GENNA SU DIES IRAE

Sul quotidiano di oggi, l’apertura dell’Almanacco è un’intervista di Francesco Erbani a Giuseppe Genna  su Dies Irae. Ve la riporto.

È nato il giorno, mese e anno della strage di piazza
Fontana, 12 dicembre 1969. E, aggiunge, anche alla stessa ora e persino nei
minuti, anzi nei secondi in cui esplose la bomba che seminò la morte alla Banca
Nazionale dell´Agricoltura. Ma di dettagli che si smarriscono in una fuliggine
di fabulazione, Giuseppe Genna dissemina sempre i suoi racconti. Come quando
assicura che le quasi ottocento pagine di Dies Irae le ha stese in un
mese e mezzo. Genna mescola nei suoi romanzi lo storico e il fantastico. Finora
ha scritto libri di genere – noir, thriller -, anche molto ben riusciti, con
buone vendite in Italia e all´estero. Ha curato un sito, "I
Miserabili", crocevia di tanta web-letteratura, ha lavorato nella
redazione di riviste – Poesia di Crocetti – e di case editrici – la
Mondadori. Con questo nuovo romanzo compie un triplice salto mortale
piroettando fra venticinque anni di storia italiana, dalla morte a Vermicino
del piccolo Alfredo Rampi, fino all´estate scorsa, fluttuando fra alta e bassa
politica, tv seria e tv immondizia, servizi segreti, contatti medianici,
criminalità, affari e complotti, soprattutto complotti. Eppure Genna casca in
piedi, dopo aver volteggiato intorno a sé medesimo, un po´ osservatore
incallito e vorace di questo quarto di secolo, un po´ personaggio prodotto da
uno sdoppiamento che è «estraneità da me stesso» e non solo tecnica narrativa.
Di Dies Irae, romanzo poderoso, romanzo storico (come a scuola si era
abituati a designare i libri di Walter Scott), romanzo allegorico con pagine al
calor bianco, parliamo in uno snack bar vicino alla stazione, mentre una
pioggia lenta batte su Milano. Milano è il luogo di Dies Irae, «una
città dalla quale ho sempre voluto andar via, ma non ci sono mai riuscito». Fra
i fratelli di cordata Genna annovera Tommaso Pincio, Giulio Mozzi i Wu Ming e
Valerio Evangelisti. Il suo modello è Underworld di Don DeLillo.
Mi dica lei: cos´è Dies Irae?
«È una cronaca impazzita di questo periodo, costruita attraverso eventi
emblematici che mi premuro di far esplodere. Sono episodi diventati mito,
favola comunitaria».
La tragedia di Vermicino è una favola comunitaria?
«È una storia memorabile. È il primo momento in cui una nazione si emoziona
allo stesso modo davanti alla tv».
Quella diretta tv dura più di un giorno.
«Diciotto ore. Fu uno spettacolo feroce, privo di pietà, ha allucinato e mutato
profondamente gli italiani. Ma non fu solo quello».
Cos´altro fu?
«La vicenda di Alfredino spazza dalle pagine dei giornali la scoperta della P2,
la fuga in Uruguay di Licio Gelli, il processo a Roberto Calvi, il rifiuto di
Arnaldo Forlani di formare il governo, il rapimento di Roberto Peci, fratello
del terrorista pentito Patrizio…».
Non penserà a un complotto?
«È un fatto emblematico, non storico. Nella realtà però è andata così. Quella
vicenda la interpreto come la chiusura degli anni Settanta, un rito collettivo
che apre il nuovo decennio».
Quello del dominio televisivo, del ritorno al privato…
«Quello in cui un popolo stracciato, con il cervello generalmente in pappa si
preparava all´avvento della stagione pneumatica e indecente che avrebbe
trionfato sul medium di massa. Da Alfredino ai reality. Ma è anche il decennio
della sovranità limitata dell´Italia, fino alla caduta del Muro. In quel
decennio diventammo il paradiso delle spie di tutto il mondo».
Ecco che torna la storia, non solo gli emblemi.
«Restando alla storia, come dimenticare che, comunque, sulla morte di Alfredino
ci fu un´inchiesta che si chiuse con un nulla di fatto, lasciando aperto il
sospetto che il bambino nel pozzo non ci sia finito da solo? E come
dimenticare, ancora, che un anno dopo Vermicino una nuova emozione collettiva
si impose, quella dei mondiali di calcio vinti dall´Italia?».
Insisto: anche questa è storia. O no?
«Il compito di uno scrittore o, meglio, quello che io credo sia il compito di
uno scrittore è mettere in ambiguità questi eventi. Sa cosa c´era sul Corriere
della Sera dietro la pagina con la cronaca di Alfredino?».
Me lo dica lei.
«C´era la pubblicità di Milano 3. "Nasce una città", c´era scritto.
Milano 3 del gruppo Edilnord dei fratelli Paolo e Silvio Berlusconi si
proponeva come la città degli anni Ottanta, ricca di verde e amica dei
bambini».
È solo un caso.
«Certo. Ma un romanzo serve a incantare. Lo scrittore non deve interpretare la
storia secondo etichette algebriche, ma con antiche tecniche sciamaniche.
Questa storia è vera o è falsa? Non importa. Il pensiero nasce da un
incantamento e solo sull´incantamento si fonda la morale. E guardi che
l´affabulazione non è evasione dal mondo. È piuttosto il contrario. In questo
siamo contemporanei di Giambattista Vico».
È per questo motivo che lei è attratto dai complotti? I complotti le appaiono
come una categoria per interpretare il mondo. È così?
«Il complotto consente di costruire una favola verosimile. Ai miei occhi l´idea
del complotto ha origini letterarie, da Victor Hugo a Franz Kafka. Il suo
schema è affabulante».
Ma è vero che lei ha lavorato alla Camera dei deputati quando presidente era
Irene Pivetti e durante quel periodo ha studiato i faldoni della Commissione
P2? Quella non è un´origine letteraria.
«La letteratura viene comunque prima. È vero che ho lavorato con la Pivetti.
L´avevo conosciuta quando collaboravo a una tv privata. Erano i primi anni
Novanta, lei venne, sembrava una ragazzina, indossava uno zainetto e parlammo
poco di politica e molto di filologia dantesca».
E ne sapeva?
«Chi, io?».
No, la Pivetti?
«Sì, ne sapeva. Quando diventò presidente della Camera mi chiamò, voleva che
curassi un programma di poeti a Montecitorio. In realtà a palazzo San Macuto
avrei dovuto riordinare i documenti della commissione presieduta da Tina
Anselmi. Ma non fu possibile arrivare a conclusione».
E questa vicenda compare in Dies Irae, piena di omissis. Come compaiono Bettino
Craxi e i suoi congressi, la Milano degli stilisti e dei brasseur, Michael
Ledeen e Moana Pozzi, Francesco Cossiga e i guitti di Odeon Tv. Come ha fatto a
scorrere da un personaggio all´altro?
«Lo scrittore è una bestia che abita la retroguardia della specie. La osserva da
dietro per meglio pugnalarla alle spalle. La scrittura è quasi una forma di
inebetimento. Io nutro il mito degli scrittori ciechi, di Omero, per esempio,
ma anche dei personaggi come Tiresia o Edipo, che vedono comparire le storie
nel buio e ne hanno una percezione che è quella del magnetismo incantatore».
Torna lo scrittore-sciamano?
«O l´autore di una ninna-nanna».
In Dies Irae c´è anche la sua storia personale. C´è il suo rapporto ravvicinato
con la sofferenza mentale.
«La malattia nervosa fa parte della mia famiglia d´origine. Nel romanzo
racconto di mia nonna trattata con l´elettrochoc e poi morta suicida. Il dolore
ha un valore magistrale. Insegna. Eschilo sosteneva che senza dolore non si
arriva a nessuna conoscenza. Ma mi interessa anche il disagio collettivo».
In che senso?
«Nel senso del suo evidente aumento, della vertiginosa crescita delle terapie
farmacologiche».
Contro le quali lei si scaglia.
«Da tempo mi occupo di neuroscienze, pratico la dance therapy e mi vado sempre
più convincendo che la letteratura sia terapeutica, la letteratura come
modalità di esercizio della coscienza. La letteratura come incanto».

8 pensieri su “GENNA SU DIES IRAE

  1. >La vicenda di Alfredino >spazza dalle pagine dei >giornali la scoperta della >P2, la fuga in Uruguay di >Licio Gelli, il processo a >Roberto Calvi, il rifiuto >di Arnaldo Forlani di >formare il governo, il >rapimento di Roberto Peci, >fratello del terrorista >pentito Patrizio…».
    >Non penserà a un >complotto?
    >«È un fatto emblematico, >non storico. Nella realtà >però è andata così.
    magari le cose fossero, così semplici…
    la televisione ha generato l’illusione che con un click è possibile cambiare la realtà e i primi ad esserne vittima sono proprio quelle persone che, con tutte le loro buone intenzioni, vorrebbero far apparire il complotto…
    che alcune persone abbiano potere in questo paese è qualcosa che si manifesta davanti agli occhi di tutti, ma questo cosa ha cambiato… e soprattutto cosa cambia…

  2. Sono impaziente di leggere il nuovo libro di Giugenna, ma qua a Venezia arriva tutto così in ritardo:- ).
    Spero mi piaccia quanto “L’anno luce”. Nell’attesa, mi gingillo con la biografia romanzata di Keats (“L’amore della luna”, di ELIDO Fazi:- ) )

  3. Anno Luce è un libro interessante. Se preso come non-romanzo. Non tanto per ripetere la definizione dell’autore, che potrebbe suonare come compiaciuta, ma perché lo è realmente: non c’è una vera storia. C’è un insieme di “scuse” narrative per far partire una serie di digressioni particolari. quasi sempre esse vertono su questioni secondarie, storie inattuali, dimenticate: da Gigi Rizzi alla vera storia (che in molti non sanno) della cagnetta Laika. Si tratta di piccole spaccature con una dose visionaria di surrealismo contemporaneo che a mio avviso rappresentano una novità nella narrativa italiana contemporanea. Nel senso che vanno oltre, sono un’alternativa alla filosofia della “trama a tutti i costi” che viene portata avanti dai mediocri scrittori di gialletti che abbiamo. Non è una lettura facile, a mio avviso. Ma allo stesso tempo non è nemmeno così pretenziosa come potrebbe sembrare.
    Mi è piaciuta molto, a tal proposito, la definizione di scrittura come forma di “inebetimento” che Genna dà nell’interista. Un inebetimento, a volte, quasi delirante, magari anche un po’ compiaciuto, ma sicuramente genuino e creativo. Io difendo Genna. E promuovo la lettura de “l’anno luce”. QUesto nuovo lo leggerò, ma penso che vada letto dopo L’anno luce. E sapendo a cosa si va incontra. Insomma a me Genna pare uno che srive libri per sé, in maniera ideosincratica, fregandosene delle possibili critiche. E fa bene. Meglio Genna di 100 Avoledo o Faletti.
    Autet

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