Come spesso avviene a maggio, sono giorni pesanti, sia pure in pandemia: cento impegni, pile di libri da leggere, il tempo per la scrittura rimandato. Ieri sera, dopo l’omaggio a quattro a Chiara Palazzolo (grazie a scrittrici meravigliose come Stefania Auci, Eleonora Caruso, Giuliana Misserville), pensavo a tutte le conversazioni che con Chiara facevamo sulla paura. Come spesso accade, in questi casi, mi torna in mente un racconto di Borges, L’episodio del nemico ( “I suoi argomenti, caro Borges,sono semplici stratagemmi della paura, perchè io non la uccida. Ma ormai non può farci più niente”) . E allora ricerco una vecchia intervista fatta a Borges dallo scrittore spagnolo Ramón Chao, nel 1978, e pubblicata nel settembre 2001 da Le Monde Diplomatique. E mi è venuta voglia di riportarne qui almeno qualche brano (ha a che vedere con la paura? No, o sì, ma solo alla fine).
Di suo padre lei mi ha già parlato. E sua madre?
Era inglese. E con lei parlavo in inglese. Giovanissimo, mi portarono in Svizzera, dove parlavo francese con la maestra, e imparavo il latino da un professore. Con mio padre parlavo e scrivevo in spagnolo.Perciò, per qualche tempo ho creduto che ogni persona avesse una sua lingua. Curioso: centinaia di milioni di lingue. Ma forse è vero; ed è per questo che non ci si comprende.
Lei scriveva come suo padre, o era suo padre a scrivere come lei?
Il mio stile era molto barocco, come il suo. Quando si incomincia a scrivere si imitano i propri maestri, per modestia o per ambizione. Credo che uno scrittore trovi il proprio stile solo dopo anni. Da giovane copiavo mio padre, cercavo parole arcaiche, insolite. Adesso evito le metafore, le espressioni rare, tutto ciò che potrebbe indurre a consultare un dizionario. Cerco di raggiungere il fondo comune della lingua, al di là delle limitazioni temporali o geografiche.
Pensa di essere arrivato a essere Borges, ora che ha la sua «opera»?
Sta dicendo una cosa molto emozionante, ma per favore, metta «opera» tra virgolette. Io non ho scritto un’«opera»; solo frammenti. Non capisco perché sono celebre. All’inizio pensavo che non avrei mai pubblicato nulla; poi mi è sembrato di essere una superstizione argentina, e ora mi devo rassegnare a pensare di non essere un impostore: ho ricevuto la Legion d’honneur in Francia e la laurea honoris causa da varie università … Ma preferirei essere lodato più per le cose non scritte che per quelle scritte. O, in altri termini, per ciò che ho cancellato, anche se si ritrova ugualmente tra le righe. Questo è possibile grazie a Cervantes, alla letteratura francese e a quella inglese, perché lo spagnolo tende in generale a essere magniloquente. Ho sempre in mente la frase di Boileau: «Ho insegnato a Molière l’arte di comporre faticosamente versi semplici». Secondo me, pochi scrittori hanno raggiunto la perfezione – tranne forse Kipling, nei suoi racconti, in cui non c’è una sola parola di troppo. Io cerco, in tutta modestia, di imparare da lui. Ad essere al tempo stesso semplice e complesso. Certo, alcuni temi – come l’invasione della Russia da parte di Napoleone – esigono il romanzo. Ma io non penso di scrivere romanzi.
(….) ciò che temo non è la morte, è la decrepitezza. Con me scompare un lignaggio, e questo è molto doloroso per quel patito della genealogia che mi trovo ad essere.
Non se ne preoccupi troppo. Lei non lascia epigoni.
Mi ha tranquillizzato. Posso dunque aspettare tranquillamente la morte?
Questo resta da vedere. Lei ha scritto – o detto: «L’eternità incombe su di me».
L’immortalità personale è incredibile – come del resto la morte personale.
Io penso di aver parafrasato il verso di Verlaine, «Et tout le reste n’est que littérature» (e tutto il resto non è che letteratura).
Attenzione, non sono responsabile né di quanto mi è capitato di dire, né di ciò che dico in questo momento. Le cose cambiano in continuazione, e noi pure. Non le citerò la celebre frase di Eraclito sul mutare del fiume, ma ricordo un verso di Boileau: «Il momento in cui ti parlo è già lontano da me».
Tuttavia le capita di ironizzare sulla morte. O sulla longevità, «una cattiva abitudine difficile da estirpare».Non sono io a dirlo, è la vox populi. «Nulla meglio della morte/fa migliori le persone./ Morire è un’abitudine/che ci accomuna tutti».
Sembra Borges! E questo Borges avrebbe paura della morte?
No. Come mio padre, ho buone speranze di morire completamente, anima e corpo. Conosco molti credenti che sono atterriti. Alcuni sperano di andare in paradiso, altri temono l’inferno. Mentre un agnostico come me, che non crede a tutte queste storie, non si ritiene degno né di ricompensa né di castigo. Non mi rimane altro che aspettare.