Prendo spunto, ancora, dalla questione Roald Dahl, ma per provare ad affrontare un punto che è, secondo me, centrale (e rientrerebbe peraltro proprio nel discorso del lavoro culturale e di come ci si deve rapportare a una realtà complessa come la nostra). La cosa più sbagliata che possiamo fare, e lo ripeto, è trasformare la discussione in schieramenti. E, soprattutto, banalizzare le istanze di chi chiede voce: “concederla” e anzi sfruttarla a proprio vantaggio come hanno fatto Netflix e Puffin Books è, a mio parere, un errore e anche un abbaglio. Azzerare e schernire chi desidera testi inclusivi, o come vogliamo chiamarli, è un altro errore.
Certo, resto convintissima del fatto che quei testi dovrebbero essere prodotti oggi, e che quelli di ieri non andrebbero toccati, specie ad autore morto.
Però. Mi ha colpito, fra le centinaia di post letti, chi faceva riferimento alla nostalgia, e sosteneva che esiste una spinta conservatrice che viene da chi vorrebbe che il proprio mondo, quello in cui è cresciuto, rimanesse immutabile. Questo è un punto interessante, anche se, ancora una volta, pieno di sfumature.
Nel film La grande bellezza c’è una frase equivoca sulla nostalgia: “Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro, l’unico”.
Naturalmente l’equivoco non si deve certo alla sceneggiatura, ma al significato che viene attribuito quasi unanimemente al sentire nostalgico: guardare indietro. E’ vero che nostalgia viene da νόστος (ritorno) e άλγος (dolore) e quindi indicherebbe letteralmente qualcosa come “dolore del ritorno”. Nel tempo, però, nostalgia viene a coincidere con passatismo. Ovvero ancora, la lagna di coloro che rimpiangono i bei tempi che non tornano. Non è esattamente così: a volte, e penso, in caso, a tutte le accuse di passatismo rivolte a chi si batte contro le Grandi Opere e la cementificazione, quel tipo di nostalgia significa guardare in avanti, e sostenere anzi non che si vuole preservare il passato così com’è, ma che occorre semmai provare a capire come si possano gettare punti fra passato e presente e trovare modi nuovi per interpretarlo. In altre parole: invece della sostituzione di termini giudicati offensivi, trovare un’altra via per salvaguardare Dahl e anche i lettori sensibili (non siamo d’accordo con loro? Va bene, ma non siamo loro). Quale via? Non lo so. Ma intanto poniamoci, magari, in quest’ottica.
Faccio un esempio. Nel 2007 venne proposta per la maturità una traccia sulla globalizzazione, che prendeva le mosse da un brano del sociologo Giuseppe Tamburrano: “L’industrializzazione ha distrutto il villaggio, e l’uomo, che viveva in comunità, è diventato folla solitaria nelle megalopoli. La televisione ha ricostruito il ‘villaggio globale’, ma non c’è il dialogo corale al quale tutti partecipavano nel borgo attorno al castello o alla pieve. Ed è cosa molto diversa guardare i fatti del mondo passivamente, o partecipare ai fatto della comunità” (da “Il cittadino e il potere”, in “In nome del Padre”). La traccia chiedeva di discutere l’affermazione citata, precisando se in essa “potesse ravvisarsi un senso di nostalgia per il passato”.
All’epoca rispose benissimo Stefano Rodotà:
“Siamo di fronte a una nuova condizione umana, che certo può produrre inedite forme di solitudine e di esclusione, che può imprigionare la vita nello schermo di un computer, ma che deve essere considerata come elemento essenziale della dinamica complessiva che stiamo vivendo.
Si può dire, allora, che la scelta dell´argomento sia stata buona, ma che l´indicazione per la discussione non ha tenuto conto dello spirito che percorre le persone alle quali era rivolta. Gli studenti dovevano farsi giudici di una nostalgia che non gli appartiene? D´altra parte, essi già vivono un dialogo che nulla ha di formale, come testimonia lo sconvolgimento prodotto dalle immagini che proprio dalla scuola sono arrivati negli ultimi tempi su YouTube. E a quale comunità “circostante” dovevano pensare? La loro esperienza è già quella, intensa o effimera, che produce il “popolo di Seattle” o la convocazione per un rave party. Quei temi saranno riusciti a catturarla?”
Propongo una via di mezzo? Naturalmente. Sempre. Insultarsi a vicenda non porta mai a niente di buono.