La terza storia è una storia di giornalismo. Me la invia Alessandra Quattrocchi ed è, credo, esemplare.
2012, l’anno del risveglio. O: della Tragedia Familiare
(e di quanto è difficile parlare di donne nelle redazioni)
Giovedì 12 gennaio 2012. L’evoluzione della tragedia di Trapani coglie evidentemente di sorpresa i giornalisti. Un incendio scoppia in un appartamento. Alle nove del mattino, si sa che il rogo ha ucciso cinque persone. Alle nove e venti, a uccidere è stato un quarantenne, che ha appiccato il fuoco a una stanza con dentro la moglie, la figlia di dieci anni, la suocera e il cognato disabile. Poi si è buttato dal terrazzo. Faceva lavori saltuari. Tragedia della disoccupazione?
Verso le 10.30 del mattino comincia a serpeggiare un’altra informazione, però infilata in fondo ai pezzi dei siti online: la moglie è una ‘ex moglie’. Alle 10.50, è diventata ex anche nei sommari. Così racconta la vicenda il Corriere.it a quest’ora: “Dietro le fiamme di un devastante incendio al quinto piano di un condominio nel centro di Trapani ci sarebbe una tragedia familiare con l’esplosione della gelosia che avrebbe trasformato un uomo di quarant’anni nell’assassino della ex moglie, della figlia di otto anni, del cognato disabile e della suocera. Una carneficina maturata intorno alle tre del mattino quando l’uomo, Pietro Fiorentino, un disoccupato quarantenne, ha dato fuoco alla casa e si è lanciato dal balcone. L’allarme è scattato intorno alle tre di notte, quando squadre dei vigili del fuoco, polizia e carabinieri hanno cercato di domare le fiamme aiutando le altre famiglie ad evacuare il palazzo. Un centinaio di persone, una quantità di bambini, tutti in pigiama, gli occhi su quel cadavere che non faceva intuire l’entità della tragedia”. Ore 11, SkyTg24: “si è trattato del gesto di follia di un uomo di quarant’anni”.
Una tragedia familiare. Secondo la stessa logica, se un criminale irrompe in un supermercato e uccide il gestore per rubargli l’incasso, assistiamo a “una tragedia del commercio al dettaglio”? Tragedia familiare. Dramma della passione. Esplosione della gelosia. Passione finita male. Malamore. Amore malato. Gesto di follia. Bisogna stare molto attenti alle parole che vengono usate nei resoconti giornalistici perchè sono la spia dell’incoscienza: così finisce che ogni episodio fa storia a sé, invece di essere il tassello di un fenomeno sociale.
La verità è che le donne se ne vanno e certi uomini le ammazzano perchè non tollerano di essere lasciati. Non succede solo in Italia. In Spagna già nel 2004 Zapatero ci fece una legge (sulla “violenza di genere”). In Francia già negli anni Novanta il ministero degli Interni pubblicava statistiche. Da noi no. Siamo in ritardo: ma questo anno 2012 sta, mi pare, segnando una svolta, perchè se ne parla sempre di più e anche nelle redazioni italiane qualcosa cambia. A ritmi geologici.
Io sono caporedattore in una agenzia di stampa. In agenzia il titolo è tutto perché nelle redazioni scorrono sugli schermi solo i titoli dei lanci: hai 65 battute per invogliare chi ti riceve ad aprire la notizia. Si usano allora delle “chiavi” che servono a riassumere e anche a semplificare le ricerche: per esempio “Ilva/” o “Lavoro/” o “Incidenti stradali”, come in “Ilva/ Per Clini i dati sui tumori sono vecchi”.
Da due anni conduco nel mio piccolo una battaglia per far adottare una chiave che raccolga tutti i casi di donne uccise per violenza ‘di genere’; anche per consentire una ricerca ex post, impossibile se si segnala ogni caso come a se stante e con chiave geografica (“Taranto/”, “Trapani”). E’ una battaglia da cui esco amaramente sconfitta. Sarà che n0n sono stata capace o che i tempi non sono maturi ma ho incontrato musi lunghi, sguardi inebetiti e sospiri rattenuti.
Volevo una chiave come “femminicidio” o “violenza di genere” appunto, ma sono state bollate come “orrende, impubblicabili”. Ho ottenuto la chiave “violenza donne/”, a patto che andasse a coprire anche i casi di stupro. Peccato che passati i primi dieci giorni non l’abbia più usata nessuno.
Breve lista delle obiezioni all’uso:
“E’ troppo lunga”; “Non copriamo tutti i casi, quindi comunque i censimenti ex post non sarebbero esaustivi”. “All’inizio di un caso è difficile sapere di che tipo di omicidio si tratta” (vero: ma in genere dopo qualche ora la questione si chiarisce). “E se poi lui si ammazza, i morti sono due mica solo lei”. “E se lui ammazza anche qualcun altro, mica muore solo la donna, come lo catalogo?”. “Per me un morto è un morto, donna o uomo non capisco la differenza” (sì, me l’hanno detto). O più semplicemente “Oh scusa, me ne ero scordata”.
Ora, è evidente che se una chiave non viene usata è anche perchè non funziona e non solo perché c’è un complotto veteromaschilista che blocca le mie istanze di rivoluzione: la chiave non è adatta allo scopo, non semplifica il lavoro. E quindi non mi sono disperata per il mancato uso dell’orribile “Violenza donne/”. Ma il punto è che “femminicidi” sarebbe stata molto più appropriata. Adottarla però significava isolare come categoria il reato delle donne uccise per ‘gelosia’ e questo a quanto pare provoca un disagio culturale: di fatto la questione non è ritenuta sufficientemente rilevante.
Invece, anche nei titoli viene usata spesso, perchè comoda e riassuntiva, la formula “Omicidio-suicidio”. Sicchè un uomo che ammazza la ex moglie a Canicattì può diventare “Omicidio-suicidio a Canicattì”, anche se questo dissimula chi è stato ucciso e chi si è suicidato.
Nel caso di Trapani da cui sono partita, verso le 11 del 12 gennaio il Corriere.it aveva ormai la giusta connotazione della ‘tragedia familiare’: e parlava di “Epilogo di una storia di stalking adesso richiamata dai vicini che parlano di numerose liti della coppia, dell’appello della donna ai carabinieri per essere aiutata ad allontanare il marito, di denunce probabilmente sottovalutate. Si sarebbe così giunti nei mesi scorsi a una separazione sempre rifiutata da Fiorentino che a quanto pare continuava a presentarsi in casa. Come avrebbe fatto nella serata di mercoledì, a tarda ora, quando è cominciata una lite con voci, grida e lanci di oggetti. Una lite andata avanti, pare, per ore. Appunto, fino alle tre circa, quando è accaduto il peggio.”
Le cose cambieranno, ma con quanta lentezza. L’uso appropriato dei titoli è il grado zero: dopo bisognerebbe per esempio insegnare a scrivere dalla parte della donna (non ‘Tizio uccide la ex moglie” ma “Donna uccisa dall’ex marito”), perché anche la prospettiva è importante e quasi sempre nei resoconti sono gli assassini ad essere protagonisti. Bisognerebbe insegnare a usare un lessico appropriato agli eventi: il Corriere parla di “liti continue della coppia”, quando la coppia non c’era più e parlare di ‘liti’ fa intendere una corresponsabilità, mentre data la conclusione (“il peggio”), più che di “liti” si doveva parlare di “minacce”, magari “persecuzioni”.
Ma per ora mi contenterei che fosse routine in ogni redazione, riflesso condizionato, parlare dell’“ennesimo caso di femminicidio” invece che di “tragedia familiare”. Le statistiche, anche in Spagna, dimostrano che avere coscienza del fenomeno non serve almeno nell’immediato a schiarire le idee ai potenziali omicidi. Ma serve certamente ad aumentare il livello di allerta dei vicini, dei parenti, magari a mitigare il senso di vergogna della donna e a far aumentare le denunce. Tutto serve, e in questo giornalisti e testate hanno una lunghissima strada da fare.
Alessandra, i miei complimenti e i più sinceri auguri per la battaglia che porti avanti. Spingi forte l’accento sulle parole, sui termini da usare, e ti capisco anche se non sono una giornalista. Tra le righe di quello che scrivi scopro il timore che qualcuno, gli uomini, vogliano mimetizzare questi fatti sotto parole di violenza ordinaria. Questo ti dà fastidio, mi dà fastidio, titoli e prospettive, come dici tu, sono importanti. Dunque esiste un modo migliore per raccontare i fatti, spingiamo chi lo fa a farlo correttamente. Giusto. Così correggeremo la sensibilità rispetto a questa violenza di genere, ma … come fermarla, prima che diventi notizia? Qui io ho parlato di “repressione”, poi ho parlato di “amore” per rappresentare i due limiti di un ventaglio di atteggiamenti che noi donne potremmo assumere di fronte a questa situazione. E in entrambi i casi qualcuno ha avuto da ridire, ma non è quello il problema. Qual’è la via, secondo te, la posizione netta, forte comune, che le donne devono assumere insieme per contrastare efficacemente queste violenze? Io dico un’altra cosa un pò al limite, un pò provocatoria. Dobbiamo assumere una posizione qualunque tra la repressione e l’amore, dobbiamo discutere tra noi e deciderlo e poi è fondamentale parlare intonate nello stesso coro, perchè se continuiamo a dire ciascuna la nostra cosa buona e giusta, senza dare l’idea di essere tante e tutte parecchio incazzate, non cambierà niente.
Tutta la mia solidarietà e anche il mio incoraggiamento ad Alessandra. E grazie per averci fatto vedere come funziona una redazione dall’interno.
hai ragione Alessandra c’è una specie di tabù a parlare di femminicidio , da quando è stato eliminato il delitto d’onore che giustificava quasi tutto le morti di mogli x mano di mariti o ex mariti o fidanzati vengono catalogati in vari modi a seconda del momento ma la chiave ,come dici tu, è sempre la stessa ,l’incapacità del maschio di accettare che qualcuna non accetti le sue scelte o vedute che in pratica sono che le femmine sono loro proprietà esclusiva.
e come dice anche giorgia essere tutte “intonate” non cambierà di molto le cose e nonostante la parità acquisita dei sessi in vari campi i problemi cmq restano gli stessi.
Trovare un modo x farci ascoltare ,perchè a farci sentire siamo capaci ma poi ottenere risultati è un altra cosa e lo scopo a cui arrivare è pieno di ostacolo messi proprio da loro causa di tanti femminicidi.
usiamolo questo termine in modo che entri nel lessico di tutti anche con rammarico.
la strada è lunga, anche per le donne e fra le donne….l’altra sera ero appunto ad una riunione di donne del PD (del quale faccio parte, sono stata iscritta alla FGCi etc e ho fatto parte di gruppi femministi); una di queste, piùgiovane di me che ho 62 anni, ma verso i 60 sicuramente, ha detto che non riesce a capire la definizione “parità di genere”. Da notare che è una donna forse laureata, che legge, lavora con un bel ruolo in un’amministrazione pubblica etc…
speriamo che sia un caso isolato…
In bocca al lupo e tieni duro. Molte donne condividono la stessa tua battaglia e le stesse idee.
Doriana da Reggio Emilia
Alessandra, mi piace molto questo tuo intervento. Apprezzo soprattutto la tua nettezza, l’esigenza di chiamare le cose con il loro nome e di non nasconderle dietro cortine fumogene di parole e numeri. Le une e gli altri vanno usati con precisione e rispetto se si vuole dare alle cose la giusta dimensione e affrontare i problemi con consapevolezza. Non potrei essere più d’accordo, spero con tutto il cuore che ti riesca di fare breccia in questo muro di conformismo che è forse il nemico peggiore da combattere, nella nostra epoca.
Un post scriptum, spero definitivo, sui numeri:
http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2012/10/25/1noneaccettabile/
Loredana, forse non sono mai riuscito a farmi capire quando ho parlato di numeri. Il fatto è che io sono assolutamente e completamente d’accordo con quanto è scritto nel post che hai segnalato. Ciò che secondo me è sbagliato è corredare i discorsi sul femminicidio (ma non solo) di numeri spesso non verificabili e qualche volta sbagliati, come molte persone tendono a fare. Come se l’uso dei numeri fosse indispensabile per rafforzare un qualche concetto. Ma rafforzare cosa? Non ci basta più sapere che qualcuno ha perso la vita per sgomentarci? L’ho anche scritto, almeno un paio di volte, proprio sul tuo blog. Una Volta citando Vauro, che a proposito della presunta esiguità del numero delle vittime della prima guerra del Golfo sbottò “per me cinque morti sono tanti morti!”. E’ vero, la penso anch’io così. Non c’è bisogno di numeri di fronte alla morte. Se però si decide di usarli per dare la dimensione dei fatti, allora devono essere veri e verificabili. Se vogliamo – io lo voglio – che i femminicidi siano chiamati con il loro nome e non “tragedie familiari” o “esplosioni di follia” perché riteniamo che il linguaggio sia fondamentale per comprendere il fenomeno e combatterlo, allora dobbiamo anche volere che la dimensione della cosa sia rappresentata in modo altrettanto esatto. E’ la stessa, identica questione, quella del linguaggio e quella dei numeri, e non penso che sia giusto separarle.
http://blog.ilmanifesto.it/antiviolenza/2012/10/26/lonu-dice-che-il-femminicidio-esiste/
Articolo interessantissimo, battaglia che affonda i suoi piedi nelle sabbie mobili e che ha bisogno di aiuto.
Ora, perdonate, ma non ci si potrebbe focalizzare sulla patologia, nel formulare la denuncia mancante, come avviene in genere per le altre occasioni?
Che cosa sta succedendo a questi uomini d’un tratto feroci assassini, che cosa esplode in loro, cosa stavano accumulando e come mai non è stato possibile avere delle avvisaglie prima sulla loro sintomatologia?
Di certo psichiatri e psicologi sarebbero più adatti di me per dirlo, ma dirò comunque come la penso: a me verrebbe da chiamarla “maschiopatia”, come un eccesso patologico di virilità, di voglia di possesso, che divora il soggetto e prima ancora chi ha più provato ad amarlo. Sembra quasi che l’evoluzione faccia cilecca nell’affermazione di una virilità nuova, che sia capace di considerare il rispetto la prima e più importante delle sue forze.
Grazie
Grazie, molto interessante per chi come me non conosce il mondo dei giornali. Sarebbe bello trovare una chiave potente che si inchiavarda nell’immaginario un po’ come la parola Terremoti/.
Buon lavoro!
In realtà è raro che i femminicidi accadano all’improvviso. Di solito, almeno a quanto leggo nelle cronache, c’è un’escalation, che magari parte dalla violenza psicologica e dallo stalking, ma che viene spesso sottovalutata, per cui le sistematiche aggressioni verbali alla ex passano per “liti”.
Il femminicidio esiste, ed è un problema. Anche nella civilissima e paritaria Svezia.
http://www.aftonbladet.se/nyheter/dodadekvinnor/arkiv/article11801483.ab
La stima è di 15-20 all’anno. Considerando che la Svezia ha una popolazione che è un sesto di quella italiana la cifra equivale a fra le 90 e le 120 in Italia.
Stefano, non l’avrei mai pensato. Grazie della testimonianza. Anche se avrei preferito non dire questo grazie…
L’opposizione redazionale non viene affatto solo da uomini ma anche da donne; così come i pochi sostegni che ho avuto sono stati bisex. Lascio a ciascuno decidere se sia cosa positiva o negativa…
Sabato mattina ascoltavo Radiotre un po’ distrattamente, quando è stato trattato il tema del femminicidio e allora ho drizzato le antenne e francamente mi son pure cadute le braccia.
La trasmissione era Uomini e profeti: la conduttrice cercava di ricondurre il discorso alla specificità del femminicidio e uno degli interlocutori (credo fosse un sacerdote siciliano perché di Sicilia si parlava) continuava a dire che si tratta di “delitti passionali”. E la conduttrice: Ma come passionali? Cosa c’entra la passione?
“Beh ma sono cose della coppia, noi non possiamo saperlo, quel ragazzo doveva provare anche tanta passione”.
Ecco… si lavora tanto e poi con un’unica affermazione si torna indietro di secoli. Mancava poco che citava il diritto d’onore…
bel lapsus: ovviamente DELITTO d’onore, non diritto…
Sono pienamente consapevole di essere voce fuori dal coro. Puntare sull’aspetto patologico dell’assassino secondo me non è sbagliato. Preso atto dell’importanza del lavoro che viene fatto affinchè tutti prendano coscienza che un problema-femminicidio esiste, se lo sivuole risolvere bisogna focalizzarsi anche e soprattutto sul dove nasce il male, ovvero sull’assassino.
Un feroce omicidio compiuto perchè non si sa (più) accettare di essere lasciati, o non si sanno più gestire il dolore e la gelosia SONO gesti di follia e non capisco dove stà l’utilità di volerlo negare a tutti i costi. Piuttosto dopo bisogna stare attenti a non cadere in un giustificazionismo altrettanto pazzesco, e mettersi a ragionare e capire su quali siano le cause di questa immaturità psicologica diffusa che nei casi più gravi diventa femminicidio ma che si trascina dietro anche tutta una serie di situazioni di grave sofferenza (stalking etc).
Poi occorre annche dire che la figura del padre separato è a grave rischio psicologico come è fin banale capire. Ti ritrovi solo, nella miseria più nera, con l’impossibilità di vedere i tuoi figli e nessuno da incompare se non te stesso, e spesso anche a torto…non è una giustificazione sia ben chiaro, ma l’evidenziare un problema. Conosco una persona separata in quelle condizioni, davvero non capisco come faccia a non dare di mattto.
@Paolo E.
Dobbiamo ringraziare le due Loredane per le loro battaglie, sempre vissute contro il pensiero patriarcale dominante che ancora ci soffoca. Inaccettabile è spiegare il gesto del folle secondo modalità razionali altrimenti dove andrebbe a finire il nostro scopo, che è quello di far passare il termine “femminicidio” come pertinente all’odio di genere? La nostra bussola è il sistema patriarcale: è lui il responsabile della nostra condizione di vittima che non lavora quanto potrebbe, non guadagna quanto dovrebbe. Che si spacca in 4 in casa e in famiglia. Che nella Storia ha sempre subito un maschio prevaricatore chefondava il suo privilegio sul nostro schiavismo.
Non vorrai far notare a tutti che il fenomeno del femminicidio in Italia fa numeri inferiori addirittura alle persone che muiono sulle biciclette, mi auguro? Non vorrai per caso invitare le persone che leggono alla riflessione, oh! Potrebbero notare che le ragioni dietro l’omicidio di una donna sono complesse, riguardano motivazioni psichiatriche, economiche, senili, culturali, etc. Potrebbero rendersi conto che generalizzare un centinaio di morte in questa categoria è un filo arbitrario oltre che ideologico. Poi c’è un sacco di lettrici e lettori anche qua e forse qualcuna con un po’ di sensiblità e a forza di leggere si sarà resa conto che la passione umana si assomigia in tutte le epoche e il delitto passionale non è un alibi concesso al reo ma solo una spiegazione razionale dello stato emotivo di chi ne compia il gesto.
Paolo, io sono una femminista, non una stupida. Io non mi vergogno a dire che sono ideologizzata. La mia causa contro gli uomini deve passare anche da queste strumentalizzazioni. Altrimenti non ci notano e le nostre battaglie le facciamo solo tra noi. O non l’avevi capito? Ci avevi scambiato per delle ottuse che piangono sulle vittime che non hanno mai conosciuto? Sorelle, sì, ma soprattutto martiri per la nostra causa.
Ciao a tutte e a tutti
Cara Giulietta, piacere di conoscerti e qualche precisazione. Io non combatto contro il pensiero patriarcale: faccio quel che posso perchè donne e uomini possano vivere in condizioni di parità effettiva.
Mi perdonerai, ma non condivido l’affermazione, dunque, di una causa contro gli uomini. Non lo è. Ci sono molte persone che si dedicano con fervore a scrivere su tanti blog che le femministe sono questo, odiatrici di uomini. Alcune di queste infervorate sono donne, pensa. E pensa che trascorrono il proprio tempo, quasi tutto, a parlare di quanto sono invasate queste femministe, e di come le famiglie di queste femministe sono disastrate, e quando proprio hanno finito gli argomenti e non sanno più cosa inventarsi, aizzano gli altri affinchè le distruggano, queste femministe, giorno dopo giorno.So che ti stupirai, ma è così.
Anche io sono femminista. E non sono stupida. Cari saluti.
Per Giulietta S.:
le tue parole denotano un grande impegno, al quale porto un profondo rispetto, ma molte sono le cose da dire.
Lo scopo di un impegno forte sul femminicidio non può essere solo mostrare che è pertinente all’odio di genere, per due ragioni.
Innanzi tutto perchè non è detto che sia cosi, secondo me il femminicidio nasce non dall’odio di genere ma da una crisi della percezione di se come uomo che si è venuta formando nel passato: percezione che per esempio rende inconcepibile l’essere lasciati; inoltre perchè di fronte al reiterato manifestarsi di un certo tipo di fatto di sangue, l’obiettivo ultimo deve essere per tutti ridurlo il più possibile e non solo mostrarne l’aspetto che meglio si confa ad un obiettivo politico.
Uomini? Biciclette? Tanto varrebbe parlare delle vittime nei quartieri di Mogadiscio in Somalia. Nono a me piace stare sul pezzo. E quindi ti dico che si, bisogna razionalizzare. Anche correndo il rischio di forzare la realtà entro confini magari approssimativi (anche se ci sono elementi comuni, ogni omicidio è una storia a sè), occorre farsi un’idea ed elaborare una strategia, un impegno, un obiettivo secondario che ci porti comunque a migliorare la situazione ovvero a diminuire gli omicidi. La guerra al sistema patriarcale magari è anche una cosa giusta, ma ci ha poco a che vedere con questo, anzi forse proprio un forzato e non corretto superamento (per quanto dovuto) di quel sistema ha portato a questa situazione.
E forse un femminismo che si fa carico di questo compito, che si preoccupa di incalzare, di stimolare, di ricordare, può trovare un significato più attuale e condivisibile anche dagli uomini che siano davvero interessati a che questi eventi terribili diminuiscano sempre di più.
A me solo il termine “femminicidio” mi fa orrore.
Non esiste sul dizionario, così come non esiste “maschicidio”, o no?
Allora, riproviamo. Francesca, il termine può fare anche orrore, ma ha una sua storia e un suo significato. Cercalo tu stessa su Wikipedia, se vuoi, o sulle tante pagine e siti che ne ripercorrono la genesi e il motivo per cui è stato adottato da tanti paesi.
In questi giorni mi capita di leggere l’accanimento con cui una donna, in particolare, moltiplica la sua presenza su tutti i blog possibili e immaginabili per dire che le donne sono assassine quanto gli uomini (ti risparmio, naturalmente, quello che questa stessa donna scrive contro le donne che parlano di questo argomento, perché qui non interessa). Nessuno sta dicendo, nè ha mai detto, che le donne sono migliori degli uomini in quanto donne. Io non l’ho mai pensato, nè scritto. Tant’è vero che il caso della signora che ho citato poco fa riguarda un caso di crudeltà (o patologia) femminile. Dico, però, che esistono delitti dove le vittime sono, eccome, donne “in quanto tali”. In quanto ex compagne che abbandonano. In quanto persone che “appartengono” a un altro. Questa, semplicemente, è la differenza. Quanto al dizionario, in questo caso non è la filologia, credo, a dover essere presa in considerazione.
appartenere l’uno all’altra/o (finchè durerà, e si spera che duri) è una cosa, ma dire “meglio morta che non più con me o con un altro” è una cosa molto diversa
…meglio non incazzarsi col marito…meglio non lasciarlo…in fondo se sei una ex rischi di essere uccisa–e se questo fosse il messaggio che culturalmente si invia alle donne? . Attira curiosità e immaginazione morbosa e ignorante. L’occhio nella serratura delle case …..il brivido/monito. Scrivere dalla parte della donna, questa la parola d’ordine .