“Tutti assieme, furono quattordici anni d’inferno, senza che lei lo sapesse. Per la gran parte di quegli anni la sua esistenza trascorse in uno stordimento così profondo che era quasi morte e in più di un’occasione si sentì quasi certa che la sua vita non stesse veramente accadendo, che presto o tardi si sarebbe svegliata, per sbadigliare e sgranchirsi con la grazia di un’eroina in un disegno animato di Walt Disney. Questa idea cominciò ad affiorarle più spesso dopo che lui la picchiava così selvaggiamente da costringerla a letto qualche tempo per riprendersi. Lo faceva tre o quattro volte l’anno”.
E’ un passo di Rose Madder, che Stephen King scrive nel 1995: uno dei romanzi dove parla esplicitamente di violenza contro le donne. Di donne, in realtà, King ha sempre scritto, arrivando a scegliere come esergo per Sleeping Beauties, scritto con il figlio Owen, i versi di Born A Woman di Sandy Posey: “E se sei nata donna/Sei nata per essere ferita”. Quando Spleeping Beauties uscì, nel 2017, parecchi Fedeli Lettori Kinghiani (maschi) storsero il naso: quell’idea di un mondo privo di donne e di una Gilania idilliaca tutta femminile sembrò ad alcuni una resa al politicamente corretto, e qualcuno arrivò ad accusarlo di essere diventato “una suffragetta invasata”.
Spesso le polemiche sono sciocche, e questa lo era. King, comunque la si veda, ha ogni volta cercato di scavalcare gli stereotipi di appartenenza: per quanto riguarda quello di genere, ha sempre raccontato (o saputo raccontare, o anche voluto raccontare) il punto di vista delle donne, dall’adolescenza angariata di Carrie alla silenziosa resistenza di Dolores Claiborne, ha più volte inserito nelle sue storie riferimenti ai centri antiviolenza (in Insomnia e in Rose Madder), alle donne abusate e picchiate (da It in poi) e che a quella violenza reagiscono (Notte buia, niente stelle).
Infine, ne è sempre stato consapevole. Nel 1998, in un’intervista a Andrew O’Herir, si ritrovò quasi nei panni dell’imputato. Possibile che dentro ogni uomo normale si nasconda un mostro?, gli chiese il giornalista. “Non penso che il mostro sia in ogni uomo – disse King – ma penso che sia in molti uomini. Penso che abbiamo davvero una propensione verso la violenza. Molti di noi sono come molti aeroplani. Ricordi il volo TWA 800, quello che esplose sopra Long Island? Ci fu un problema elettrico e il fuoco si appiccò alle ali. E’ quel che avviene al ragazzo che scatta improvvisamente, al Charles Whitman che sale sulla cima della torre e spara a un mucchio di gente. Al ragazzo che ha il fuoco nelle ali”. Poi aggiunse: “Mi ricordo una ragazza. Quando andavo al college ci siamo frequentati, poi abbiamo smesso perché “volevamo vedere altra gente”. Anzi. LEI voleva vedere altra gente, così abbiamo rotto. L’ho incontrata molto tempo dopo. Aveva un livido sotto l’occhio. “Che è successo?”, le ho detto. “Non voglio parlarne”, ha risposto lei. “Andiamo a prenderci un caffè”, ho proposto. Era successo che era stata con un ragazzo, e quel ragazzo voleva fare qualcosa che lei non voleva fare. Così, lui l’ha picchiata. Non l’ho mai dimenticato. Questa storia è diventata anzi la base per molte storie che ho scritto. Ricordo di averle detto: “Ci vuole coraggio per uscire con un ragazzo, vero? Quel ragazzo ti attrae, forse ti interessa. Ma quel che stai pensando, in fondo è Sto per entrare nella tua macchina. Sto per andare con te da qualche parte. Sto per aver fede nel fatto che mi riporterai indietro intera. Ci vuole coraggio”. Lei mi ha risposto: “Tu non potrai mai saperlo”. Gli uomini sono un pericolo. Siamo grossi animali”.”
Fra i suoi colleghi, che piaccia o meno, Stephen King è fra i pochissimi che abbia cercato di cambiare prospettiva. Lo ha fatto nel suo romanzo d’esordio, Carrie, affrontando un tema delicato come quello del bullismo femminile. Aveva 26 anni, King, insegnava inglese e viveva con la moglie Tabitha e due figli in una roulotte: prima di allora, quando ancora studiava, aveva fatto il bidello e, pulendo i bagni delle ragazze, aveva notato un distributore per gli assorbenti. Carrie nasce da là, da uno sguardo maschile prima curioso e poi partecipe (come si può umiliare una ragazzina che non sa nulla del proprio corpo e grida terrorizzata davanti al sangue delle prime mestruazioni, se non tirandole addosso gli assorbenti?).
Carrie è del 1974. King tornerà a scrivere di donne picchiate (Shining) e nel 1986 creerà il suo primo, grande, personaggio femminile: Beverly Marsch, in It. Non solo la ragazzina maltrattata dal padre (e poi dal marito), ma colei che riesce a vedere dove altri non vedono, e a trovare la strada che li porterà fuori dalle fogne di Derry. Poi verranno la feroce (e disperatamente sola) Annie Wilkes di Misery, Dolores Claiborne e i due romanzi che, come detto, narrano la violenza sulle donne come questione sociale e individuale, appunto Insomnia e Rose Madder. Quando, nel 2010, escono i quattro racconti di Notte buia, niente stelle , tre riguardano ancora una volta le donne e la violenza: omicidio (in 1922, dove un agricoltore convince il figlio a uccidere la rispettiva moglie e madre, Arlette), stupro (Maxicamionista narra la tormentata vendetta della scrittrice Tess), menzogna (Darcy, la protagonista di Un bel matrimonio scopre che il marito è un serial killer). Un’attenzione non nuova, come mi raccontò lo stesso King: “Credo di avere una visione chiara – per quanto possa averla un uomo – dei problemi che alle donne tocca affrontare. Sono figlio di una ragazza madre che riceveva salari più bassi e veniva trattata con sufficienza perché senza marito. Non ho mai scordato quelle ingiustizie. La mia idea è che, nel complesso, le donne se la sappiano cavare in molte più situazioni e siano più abili degli uomini a risolvere problemi. Spero che nei miei libri questo si veda. Sto molto attento, cerco di evitare la pecca segnalata dal critico Leslie Fiedler: gli scrittori maschi americani hanno una visione semplicistica dei loro personaggi femminili, li rappresentano solo come «nullità» o come «esseri distruttivi».
Le donne di King non sono, come è sacrosanto, personaggi positivi a prescindere. Ci sono donne orribili, nelle sue storie, bigotte o pettegole o semplicemente feroci come i loro compagni. Ma è raro che ci siano donne a una dimensione, che lo stereotipo prevalga e schiacci tutto il resto. Non esistono, in King, persone completamente sbagliate. Esistono luoghi sbagliati, come Derry: e lo si capisce leggendo i romanzi che vi sono ambientati. Perché se gli abitanti di Derry ignorano l’orrore che vive e prospera nel suo sottosuolo, pure contribuiscono ad alimentarlo: non amano gli estranei, non vogliono che si metta in crisi quella che è una tranquillità solo apparente, perché Derry vive di odio e di rancore, e di sangue, e di segreti. Al 29 di Neibolt Street i vagabondi cercano riparo, ma possono trasformarsi in lebbrosi affamati di carne. Le Ferriere Kitchener esplosero nel 1906, uccidendo i bambini che cercavano uova di Pasqua, e ora ronzano di crudeltà quando si posa i piede da quelle parti. Bambini. Bambini che affogano nella Cisterna. Bambini inseguiti, braccati, divorati come farebbe il troll che si nasconde sotto il ponte aspettando il passaggio dei capretti.
Perché, ma questo è quasi banale dirlo, King scrive sempre storie sul male: o meglio ancora, su come la questione del male possa essere declinata in questo e altri mondi. Il male cosmico che si cela nelle galassie vomitate dalla benefica Tartaruga e nelle geometrie sghembe da cui proviene It. Il male quotidiano, perché se It si nutre di bambini, quegli stessi bambini vengono picchiati da genitori alcolisti, o vessati da madri ansiose, o semplicemente ignorati, come avviene al fratello di George, Bill, dopo che la morte ha raggelato la sua famiglia, e cosa può mai fare un ragazzino quando le mani della madre volano alle tempie come uccellini e il padre piange abbracciato agli scatoloni di giocattoli che nessuno userà più?
Nella postilla a Notte buia, niente stelle, King annota: “si scrive male quando ci si rifiuta di raccontare storie su quel che la gente fa realmente”. E aggiunge: “Una buona storia è una buona storia, a prescindere dal genere. E qual è una buona storia? Quella che dice la verità su di noi. Sulla condizione umana”.
La condizione umana è Rose Madder che fissa una macchia del suo sangue sul lenzuolo:
“Lui non la colpiva spesso alla faccia, era troppo furbo. Le botte in faccia erano quelle che menavano quei poveri imbecilli ubriaconi che aveva arrestato a centinaia nella sua carriera di poliziotto in divisa prima e di agente della squadra investigativa poi. Se picchi in faccia troppo spesso una persona, mettiamo tua moglie, dopo un po’ la storia del ruzzolone giù per le scale o dello stipite della porta del bagno beccato in pieno nel cuore della notte o del rastrello su cui hai avuto la scalogna di mettere il piede nel giardino dietro casa, non funzionano più. La gente capisce. La gente parla. E alla lunga finisci nelle grane, anche se la donna tiene la bocca chiusa, perché sembra proprio che i bei giorni in cui la gente si faceva gli affari suoi siano acqua passata”.
Accade, dunque, che sia uno scrittore maschio a immergersi nel pensiero e nelle emozioni femminili spesso con maggior forza, o con la stessa forza, di una scrittrice. Anche se è arduo da accettare in tempi in cui stiamo identificando letteratura, e dunque un atto di finzione per eccellenza, con verità, e ci abbarbichiamo attorno al concetto di autenticità: secondo il quale un romanzo è degno solo se riporta l’esperienza diretta, o presumibilmente diretta, di chi lo scrive. Ma la letteratura non è uno specchio dove il nostro riflesso è sempre più dettagliato, basta allungare la mano e sembriamo davvero noi, quelli raccontati. Non è la cronaca, non si sovrappone ai nostri status su Facebook. E’, o dovrebbe essere, una finestra. O, per dirla con King in 22.11.63, “un palcoscenico illuminato, sul quale noi mortali danziamo per sfidare le tenebre”.