GLI STESSI POSTI CON LE NOSTRE MANI: STORIE UTILI

Sono tempi interessanti. Tempi in cui occorre stare a guardare, prendere appunti, osservare reazioni e mancate reazioni, attribuzioni di imbarazzi e parole imbarazzanti. Ancora una volta, i libri aiutano. Per esempio. Nel 1982 Stephen King pubblica Stagioni diverse: quattro racconti, Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, Un ragazzo sveglio, Il corpo, Il modo di respirazione. Il secondo, Un ragazzo sveglio, racconta di Todd, 13 anni, bravo ragazzo, studente modello, che scopre vecchie riviste con molte storie sui campi di concentramento:
È come una chiave che gira nella serratura. O come innamorarsi per la prima volta.
E così fu. Certo, ne aveva già sentito parlare della guerra; non di quella cavolo di guerra che era in corso e in cui gli americani si erano fatti prendere per il culo da quattro visi gialli con la tuta nera, ma della seconda guerra mondiale. Sapeva che gli americani usavano degli elmetti rotondi coperti di rete mentre quelli dei crucchi erano più o meno quadrati. Sapeva che gli americani avevano vinto quasi tutte le battaglie e che verso la fine della guerra i tedeschi avevano inventato i missili e che li avevano lanciati su Londra. Sapeva persino dell’esistenza dei campi di concentramento.
Però tra quello che sapeva e quello che scoprì sulle riviste nel sottoscala del garage di Foxy, passava la stessa differenza che c’è tra il sapere che esistono i germi e il vederli con i tuoi occhi al microscopio mentre si dimenano vivi e vegeti.
Qui trovò Ilse Koch. Qui trovò i forni crematori con le porte aperte su cardini ricoperti da fuliggine. Qui trovò le uniformi degli ufficiali delle SS e quelle a righe dei prigionieri. L’odore di quelle vecchie riviste sembrava l’odore dell’erba che bruciava incontrollata ad est di Santo Donato, e gli pareva che la carta si sgretolasse sotto i polpastrelli, e sfogliò le pagine, non più nel garage di Foxy, ma in un tempo e in un luogo non ben definito, mentre cercava di raccapezzarsi all’idea che quelle cose erano veramente successe, e che qualcuno le aveva fatte davvero, e che qualcuno gli aveva permesso di farle, e cominciò a fargli male la testa in un misto di repulsione e di eccitazione, e gli occhi erano rossi e stanchi, ma continuò a leggere, e in una colonna di un articolo, posta sotto la fotografia di un groviglio di persone in un posto chiamato Dachau, fu colpito da una cifra:

6.000.000.

E pensò: Si saranno sbagliati, avranno messo uno o due zeri di troppo, è tre volte la popolazione di Los Angeles! Ma poi, su un’altra rivista (la cui copertina riportava una donna incatenata a un muro mentre un tizio con l’uniforme da nazista le si avvicinava con in mano un attizzatoio e con un ghigno dipinto sul volto) lesse di nuovo:

6.000.000.

Il mal di testa gli aumentò. Gli si seccò la bocca. Vagamente, in lontananza, udì Foxy dire che lui entrava perché era ora di cena. Todd gli domandò se poteva restare in garage a leggere ancora un po’. Foxy lo guardò con aria sorpresa, si strinse le spalle, e disse di sì. E Todd lesse, curvo su quegli scatoloni pieni di riviste di guerra, finché sua madre non telefonò a chiedere perché non tornasse a casa.
Come una chiave che gira nella serratura.”

Todd riesce a scoprire che un uomo incontrato per caso sul bus è in realtà Kurt Dussander, comandante di un lager. Lo segue, gli rivela la scoperta e promette di tacere in cambio dei suoi racconti. Il male colerà dall’uno all’altro, come da maestro ad allievo. E si diffonderà.
Valga il colloquio fra due investigatori che infine capiscono cosa sta avvenendo:

«Io mi domando, credi che le atrocità alle quali ha preso parte Dussander possano costituire una base di attrazione tra i due? È un’idea molto triste, continuo a ripetermi. Le cose che sono successe in quei campi hanno ancora il potere di far fare le capriole allo stomaco. Anch’io mi sento così, anche se l’unico parente stretto che era stato in campo di concentramento è stato mio nonno ed è morto quando io avevo tre anni. Ma forse tutti proviamo un certo fascino macabro nella nostra mente per ciò che hanno fatto quei tedeschi — qualche cosa che apre le catacombe dell’immaginazione. Forse una parte delle nostre paure e dei nostri orrori deriva proprio dalla conoscenza segreta che nelle giuste — o sbagliate — circostanze anche noi saremmo stati in grado di costruire gli stessi posti con le nostre mani. Scoperta spiacevole. Forse sappiamo che nelle circostanze giuste ciò che si agita nelle catacombe sarebbe felicissimo di salire a galla. E come credi che sia tutto questo? Come tanti Führer pazzi dalle coppiglie e dai baffi stile spazzola per scarpe, salutando alla nazista dappertutto? Come diavoli rossi, o demoni, o come il drago che svolazza con le ali puzzolenti da rettile?»
«Non lo so», rispose Richler.
«Io credo che molti di loro assomiglierebbero a tanti ragionieri», disse Weiskopf. «Piccoli uomini con diagrammi e schemi volanti e calcolatori elettronici, tutti pronti a massimalizzare il tasso di assassinio cosicché la prossima volta saranno in grado di ammazzare 20 o 30 milioni di persone, invece di 6 soltanto. E qualcuno di loro potrebbe assomigliare a Todd Bowden.»
«Mi fai venire i brividi come lui», disse Richler.
Weiskopf annuì. «È un argomento da brivido. Trovare quegli animali e quegli uomini morti nella cantina di Dussander… mi ha fatto venire i brividi, no? Non ti è capitato di pensare che forse questo ragazzo ha iniziato tutto per un semplice e puro interesse per i campi di concentramento? Un interesse non tanto diverso da quelli dei ragazzi che fanno collezione di monete o di francobolli o di quelli che preferiscono leggere le storie di Tex Willer? E che lui è andato direttamente da Dussander a prendere informazioni dalla bocca del mostro?»
«Bocca», rispose automaticamente Richler. «Ragazzi, a questo punto sono pronto a credere qualsiasi cosa.»
«Forse», mormorò Weiskopf. La sua voce si perse con il rumore di un altro camion che li stava passando. BUDWEISER c’era stampato sul lato a caratteri giganteschi. Che strano paese, pensò Weiskopf, accendendosi una sigaretta. Non riescono a capire come facciamo a vivere circondati da arabi mezzi matti, ma se io vivessi qui per due anni di seguito mi verrebbe l’esaurimento nervoso. «Forse, forse è possibile vivere accanto a un assassinio dopo l’altro senza venirne coinvolti.»
A cosa altro servono le storie?

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