IL ROSSO, IL NERO, NOI TUTTI

“Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. – Ah! malanno all’anima vostra! – balbettò Nanni”.
Certo che non c’è solo La lupa. E non c’è solo il sorriso di Rebecca De Winter mentre Maxim le spara. E non c’è solo Don José che si piega sul corpo di Carmen che ha appena pugnalato  dicendole “La MIA Carmen. La mia Carmen adorata”. Ce ne sono tanti.
Fermi, alt, un momento. Stiamo parlando di storie meravigliose, di capolavori della letteratura, della musica, del cinema. E nessuno si sogna di metterle in discussione: richiudete, dunque, nell’armadio lo spettro del moralismo e quello del politicamente corretto. Altra cosa è, come ha fatto oggi Adriano Sofri su Repubblica, riflettere sulla cultura che con la  morte delle donne ci ha cresciuti tutti, da secoli. Leggetelo, è uno splendido articolo (quanto al riferimento finale sulle Cinquanta sfumature, sono certissima che Sofri sappia molto bene che le donne che hanno letto le medesime, in molta parte, leggono anche Stendhal).
Quel femminicidio assolto da Stendhal
Il 22 luglio 1827 un ex seminarista, Antoine Berthet, sparò, nella chiesa del suo villaggio nell’Isère, a una signora di cui era stato amante. La vittima si salvò, Berthet fu ghigliottinato. Stendhal, come tanti grandi romanzieri del suo tempo, leggeva La gazzetta dei tribunali. “Il Rosso e il nero” ha origine in quel “fatto diverso” (e in casi simili di uccisioni di donne: la cronaca ne era già piena).
Vorrei mostrare quanto sia radicata nella nostra cultura, anche nella migliore, la nobilitazione dell’uomo che “per amore” uccide la donna – e la suggestione per cui la donna se ne senta gratificata! – scegliendo, fra gli innumerevoli esempi, questo romanzo meraviglioso. Ricorderete che si conclude con la decapitazione di Julien Sorel, che ha sparato in chiesa, ferendola ma senza ucciderla, alla sua prima amante, la signora de Rênal. Julien è il giovane di origini umili e paesane, dotato di genio e ardire, che una generazione prima sarebbe andato alla conquista del mondo come il suo idolo, Napoleone. Chissà se Napoleone giocasse con la carta geografica per conquistarsi un impero, o una signora parigina e un’arciduchessa. A Julien l’impero è negato, resta da espugnare una signora del capoluogo e un’ereditiera parigina. Le umiliazioni che subisce, in altri tempi, “avrebbero fatto i Robespierre”: fra sé e le azioni più eroiche, egli non vede che la mancanza dell’occasione. Un’energia sublime lo anima, di quelle che fanno fare cose straordinarie. Inattuale com’è, lo predestina invece alla Gazzetta dei tribunali.
L’idea del delitto d’onore fa la sua prima comparsa col grossolano signor de Rênal, che finalmente sospetta di sua moglie e Julien: “Posso sorprendere questo contadinello con mia moglie, e ucciderli tutti e due; così la tragedia cancellerà magari il ridicolo. L’idea gli sorrise, la seguì in tutti i dettagli. Il Codice penale è dalla mia…”. A sua volta, Mme de Rênal, che deve dirottare i sospetti del marito, gli scrive: “Quando le lettere che avete intercettato provassero che io abbia corrisposto all’amore di M. Valenod, voi dovreste uccidermi, l’avrei meritato cento volte”. Calcolata volgarmente dalla parte di lui, simulata temerariamente da lei, la coincidenza del codice penale con quello morale annuncia gli svolgimenti futuri. Intanto bisogna che Julien prenda il largo, fino al palazzo parigino in cui la marchesina de la Mole, nostalgica delle glorie degli avi, vagheggia a sua volta destini sublimi. “Solo una condanna a morte può distinguere un uomo, la sola cosa che non si compri”. Mathilde guarda i giovani chiedendosi: “Chi di loro potrebbe farsi condannare a morte?” Uno c’è, lo spiantato Julien, e Mathilde gli si concede, salvo pentirsene capricciosamente come di un cedimento a chi è indegno di lei, e lo punisce
col suo disprezzo. Julien è ora abbandonato, umiliato ed esasperato, ed ecco una scena madre.
Ho orrore di essermi data al primo venuto, gli ha detto Mathilde: “Al primo venuto! gridò Julien, e si lanciò su una vecchia spada del medioevo, che si conservava come una curiosità nella biblioteca. Il suo dolore… era ora centuplicato dalle lacrime di vergogna che la vedeva versare. Sarebbe stato il più felice degli uomini se avesse potuto ucciderla. Nel momento in cui estraeva la spada, con qualche fatica, dal fodero antico, Mathilde, felice di una sensazione così nuova, avanzò fieramente verso di lui: le sue lacrime si erano asciugate”. Considerate la ripetizione dell’aggettivo: heureux, heureuse, l’uomo più felice lui se l’avesse uccisa, la donna, lei, felice d’esser minacciata di morte. Julien rimette la spada nel fodero. “Tutto questo movimento, via via più lento, durò almeno un minuto; Mlle de la Mole lo guardava stupefatta. Dunque sono stata sul punto di essere uccisa dal mio amante! si diceva. Questa idea la trasportava nei più bei tempi del secolo di Carlo IX e di Enrico III”. La coincidenza si è fatta più stretta: il raptus di Julien – direbbe così oggi la Gazzetta dei tribunali – si è fermato alla soglia, ma è bastato a far sentire a Mathilde l’imminenza della morte, e così a riconquistarla. “Mademoiselle de la Mole rapita non pensava che alla felicità d’esser stata sul punto d’essere uccisa. Arrivava fino a dirsi: è degno d’essere il mio padrone, perché è stato sul punto di uccidermi”.
Ora andiamo verso la conclusione. Julien parte alla volta della sua provincia, deciso a punire Mme de Rênal, che si è intromessa fra lui e Mathilde (sotto dettatura del suo confessore) descrivendolo come un poco di buono. Dunque nemmeno le gazzette più indulgenti potrebbero ora invocare il raptus, perché Julien premedita da lontano i suoi colpi di pistola. Che per fortuna non sono mortali, come lui si è proposto. Poco dopo averli esplosi, Julien si accorge di aver ingannato se stesso, e che la sola donna che abbia amato e ancora ami è lei, la signora de Rênal. Dunque non è per vendetta che ha premeditato di ucciderla e le ha sparato, ma per amore. Julien lo rivendica col giudice: “Ho dato la morte con premeditazione; ho comprato e fatto caricare le pistole da un armaiolo. L’articolo 1342 del Codice penale è chiaro, io merito la morte, e l’aspetto”. Ed ecco ricomparire la simmetria della sala d’armi del palazzo de la Mole, quando la spada era stata sfoderata e rinfoderata; questa volta è la più appassionata, spogliata dei pretesti dell’orgoglio. “Morire per la mano di Julien, è il colmo della felicità” – pensa la signora de Rênal. E lui: “L’ambizione era morta nel suo cuore, un’altra passione era sorta dalle sue ceneri; lui la chiamava il rimorso di aver assassinato Mme de Rênal. In realtà, ne era perdutamente innamorato”.
Il loro amore può finalmente, seppure in una cella e con la condanna a morte sul capo di lui, spiegarsi senza riserve. “…ora che ti vedo, anche dopo che mi hai tirato due pistolettate… E qui Julien la coprì di baci”.
Non è solo l’amorosa Mme de Rênal a essere vinta dal suo gesto omicida (femminicida, ora diciamo, con questa parola brutta ma inevitabile, che Stendhal avrebbe trovato solo brutta), ma le donne in genere, come dice a Julien il suo bravo confessore giansenista: “La vostra età / Julien ha ora 23 anni!/, l’aspetto interessante che la Provvidenza vi ha conferito, il motivo stesso del vostro crimine, che resta inspiegabile, i passi eroici che Mlle de la Mole prodiga per voi, tutto insomma, fino alla sbalorditiva amicizia che vi mostra la vostra vittima, tutto ha contribuito a fare di voi l’eroe delle giovani donne di Besançon. Hanno dimenticato tutto per voi…”.
Alla fine Stendhal lascia le vicissitudini amorose del suo eroe e compie uno scarto sensazionale, che sembra anticipare Monsieur Verdoux. Julien si rivolge ai giurati, e tiene loro un’arringa gonfia di retorica sociale: “Signori, io non ho l’onore di appartenere alla vostra classe, voi vedete in me un contadino che si è ribellato contro la bassezza della propria fortuna… Se anche fossi meno colpevole, vedo degli uomini che vorranno punire in me e scoraggiare per sempre i giovani che, nati in una classe inferiore e oppressi dalla povertà, hanno la fortuna di procurarsi una buona educazione e l’audacia di mescolarsi a quella cosa che i ricchi chiamano la buona società. Ecco il mio delitto, signori, e sarà punito tanto più severamente perché non sono giudicato da miei pari. Non vedo sui banchi dei giurati qualche contadino arricchito, ma solo dei borghesi indignati…”. Questa mossa spiazzante (e, mi pare, spiazzata) è tuttavia a sua volta rivelatrice: perché spostando su un secondo piano le donne di Julien ne fa comunque la posta dell’audacia di un uomo, quando la Storia gli faccia mancare l’occasione dell’Impero. È il doppio senso della parola: conquistatore.
“Il rosso e il nero” è un magnifico romanzo psicologico: non è meno magnifico quando lo si legga anche come un documento della psicologia del suo autore. Mi auguro che non si prenda la rilettura che suggerisco come un’accusa a Stendhal – e al Dostoevskij dell’”Idiota” e al Tolstoj della “Sonata a Kreutzer”, e ai “Fiori del male” e alla “Ballata di Reading” e all’”Uomo senza qualità” e così via – di apologia del femminicidio… Suggerisco la rilettura a noi uomini, e magari poi ne discuteremo con le rilettrici donne. “Il Rosso e il nero”, piuttosto che il grigio delle sfumature.

16 pensieri su “IL ROSSO, IL NERO, NOI TUTTI

  1. Visto il dramma del fenomeno, e la grande tristezza che qualsiasi considerazione non si porta via, avrei preferito che Sofri avesse sfoggiato Stendhal, Tolstoj e via dicendo, in altri contesti. Ma l’urgenza di farsi notare passa su qualsiasi cosa.

  2. Un libro che spiega molto bene alcuni meccanismi è Un delitto d’onore di Arpino. E non è neanche male. Ne consiglio la lettura o la ri-lettura.

  3. Noi tutti ecco. Ma non lo sapevamo già, che chi scrive racconta di tutti noi e che se c’è il “femminicidio” oggi ci sarà stato anche dalla notte dei tempi, con le debite differenze che competono ad ogni momento storico? E allora a che pro questo esercizio letterario se non come tale? Eallora non sarà fatuo?

  4. Certo, se il femminicidio è un fatto culturale, cioè prodotto in tempi e modi diversi dalle diverse culture (maschiocratiche) avrà le sue manifestazione “base” e prosaiche e le sue trasfigurazioni “sublimi” nella più varia letteratura, che di per ciò stesse lo rispecchiano e lo rinforzano come fatto culturale: è quest’ultima funzione che mi sembra intenda evidenziare l’articolo, e cioè che anche i capolavori letterari prodotti dalle nostre culture nascono pur sempre da quella stessa cultura che, ai livelli più bassi, produce i vari femminicidi reali.

  5. Temo che l’amore per la letteratura abbia fatto prendere un abbaglio a Sofri. Le passioni dei personaggi di Stendhal sono lontane anni luce da quelle dei protagonisti delle cronache nere odierne. Il romanzo ottocentesco (quello di Stendhal in particolare, almeno è così che lo legge René Girard in “Menzogna romantica e verità romanzesca”) trasuda mimetismo allo stato puro: scoprirsi diversi da ciò che si è nati e che ci si è sempre creduti, trafigurati dall’amore o dall’odio, in un ambiente piccolo borghese in cui il livellamento sociale minaccia le identità storiche e scatena la volontà di autopromozione. E allora ecco la passione eroica anche se funesta, la passione totale che distingue anche a conto di estinguere, il gesto memorabile che sostituisce le res gestae dell’eroe cavalleresco di un tempo.
    Siamo molto lontani dai nostri giorni, dall’atomizzazione del sociale che li caratterizza e dall’enorme investimento pulsionale che si destina alla relazione amorosa da parte di maschi sempre meno gratificati dal successo professionale, sempre più abbarbicati alla compagna e alla famiglia come all’ultimo residuo di sicurezza. Là il delitto passionale poteva essere l’ultima versione del gesto estremo che aspira all’assoluto, qui è la furia distruttiva che colpisce il nido vuoto.
    Tra i due c’è la regressione reale regalataci dal progressismo presunto. Incapace di autentica singolarità, l’individuo odierno è incapace di agire colpevolmente: al massimo si agita, calpestando le vite altrui.

  6. Per Binaghi, Paola, Lipperini: certo che le configurazioni del “femminicidio” cambiano con le epoche, appunto! Anche per questo dubitavo sul farne il filo conduttore nudo e crudo di un excursus letterario; ma anche per non ridurre capolavori come La Lupa, che tra l’altro è letteratura verista.

  7. Ma un po’ di rischio c’è sempre. Anche il rapporto dell’autore con il testo non è semplice e ciò che decide di narrare non è detto che sia espressione tanto di sè – se ad esempio l’intento è verista e rivolto ad una classe sociale precisa – quanto appunto di tutti noi. Così alla fine una storia del “femminicidio” attraverso la letteratura non è male ma dovrebbe essere perciò storia e analisi comparata.

  8. Il rischio c’è negli occhi di chi lo rimarca. Sottolineo che nessuno ha parlato, nè Sofri nè io, del rapporto dell’autore con il testo, quanto di un sentire che viene da lontano e che si trova anche nell’espressione artistica, anche senza che chi legge o ascolta se ne accorga.

  9. Sì, è a me che sembra che il rapporto dell’autore con il testo c’entri sempre comunque, proprio per inquadrarlo storicamente, penso che si debba poter distinguere ciò che è per sè e ciò che è per tutti noi, come lavoro critico…così pure per quello che dicono Sofri e Lipperini! Non è solo quello che loro scrivono ma anche la discussione che ne nasce: vedasi alcuni commenti, paola e walter, ad esempio, che richiedono una storicizzazione.

  10. Un bel passo avanti sarebbe riconoscere che uomo e donna si definiscono reciprocamente nella coppia, ma le sue condizioni esterne, il sociale, non solo evolve ma anche declina secondo un certo tipo di parabola.
    La differenziazione psicologica dei soggetti odierni è al minimo storico, uomo e donna competono per lo status di individuo, il sesso è deprivato del genere che fonda la complementarietà fattiva, e la coppia diventa solo il luogo della fuga o del possesso. Quel che va salvato e promosso è la coppia come luogo della realizzazione del genere, metterne uno sotto la campana di vetro di uno statuto vittimario serve a poco.

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