Questa volta si parla di fumetti: agli Stati Generali dell’Immaginazione a Bologna è intervenuto infatti Otto Gabos, ed è un discorso che vale la pena di seguire, perché quello del fumetto non è un mondo a parte (che noia doverlo ripetere ogni volta). Anche perché, come scoprirete, anche in questo caso si fa largo “il tema”, molto più della storia.
Nota: Il blog tornerà a essere aggiornato mercoledì, perché lunedì sarò a Milano per un invito che mi onora. Sarò infatti fra i narratori e le narratrici di Vajont23, al Piccolo Teatro. Sarà una gioia incontrarvi.
La fuga dalle storie
Inventare storie è complesso, c’è poco da discutere. Inventare storie a strati con intreccio di testo e sottotesti vari è ancora più complesso. È impresa difficile ma si fa.
Invento storie e lo faccio molto spesso, ma non solo, usando i fumetti. Scrivo e disegno libri a fumetti, romanzi a fumetti. Insomma i graphic novel come sono ormai catalogati i fumetti che si trovano nelle librerie di varia. Anche in fumetteria per essere più precisi.
Il termine romanzo, o novel, associato al fumetto è importante perché chi legge e guarda si può immaginare una storia di ampio respiro, articolata, con personaggi con psicologie e personalità profonde e sfaccettate. E ci si aspetta che anche gli atti compiuti dai personaggi, i luoghi attraversati e abitati siano altrettanto profondi e sfaccettati. Sono stati anni importanti quelli della traversata del deserto. La strada accidentata non finiva mai e spesso era in salita. Si cadeva ruzzolando all’indietro e poi di nuovo da capo. Perché i fumetti non erano e non sono solo pupazzetti disegnati o peggio i fotoromanzi come certi benpensanti ignoranti credono ancora. A torto. Ora i romanzi a fumetti si sono conquistati il loro scaffale in libreria, come un genere letterario, come un qualsiasi prodotto editoriale. Gialli, romance, fantascienza, gastronomia e fumetti che poi quasi sempre vengono definiti graphic novel perché suona meglio di fumetto. Anche Geronimo Stilton è stato definito graphic novel.
Tra i fumetti esposti ci sono i paperback delle major specializzate in supereroi, i cartonati di quello che un tempo era chiamato fumetto popolare italiano, Tex e Dylan Dog per intenderci e i manga. Tantissimi manga. E i manga contemplano qualsiasi argomento, qualsiasi afflato stilistico. Tutto questo tripudio di fumetti ha spesso in comune solo il linguaggio, per il resto sono espressioni molto diverse tra loro. Infatti volevo parlare dei romanzi a fumetti.
Come per i romanzi letterari si è imboccata inesorabilmente la strada del tema. Prima viene il tema, l’argomento, meglio se sociale o su qualche sacrosanto diritto civile. È una strategia decisamente meno accidentata, più facile da vendere, più immediata da recepire. Il tema sempre più spesso occupa lo spazio centrale della comunicazione. Un libro sulla migrazione, un libro sul prete antimafia, un libro sulla fluidità, un libro sulla maternità, sulla malattia, sulla morte, presto anche sull’oltretomba. Il tema vince a mani basse. L’autore segue molto alla distanza, però se a parlare direttamente del tema si mette l’autore in prima persona la prospettiva si ribalta ed è proprio il massimo. Il tema importante con risvolti autobiografici. Bingo! Troppo comodo dirà qualcuno. Può darsi dico io, ma del resto gli scaffali delle biblioteche sono stipate di romanzi autobiografici con temi importanti, romanzi bellissimi, altroché se sono bellissimi! E chiediamoci il perché. È proprio questo il punto. Forse perché sono scritti bene e il tema lo vai a trovare all’interno della storia, devi scavare perché più è sottile più è nascosto. Torno alla frase con cui ho iniziato il discorso: inventare storie è complesso. Insomma anche se abbiamo messo insieme un tema forte e un’altrettanto forte ossatura autobiografica il loro insieme deve diventare una storia perché senza la componente drammaturgica ben messa al centro non si va da nessuna parte e tanto vale allora scrivere un saggio, un articolo, un’intervista o direttamente sul proprio diario intimo. Che non sono storie, che non sono romanzi. Letterario o a fumetti importa poco. Sono altro, magari bellissimo e interessantissimo ma comunue altro.
Da bambino sono cresciuto ascoltando storie di guerra, di bombardamenti, di morti sotto le macerie. Mi fidavo del racconto e mai avrei messo in dubbio che le parole della nonna, della zia o del padre potessero essere solo una bugia e non chiedevo mai se fossero tratti da una storia vera. Mi raccontavano anche storie di alieni, navi spaziali. In questo caso chiedevo se erano storie vere perché avevo un bisogno disperato di risposte affermative, perché la fantasia galoppava e a vere l’avallo che quei racconti fossero testimonianze veritiere mi apriva altri mondi, fantastici altri mondi che volevo fossero più veri del reale. Il bambino da una parte ha bisogno di sicurezze, di punti di ancoraggio e dall’altra vuole credere a ciò che sta oltre. Vorrebbe che l’oltre fosse qui e ora. Un’iper realtà. Da adulto ho mantenuto ben saldi in me questi punti di riferimento. Ondeggio da un estremo all’altro, sovrapponendo, mischiando, ribaltando, in definitiva trasfigurando. Ecco perché quando leggo sullo schermo all’inizio di un film “tratto da una storia vera” spesso mi irrito, mi spazientisco, sbadiglio e a volte smetto di guardare quel film. Per rendere tale una storia non basta la certificazione che sia vera. Sarebbe assurdo considerare storie meno ancorate alle realtà come frutto della fantasia. E non vorrei soffermarmi a discutere cosa sia la fantasia. Faremo notte, anzi notti. Infinite notti. Da lettore ho un disperato bisogno di storie, il desiderio di essere stupito, spiazzato. Da autore è lo stesso. Mi trasfiguro in discarica, fossa comune, mare aperto, abisso, canyon di Marte che raccoglie tutto quello che intercetto, spinto da una fame inesauribile che fa rima con curiosità. Frammenti, aneddoti, racconti di vita che sono già pezzi di storia, epifanie improvvise, amnesie altrettanto improvvise. Mi nutro di tutto, divoro e poi digerisco. La realtà dei fatti deve macerare, lievitare, crescere, contaminarsi e poi sedimentare per trasformarsi in altra materia altrettanto reale che finalmente ora è storia. Altrimenti è cronaca, ancora diario, una raccolta di osservazioni e impressioni.
Ci vuole sforzo a seminare, accudire, far germogliare e poi attendere prima di raccogliere i frutti che possono anche essere brutti, pieni di bozzi e macchie, dal gusto insolito. A volte anche marci, ma è l’unica prassi da adottare. La fatica del lavoro che diventa amore per quello che fai, per quello che sei.
In certi momenti tutto ciò appare come un atto di coraggio, anche temerario. Poco conveniente se si fa un rapido calcolo di costi e benefici. La poltrona è molto più comoda di uno sgabello. Però quando ci si siede su uno sgabello non ci si appisola quasi mai. La scomodità rende vigili e si sta svegli sempre all’erta. Rimanere lucidi, rendersi conto di quello che si sta facendo. Prima che sia emergenza, prima che la concessione quotidiana dell’abbandono progressivo di pezzetti di immaginario dilaghi e diventi irreversibile. Le storie non devono essere lasciate andare e allo stesso tempo non bisogna fuggire dalle storie.
Sono troppo belle. Troppo indispensabili per rinunciarci.
In cambio di che poi?