INCROCI

Interventi e riflessioni che si incrociano e si incastrano, spesso senza che i rispettivi autori lo sappiano.
Per esempio: l’analisi di Girolamo De Michele su Carmilla a proposito di neorealismo ed epica.

Per esempio: il saggio di Angelo Scotto su New Italian Epic, goth e fandom.  
Ma anche: l’intervista della vostra eccetera a Carlo Lucarelli, sul quotidiano di oggi, in occasione dell’uscita in edicola de L’isola dell’Angelo caduto, e dove si finisce per parlare di molte cose. Eccola.

Circa dieci anni fa, Carlo Lucarelli compie  uno scarto ulteriore rispetto al romanzo Guernica e, soprattutto, rispetto alla sua già molto amata produzione: racconta, sì, l’indagine su un crimine, ma la ambienta nel 1925, in un’isola dove ha sede una Colonia penale. Capo d’Angelo. Dal nome è venuto via via mancando l’aggettivo “caduto”, perché leggenda vuole che proprio in quel luogo fosse precipitato dal cielo uno degli angeli ribelli. La morte del miliziano fascista da cui il romanzo prende le mosse ricorda, almeno in apparenza, quel tragico volo: di un uomo, e non di un angelo, che scivola su una roccia, cade, muore sul colpo. Naturalmente, nulla è come appare.

   Ma l’importanza de L’isola dell’Angelo caduto non sta soltanto nel periodo storico in cui l’azione si svolge. “è un libro diverso – racconta Carlo Lucarelli- dove ho cominciato a fare esperimenti per quello che riguarda la struttura e lo stile. E’ un romanzo onirico e surreale, dove il linguaggio si fa più descrittivo. Dove ho cominciato a cercare l’evocazione di  più immagini nel corso della narrazione”.

E dove comincia anche a farsi più evidente la ricerca sui suoni che trova il suo culmine oggi, ne L’ottava vibrazione?

Ho sempre riflettuto sul modo di  restituire i suoni, su  come riportare sulla carta la molteplicità delle sfumature, degli odori, dei sensi che le parole evocano. Ne L’isola de l’Angelo caduto questa è ancora una notazione. Ne L’ottava vibrazione ho ritrovato quella stessa necessità quando ho cominciato a pensare  allo scenario della storia. A fine Ottocento, i soldati che venivano dalle varie regioni italiane parlavano in modo diverso: come in  una sinfonia. Ma come restituire quella musica? Certo, puoi farne a meno e limitarti a  riprodurla, senza descriverla, inserendola direttamente nei dialoghi: ma ho preferito non privarmi dell’energia dei suoni, utilizzandoli come contrappunti, come un richiamo all’attenzione del lettore verso quella particolare melodia.

Calarsi in una precisa epoca della nostra storia: questa necessità diviene sempre più diffusa fra scrittori italiani di provenienze e stili diversissimi. Già dieci anni fa, dunque, questa urgenza cominciava a manifestarsi?

E’ accaduto istintivamente. A me capita di sentire un’attrazione improvvisa verso un determinato periodo storico perché vorrei che in quel momento si svolgesse una storia di un certo tipo. E’ lo stesso impulso che mi fa desiderare di vedere un western, o di leggere un romanzo ambientato nel Rinascimento.  Quel richiamo, infine mi porta a scrivere, scegliendo un’ambientazione piuttosto che un’altra perché vi ritrovo legami forti con il presente. Ho datato questa vicenda al 1925 perché quello mi sembrava un momento di svolta della nostra storia, in cui gli italiani erano stati posti davanti ad una scelta. O chiudere gli occhi davanti al crimine,  in cambio di una presunta sicurezza sociale, o rimanere fedeli ai propri principi. Quando ho scritto L’isola dell’Angelo caduto sentivo che eravamo di fronte ad un bivio molto simile: o i valori della legalità oppure il compromesso in nome di un paese che “deve ripartire”. Ma questa prospettiva è anche nell’Ottava vibrazione. Mentre mi accingevo a scrivere dell’avventura coloniale italiana di fine Ottocento, mi rendevo conto che quell’incredibile Far West era la chiave per comprendere il nostro presente: andiamo in Eritrea (oggi, in Iraq) e salviamo la civiltà (oggi, la democrazia) o facciamo gli interessi economici degli inglesi (oggi, dei petrolieri)?.

Quindi raccontare la storia è un’esigenza degli scrittori italiani per capire quel che accade oggi?

Certo. Perché nulla è ancora passato, perché la storia non è mai stata davvero raccontata ma sempre rimossa, come la polvere che spingi sotto il tappeto. Abbiamo sempre dimenticato tutto. Qualunque cosa accada ora, abbiamo bisogno di andare a recuperarne le radici nel passato. Perché non esiste memoria condivisa. E arrivi ad un certo punto in cui ti rendi conto che non puoi andare avanti nella comprensione di un presente assurdo e insopportabile. Non abbiamo gli strumenti per farlo. Le storie del passato affrontate dai narratori che agiscono nella galassia definita New Italian Epic servono a mettere in scena i meccanismi della nostra contemporaneità, e a svelarli. Servono a farti dire: ho capito.  Avviene anche al cinema con film come Gomorra o Il Divo. Fra duecento anni si potrà dimenticare chi era Andreotti, così come non è necessario sapere chi era e cosa faceva esattamente Riccardo III: ma il meccanismo del potere verrà compreso perfettamente”.

Ma forse è sbagliato utilizzare per questi romanzi l’etichetta del realismo. E’ azzardato sostenere che esiste quasi sempre uno squarcio verso un sopramondo, o un mondo altro, nelle tue storie?

Esiste. Perché mi sembra affascinante inoltrarmi nella metà oscura: nell’Isola dell’Angelo caduto il diavolo c’è. E si manifesta almeno  a tre livelli: come personificazione del male nella sua identificazione con il fascismo, come entità pagana e forza della natura, come comportamento, infine, di determinati personaggi.

E questo porterebbe all’annosa discussione sulla definizione che riguarda anche altri tuoi libri, inclusa L’ottava vibrazione: sono da considerarsi gialli?

Mentre scrivevo L’isola dell’Angelo caduto mi sono ritrovato con un dubbio: cosa sto facendo? Sono o no uno scrittore noir? E questo libro è un giallo? Un romanzo storico? Come posso definirlo? Andando avanti, mi rendevo conto sempre di più che le tecniche, la grammatica del giallo classico avrebbero richiesto un altro passo narrativo. Se avessi scelto di aderire alla definizione avrei dovuto scartare idee e immagini che mi piacevano molto. Mi sono detto: anche se rompo con la tradizione, il romanzo regge lo stesso. Perché la responsabilità dello scrittore è solo nei confronti della sua  storia, non del genere. E questo dimostra che quello sul giallo è un falso dibattito: io scrivo in un certo modo perché sono un giallista, e non viceversa. Per questo non ha senso parlare di gabbie ben definite. Se mentre vado avanti con la storia mi accorgo che l’omicidio, da centrale che era, diventa un pretesto e inizio invece a parlarti del diavolo, cambia qualcosa?  L’isola  del romanzo deve avere una connotazione realistica, deve somigliare a Ponza o a Ventotene, deve essere vera come la Parigi di Maigret? E se invece ho voglia di inventarla, cambia qualcosa? E, soprattutto, a chi scrive e a chi legge interessa veramente la mia adesione ad un modello, o interessa la mia storia?

 

24 pensieri su “INCROCI

  1. Veramente nel post non si parla tanto di gialli e noir, quanto del superamento di certi steccati che l’adesione agli stilemi dei generi impone. Lucarelli parla di esondazione dai margini. Situazione entro cui collocare il suo ultimo romanzo:
    “Andando avanti, mi rendevo conto sempre di più che le tecniche, la grammatica del giallo classico avrebbero richiesto un altro passo narrativo. Se avessi scelto di aderire alla definizione avrei dovuto scartare idee e immagini che mi piacevano molto. Mi sono detto: anche se rompo con la tradizione, il romanzo regge lo stesso. Perché la responsabilità dello scrittore è solo nei confronti della sua storia, non del genere.”
    Magari se prima di commentare il post lo si leggesse con attenzione…

  2. Concordo con Gianni: un pezzo davvero strepitoso quello di De Michele, una bella replica all’accademia immobile di certa critica italiana.
    @ Gianni, scusandomi per l’off topic: è stato doloroso (doloroso perché vero, naturalmente) leggere le pagine su Bologna di Metropoli per principianti. A parte Zacchiroli (che ha fatto anche qualche schifezzella), la mancanza di una “scuola” pesa, eccome se pesa.

  3. Il pezzo di Girolamo è bellissimo. La bellezza del mettere i puntini sulle i senza fare sconti a nessuno. Essere crudeli con gli sciatti, e mai sciatti con i crudeli.
    Io ringrazio di cuore i vari Cortellessa, Luperini, La Porta, Cordelli, Di Stefano e tutti gli altri terzini in affanno (attempati e attempantisi), perché coi loro schemini sclerotizzati e la loro pochezza in difesa creano magnifiche occasioni da gol. E non possono nemmeno dare la colpa al CT, che è morto da tempo e putrefatto in panchina.
    Il ruolo di certa critica, oggi, è quello dell’esempio negativo. La lezione più importante da trarre è: non fare mai come loro, non scrivere mai come loro, non ridursi mai come loro.
    Più la casta dei mediatori si dimostra cieca e avvolta nel grigio, più ci fa venir voglia di guardare il blu cobalto del cielo, il verde acido dell’erba, l’inarcarsi dell’arcobaleno sui nostri nasi puntati all’insù.
    Quando si riabbassa lo sguardo, si è di nuovo pieni di vita e ossigeno, pronti al lavoro che ci attende tutti. Certe esalazioni da pagina culturale non ci raggiungono più.

  4. c’è da chiedersi se nell’atto vergine della narrazione o qualsivoglia piglio verbocartaceo siano utili e dilettevoli tutti questi schemetti direzionali o se non costituiscano posti di blocco al flusso artistico.
    scrivere più libri e meno critiche/altro

  5. Più che posti di blocco, io li vedo come segnali stradali. Non creano le strade, però aiutano ad orientarsi.
    Poi mi piace molto “più libri e meno critiche”. Non fosse altro perché parliamo queste “critiche” sono scritte da autori come Wu Ming, Evangelisti, De Michele, Lucarelli, scrittori che certo non hanno scritto una quantità non piccola di romanzi…

  6. Il primo inghippo sta nella prima frase: “l’atto vergine della narrazione”.
    La narrazione non ha proprio niente di vergine, è anzi una continua copula con il mondo, una copula sporca di umori e secrezioni, di sborra, di puzze, di uste — le storie sono corpi che si muovono continuamente, entrano l’una nell’altra, *chiavano*, e da questo chiavare e avvinghiarsi e sporcarsi si genera altro mondo da narrare, e non è un atto (una narrazione = un atto), ma un flusso, un processo continuo, privo di inizio e di fine.
    Il secondo inghippo sta poco più in là: “schemetti direzionali”. Se ti riferisci a Deleuze sul neorealismo, iddio ti perdoni, perché Deleuze è quanto di più lontano da qualsivoglia proposta di “schemi” e “schemetti”. Deleuze *devasta* gli schemi. Guarda il neorealismo in profondità, e ci trova all’opera forze, energie, cicloni e anticicloni che nulla hanno a che fare con la vulgata, lo stereotipo, l’idea corrente di cosa sia il neorealismo. A quel punto si lancia di corsa nel monsone, si lascia bagnare, ne esce fradicio e scrive, ci racconta che il vento sposta le nuvole, che il profilo che assumeranno le nuvole non è prevedibile, che il momento in cui le nuvole si scontreranno tra loro verrà vissuto da ciascuno di noi in modo diverso, che tutto si muove in modo non lineare ma inatteso e sorprendente. Questo approccio, lungi dal chiudere o costringere un’opera dentro definizioni, la apre, la *spalanca*, ne rivela potenzialità che gli approcci più conservatori non avevano notato. Succede la stessa cosa quando Benjamin comincia a interrogarsi su come funziona l’allegoria: tutti gli schemi saltano in aria, l’elemento “altro” (allos) dell’allegoria si rivela in tutta la sua perturbante apertura all’incertezza. Ciapa su e porta a cà! [mettere faccina a piacere]

  7. orientarsi? e perchè servirebbe orientarsi?
    sarebbe bello talvolta abbandonare le strade e cimentarsi in “un’attraversacampo”
    me lo chiedevo eh, non era necessariamente una “critica”.
    ovvio più libri non era indirizzato verso chi ne scrive già un numero considerevole, anche il “numero” di libri è relativamente relativo, non so nemmeno verso chi era, verso nessuno, forse un diktat en passant

  8. E’ sbagliato vedere un’interruzione di percorso tra “opere” e “critica”, tra narrativa e saggio, tra prosa e poesia. Per me il saggio “Come far versi?” di Majakovskij (1926, a mio parere uno dei testi di teoria letteraria più belli e importanti mai scritti) è a sua volta una poesia, che io pongo allo stesso livello di altri suoi poemi come “La nuvola in calzoni” o “Bene!”. E in quel testo Majakovskij spiega, elenca, suggerisce, procede per elenchi numerati di requisiti e caratteristiche, eppure non si ha mai l’idea che voglia “chiudere”, recintare. Anzi, le condizioni indispensabili al lavoro poetico sono tutte *aperture*, ad esempio:

    “Terzo. Il materiale. Le parole. L’ininterrotto arricchimento dei depositi, dei magazzini del proprio cranio con parole necessarie, espressive, rare, inventate, rinnovate, derivate, e d’ogni altro genere.”

    Più avanti esorta a comprarsi “un ombrello per scrivere sotto la pioggia”.

    E “un buon taccuino d’appunti e la capacità di servirsene sono più importanti del saper scrivere senza errori secondo metri ormai decrepiti.”

    Quindi la riflessione sulle tecniche e le poetiche nasce da una prassi e punta a tornare prassi: serve ad attrezzarsi per l’attraversacampo.

  9. Eh Ma Wu Ming com’è eccessivo verso la vecchia scuola critica. Understatement ce vole! Un po’ perchè cita nomi di chi ha avuto una funzione storica, un po’ perchè niente fa gongolare più i padri dei figli incazzati.
    Poi non so, ci sono molte cose stimolanti qui, ma scappo –
    giusto un abbaio di saluto
    Bau!
    🙂

  10. Non hai da preoccuparti: sono figlio di un metalmeccanico e di una bracciante, freddo come un ghiacciolo e testimone (come tutti) di prese di posizione molto affannose e poco somiglianti a “gongolii”. L’understatement, eh, purtroppo in Italia non lo si conosce. Spesso si scambiano o spacciano per “understatement” l’ipocrisia, le frecciatine, la mano che si nasconde dopo il lancio del sasso, le critiche sussiegose senza mai nominare il criticato… Meglio lo statement, allora.

  11. Wu Ming, (forse mi sono spiegato male), qui sono d’accordo:
    “La narrazione non ha proprio niente di vergine, è anzi una continua copula con il mondo, una copula sporca di umori e secrezioni, di sborra, di puzze, di uste — le storie sono corpi che si muovono continuamente, entrano l’una nell’altra, *chiavano*, e da questo chiavare e avvinghiarsi e sporcarsi si genera altro mondo da narrare, e non è un atto (una narrazione = un atto), ma un flusso, un processo continuo, privo di inizio e di fine.”
    Aggiungo, la narrazione non si mette 4 preservativi prima di penetrare, e nemmeno si guarda allo specchio mentre va su e giù, infilza, suda e basta, questo intendevo.
    Su schemetti intendevo ancora come sopra (ovvero non recitare un copione nella narrazione, nostro o altrui ma URLARE)- Iddio mi perdonerà comunque (forse) ma non riferivo a Deleuze. Comunque se ti aggrada di più prendo su e porto a cà lo stesso volentieri, Ghè mancarès.

  12. “Ciapa su e porta a cà” l’ho fatto dire a Benjamin soddisfatto del proprio lavoro sull’allegoria. In tedesco come si dirà? “Nehmen Sie es und holen Sie es zu Ihrem Haus”?

  13. @wm1:No, Bejamin diceva proprio:“Ciapa su e porta a cà” !Ne sono convinta.
    Ma come sei frizzantino ed esuberante oggi, nonostante la calura. Sarà il qigong?

  14. @ william
    abbi pazienza, ho appena pubblicato un libro, ne sto scrivendo un altro: in che senso “scrivere più libri e meno critiche/altro”? E poi: credi di riconoscere schemetti direzionali laddove ho sempre parlato (vedi “Afferrare Proteo”, sempre su carmilla), di ricostruzioni a posteriori, e poi ti metti tu a dire cosa dovrei (dovremmo? dovrebbero?) fare?
    Come direbbe Benjamin: … ……
    (certe volte anche Benjamin restava basito)
    @ i lettori del mio scritto sul neorealismo
    ne approfitto per spiegare che il testo è stato ultimato una settimana prima della morte di Rigoni Stern (e infatti lo definisco ancora “vivente”), senza volerlo s’è trasformato in un cocodrillo: ma almeno certa pseudocritica la smetterà di dire che noi narratori NIE leggiamo solo gli americani

  15. Giro, quando è morto Rigoni Stern sono entrato nella bozza del tuo pezzo “parcheggiata” su carmilla, e ho aggiunto un “fino a pochi giorni fa” prima della tua definizione di R.S. come “più grande scrittore italiano vivente”. Salvataggio in extremis 🙂
    E precisazione, da puntiglioso quale sono: non esistono “narratori NIE”, esistono solo narrazioni NIE.

  16. @Signor Girolamo. Tu abbi pazienza, io non ho letto il tuo articolo ancora e nemmeno l’altro, ho letto per ora l’intervista a Lucarelli (prolifico scrittore e comunque scrittore) era un commento che riguardava un pò tutto il mondo della critica e della verbodiffusione e soprattutto della blogdiffusione, era quasi anche un’autocritica verso chi, come me, si preoccupa troppo di descrivere, agguantare e incanalare e di poco o niente produrre. Non riguarda gli scrittori e nè la Lipperini. Credi che un non-scrittore se metta a dire a scrittori di scrivere di più? Il problema è che io mi chiedo se semplicemente i filoni letterari e annessi e connessi (anche a posteriori) possano “poi” inconsciamente influire sull’atto della narrazione. Comunque era meglio non commentare, sai, sono parecchio sciatto. Saluti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto