro/a di vivere la propria vita e uscire con amici e amiche..è violenta? Insomma, il problema è la gelosia in sè o l’incapacità, la non-volontà di alcuni di controllarla, gestirla e di evitare derive violente e ossessive?
Io nella mia vita non ho mai sperimentato altro che la violenza.
Sento ancora le grida di mia madre, terrorizzata, mentre mio padre le spacca la faccia. Accadeva sempre. Fortunatamente alcuni giorni si sentiva buono e allora mia madre beccava “solo” qualche ceffone. Altre volte invece era particolarmente sadico, tipo quel giorno quando ha spaccato il bicchiere e l’ha colpita sul viso. Era una maschera di sangue, mia madre. Io e mia sorella gridavamo e piangevamo ma nessuno ha voluto sentirci. Nessuno è venuto in nostro aiuto. Mi madre è sempre andata da sola al pronto soccorso e non l’ha mai denunciato. Era caduta con la bottiglia in mano, ha raccontato ai medici. Non ricordo quanti punti esterni e interni le hanno messo sul viso quel giorno.
Io l’ho sempre pregata di lasciarlo, avevo paura che prima o poi la uccidesse.
Un giorno, io avevo 15 o 16 anni, mentre ero in camera mia, scoppia l’ennesima lite. Insospettita dall’improvviso silenzio, mi sono precipitata in salone. Lì ho visto una scena terribile: mia madre giaceva per terra e mio padre era sopra di lei con le sue grandi mani strette in una morsa fatale intorno al suo collo. Stavolta non ho solo gridato, ma sono passata all’azione. Ho preso la scopa ed ho iniziato a colpire mio padre con tutta la forza che avevo in corpo. Strillavo che se non avesse smesso io l’avrei ammazzato. Quando l’ha lasciata, lei fortunatamente era ancora viva. Ho ripetututo a mio padre che se avesse solo osato toccare nuovamente mia madre, io l’avrei ucciso. Gli ho urlato contro tutto il male che aveva fatto a me e mia sorella per tutta la nostra misera esistenza. Ascoltava, non parlava e non osava guardarmi negli occhi. Da quel giorno non l’ha più toccata, ma ormai la mia vita era segnata. Forse per tentare di aggiustare il passato, forse perchè io non conoscevo l’amore, forse per non pensare al mio triste passato, mi sono sempre ficcata in storie pessime. Vittima di violenza psicologica. Solo ora, a 40 anni, dopo l’ennesima brutta storia ho avuto l’illuminazione. Ho realizzato di avere un problema. Ho deciso di spezzare le catene che mi legavano al fardello del mio passato ed ho chiesto aiuto ad un centro antiviolenza.
Non necessariamente la gelosia porta alla violenza, io stessa quando ho provato gelosia, lo ho fatto senza limitare la vita di nessuno, facendomi divorare intimamente… ma credo che la gelosia in sè sia, più che un problema, un sintomo di qualcosa che bisognerebbe avere il coraggio di scandagliare: siamo gelosi perchè siamo insicuri, abbiamo paura di perdere ciò che amiamo, non abbiamo fiducia, ci sono problemi nella copia che non vogliamo ammettere?.Perchè ci sentiamo così? Certo, non è facile rispondersi e non esiste una risposta universale, ma penso che ognuno dovrebbe cercarla, quella risposta.
E poi, anche se non fa alzare le mani, la gelosia può far compiere azioni che io ritengo comunque una forma di violenza: invadere la privacy del partner (non a caso si usa il termine “violare”), controllandone i msg nel telefono, le mail nella casella di posta…
E’ difficile liberarsi della gelosia, molti pensano che sia sintomo (o addirittura sinonimo?) di amore, è un sentimento talmente “comune” da apparire “normale”.
X Mari
Sono convinto che tra le tante cose di cui deve essere fatta una relazione amorosa duratura e felice ci sia pure complicità (dentro e fuori dal letto) e fiducia reciproca..quindi la gelosia va sicuramente tenuta sotto controllo in quanto può essere sintomo di scarsa fiducia in se stessi/e o nel partner o nella solidità del rapporto. Shakespeare insegna che è “il mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”
Anche farsi divorare internamente dal suddetto mostro non so dire quanto sia salutare..forse idealizzo troppo, ma nella mia relazione ideale dovrebbe esserci dialogo cioè sarebbe bello avere il coraggio di dire apertamente a lui/lei che quel suo atteggiamento o vederlo con quella persona ci ha provocato gelosia, di dirgli/le che abbiamo paura di perderlo e che abbiamo delle insicurezze ecc..(ovviamente mi riferisco a situazioni in cui la gelosia è infondata e il rapporto funziona)
Liberarsi della gelosia non so se sia possibile (resto convinto che un pizzico di gelosia possa pure mettere “pepe” al rapporto ma deve essere giusto un pizzico), so però che, per quanto difficile, è possibile, se c’è volontà, tenere a bada il mostro, impedirgli di rovinare la tua vita e il tuo rapporto, evitare derive ossessive e violente. Chiedo scusa se vado OT
una relazione smette di essere amorosa,per diventare malata,quando la volontà di uno degli attori in gioco è viziata
http://cowsarejustfood.files.wordpress.com/2008/06/re-makere-model.mp3
E’ un pregiudizio, sostenere che la violenza possa essere conseguenza solo di una sorta di maledizione che si tramanda di generazione in generazione.
Se hai avuto un’infanzia serena, se non hai mai assistito a scene di violenza, se non concepisci neanche l’idea che certe cose possano esistere davvero, forse sei addirittura la vittima ideale, perché confidi “nell’intima bontà dell’uomo”.
E quando l’uomo si rivela in tutta la sua miseria, in tutta la sua meschina disumanità, quella che devi accettare non è solo la tua personale situazione, ma anche il fatto terribilmente destabilizzante che l’immagine che avevi del mondo intero, l’idea che ti eri costruita dell’umanità è del tutto falsa. Un genere di disillusione difficile da mandare giù. Tutto ciò che ti circonda assume i contorni confusi di un incubo, e mentre pensi che non può essere vero, ogni giorno lo diventa di più, e quando finisci per dover accettare la realtà, anche se questo significa ricostruire una nuova te stessa, ecco che arrivano altre e più terribili disillusioni: alla gente non importa. La gente non lo vuole sapere.
So di una donna che si è tolta la camicia sul luogo di lavoro per mostrare i lividi al suo capo, che ha reagito rispondendo: faccio un colpo di telefono a tuo marito? Magari ci beviamo un caffé…
Per non parlare di tutte quelle volte che le Forze dell’Ordine entrano in casa, “sedano gli animi”, e non stendono uno straccio di verbale. O di quei medici al Pronto Soccorso che invece di sollecitare una denuncia scrivono un referto con meno giorni di prognosi, per non essere costretti a procedere con una denuncia d’ufficio. O quando un vicino chiama il pronto intervento perché sente le urla, e l’operatore gli risponde “E’ sicuro che vuole che interveniamo? Guardi che rischia una denuncia per diffamazione…”
Sono tutte cose che ho visto. E la colpa non è nel passato, o nella psiche debilitata delle vittime, è nella società tutta, quella indifferente, quella che non prende posizione, quella che col marito che picchia ci beve un caffé.
certo è assurdo dire che una persona che da piccola ha vissuto determinate cose sicuramente da adulta vivrà in un determinato modo, il “sicuramente” non esiste sopratutto quando si parla dell’animo umano.
Però è sensato affermare che chi nell’infanzia ha subito violenza da parte dei genitori o ha assistito ad atti di violenza di un genitore contro l’altro da adulto possa essere violento o avere relazioni con persone violente (a mio giudizio Stephen King lo ha raccontato magistralmente attraverso il personaggio di Beverly Marsh in It), è possibile ma non è certo, non è una regola fissa, non tutte le donne che stanno con uomini violenti hanno subito abusi da piccole o hanno assistito a violenze sulla madre ma alcune sì, in alcuni casi chi ha subito violenza da piccolo diventa violento in altri no, ogni vicenda è diversa. Mi ha sempre colpito positivamente lo scrittore Mauro Corona: racconta spesso delle violenze fisiche ripetute che ha subito dal padre, che picchiava pure la moglie e gli altri figli, ma quando Corona si è fatto una famiglia sua ha deciso di comportarsi in maniera del tutto opposta