Ho cominciato la settimana leggendo, divertendomi ma anche arrabbiandomi, l’articolo di Fabrizio Patriarca su Snaporaz: parla di imbecillità e soprattutto parla di influencer, e di quel che può avvenire quando un improvvido organizzatore decide che l’influencer faccia il moderatore nella presentazione di due libri.
“La tecnica è apparentemente semplice: boicottare l’intelligenza in cambio di qualche carezza all’immodestia del pubblico (se quelle persone sono lì ad ascoltare presunte faccende di libri ci sarà un motivo). Apparentemente semplice, ma ci vuole ritmo – se rallenti lasci il tempo all’uditorio di indugiare sulla corbelleria. Quella che l’influencer sciorina sul palco è una variante metrica dei suoi post: informazioni, informazioni, informazioni, nessuna sensibilità per la lingua, neanche la minima inclinazione al «piacere del testo», tutto si riduce a un problema di apprezzamento: faccio la foto, non faccio la foto. Metto/non metto il «mi piace»”.
Al di là dell’episodio (che pure dà da pensare, visto che capita con frequenza maggiore che gli e le influencer presentino o moderino eventi culturali), quel che forse dovremmo ancora capire, e non è facile, è cosa si intenda e come si muovono le persone che hanno un considerevole seguito sui social.
Perché non sono tutte uguali, ovviamente. Ci sono state e ci sono persone che hanno quel seguito perché hanno fatto e scritto e detto cose importanti, e intendono usare i social per raggiungere il pubblico più ampio possibile. Non faccio i nomi ma credo che sia abbastanza intuitivo capire il concetto. Ci sono però stati e ci sono influencer che con i social lavorano, e dunque i loro video e le loro parole hanno un prezzo che viene pagato dal committente, e tanto. Anche qui, niente di male: sapevamo da anni che saremmo finiti dritti dal no-logo al me-logo, e che saremmo diventati i brand di noi stessi, da mettere al servizio di altri dietro compenso. Che si tratti di vendere libri o limette per le unghie o scarpe o quel che volete non cambia. Dunque, l’articolo di Patriarca mi stupisce fino a un certo punto: anche i libri, ahinoi, sono “merce”, e dunque ci si affida ai venditori.
Però mi è venuto in mente un vecchio discorso, sollecitato da questo articolo di Irene Graziosi. In particolare:
“È bizzarro come il termine attivismo abbia perso la componente di attività insita nella parola stessa. Basta postare un quadrato nero o delle elaborate infografiche su uno sfondo arcobaleno e immediatamente si diventa attivisti di una causa. Anzi, di varie cause, perché l’intersezionalità – cornice accademica utile per analizzare le intersezioni di diverse dimensioni sociali e identitarie applicandole ai grandi numeri – sui social trova terreno fertile per abbracciare con le infografiche qualunque causa esistente. Per il clima, contro il catcalling, contro l’omotransfobia, contro l’utilizzo di parole offensive, contro il razzismo, contro la feticizzazione dei corpi, per il body positive, contro la plastica. Grazie all’intersezionalità applicata agli individui è sia possibile calcolare la percentuale di handicap che ognuno di noi si porta dietro, 60% acqua, 40% categoria discriminata, sia essere attivisti per una causa qualunque che viene dissezionata fino all’ultimo atomo di modo da produrre più post, nutrire l’algoritmo e, incidentalmente, guadagnare follower. L’attivismo, un tempo collettivo, è diventato appannaggio dei singoli svuotando di significato gli -ista che lo descrivono. Ogni lotta è declinata sul sé, ognuno la intende a proprio modo, e nessuno è in grado di non personalizzare l’ideale a cui sostiene di credere”.
Bisogna essere davvero molto, molto in gamba per non declinare la lotta sul sè: Michela Murgia lo era, per esempio. Ma in molti casi non ci si riesce. In molti casi la causa comune diventa essa stessa un brand come le limette per le unghie e le creme contorno occhi. Perché se io continuo a non chiedere alla politica di prendere responsabilità, e delego quella responsabilità a un potere economico, cosa succede? Succede quel che scrive Irene Graziosi:
“Ora che siamo brand non siamo più cittadini, siamo consumatori. Non chiediamo più allo Stato di fare qualcosa, lo chiediamo ai brand (e quindi a noi stessi) a cui non costa nulla parlare dell’unica cosa che ci è rimasta e che potenzialmente può darci lavoro: la politica dell’individuo”
Come scrissero ai tempi i Wu Ming in un non dimenticato articolo sul feticismo della merce digitale:
“La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto”. Facebook, dunque, si basa sul pluslavoro degli utenti: “Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no. L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. E’ forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere”.
Qualcuno ha detto che un tempo prendere parola pubblica era come lasciar cadere un petalo di rosa nel Grand Canyon e aspettare di sentire l’eco. E qualcun altro ha aggiunto che ora il Grand Canyon è pieno di petali di rosa e non c’è nessuna possibilità di sentire quell’eco. Allora, nulla è facile in questo mondo: proviamo a capirlo, però, o ne saremo mangiati. Perché questa non è imbecillità: è una nuova forma di potere.