Sì, lunedì è il 25 novembre. Non c’è luogo, fisico, cartaceo o virtuale, dove non si parli di violenza contro le donne. E questo è bene, purché se ne continui a parlare anche a rito celebrato. Le declinazioni saranno infinite, e anche il solo riportarle occuperebbe ben più di un post. Provo dunque a segnalarvi alcune cose, apparentemente non legate al tema.
Ieri una giornalista e scrittrice, Marina Morpurgo, è stata querelata per aver criticato un manifesto di una scuola professionale di Foggia, la Siri. Lo stesso manifesto di cui si parlava in questo post, con una bambina che si passa il rossetto sulle labbra ammiccando all’obiettivo.
Ieri, ancora, alcune giovani lettrici hanno protestato per il venturo nuovo titolo Newton Compton, Confessioni di una baby prostituta, annunciato per il 5 dicembre con lo strillo “Il diario inquietante e distaccato di una quattordicenne e delle sue esperienze estreme. Non per denaro ma per noia: la sconcertante autobiografia di una quattordicenne”. Lo ha scritto Veronica Q, già autrice di Vietato ai minori, nel 2010. La casa editrice ha smentito che possa trattarsi di una riedizione con titolo cambiato in omaggio alle cronache, e dice che il volume era previsto da sei mesi. Solo chi leggerà i due libri potrà giudicare. Di fatto, il tempismo dà i brividi, comunque stiano le cose.
C’è un nesso? Certo che c’è un nesso. Perché nessuna sollevazione popolare, nessuna legge, nessuna dichiarazione d’intenti per il 25 novembre potranno fermare la violenza contro le donne, e cambiare i fragilissimi rapporti fra i sessi, se non cambiano parole, immagini, pensieri. Si ha quasi la nausea a ripeterlo, ma è così.
Poi ci sono le buone notizie, i tentativi anche imperfetti, come quello del giocattolo per bambine ingegnere di cui parla Softrevolutionmagazine.
Poi c’è la questione maschile, di cui si comincia fortunatamente a discutere sempre più spesso. Nello speciale di Repubblica, oggi, intervengono in molti. Vi riporto due interventi, quello di Adriano Sofri e quello di Massimo Recalcati, qui sotto.
Queste sono le cose che andrò a dire a Bari, domani pomeriggio, alla libreria Laterza, e che ripeterò nei prossimi giorni. Questa, a mio parere, è la direzione, per scomodissima che sia.
Adriano Sofri
Pressocché ciascuno, se guarda abbastanza in profondità dentro se stesso (non troppo in profondità: si annega), se è capace di ricordare la propria formazione di maschio, paura e spavalderia, ignoranza e presunzione, riconosce con raccapriccio il capo di un filo che porta dei suoi simili, ammesso che non abbia portato lui stesso, a molestare, violentare o uccidere una donna. Ho appena incontrato Mary Pereira Mendes, signora indiana che lavora per l’Unicef in Kurdistan e fra i profughi siriani, e guida un programma contro le mutilazioni genitali femminili. Mary spiega la difficoltà incontrata nelle donne, levatrici e madri, attaccate all’orrenda tradizione, attente tutt’al più a una modalità d’intervento più “pulito”, e disposte a barattare l’infelicità sessuale con la gratificazione domestica. La tradizione è patriarcale, dice, ma sono le donne a trasmetterla, e non di rado gli uomini la ignorano. Penso che proprio questo riveli l’ottusità della sessualità maschile: se gli uomini non si accorgono e comunque non danno peso alla negazione del piacere sessuale delle “proprie” donne, è perché il loro stesso piacere sessuale è mutilato. Il maschilismo immagina che scopare sia un bisogno naturale — uno sfogo necessario — dell’uomo, che al bisogno le donne vadano, con le buone o le cattive, adibite, e che l’eventualità che partecipino del piacere sessuale ne sveli la depravazione, magari nello stupro: “Gode, la troia”. Rispetto allo schema miserabile, le cose vanno più o meno avanti, e a volte tornano indietro, come quando si dà la caccia a un evaso. Evadono le donne, e uomini danno loro la caccia per riportarle dentro, o farle fuori. Da noi la caccia è vietata: a chi non ce la fa proprio, non resiste all’eventualità che la “sua” donna diventi di un altro, o anche soltanto decida di non essere più “sua”, resta il bracconaggio. Botte, minacce, coltellate di frodo. Una questione
maschile.
Massimo Recalcati
La violenza dei maschi non è solo la manifestazione scabrosa del potere tramandato da una cultura che discrimina le donne. Come l’esperienza clinica ci mostra essa è soprattutto l’espressione di una angoscia profonda di molti uomini di fronte all’alfabeto dell’amore. La donna è infatti per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento. La violenza sul corpo e sulla mente delle donne è un modo per aggirare lo spigolo duro di questo alfabeto. L’incontro con una donna implica sempre, per
ogni uomo, una quota di angoscia anche se essa può venire spavaldamente (ecco a cosa serve il gruppo con il quale si può barbaramente condividere la violenza) misconosciuta.
La lingua straniera del femminile, l’eteros radicale che essa incarna, non può però essere mai assimilata e estirpata del tutto. Per questo la violenza maschile può assumere le forme più odiose ed efferate e concludersi con la morte della vittima. Un suo paradigma agghiacciante si può trovare nel personaggio psicotico protagonista di Figlio di Dio di Cormac Mc Carthy, il quale uccide le donne come unica condizione per poter avere rapporti, non solo sessuali, con loro. Solo il corpo ridotto a cadavere dovrebbe sancire la neutralizzazione definitiva dell’angoscia. In realtà le vittime si devono drammaticamente moltiplicare perché nessuna violenza potrà mai fare tacere la lingua straniera della donna.
Ho imparato molto dai libri di Recalcati, e gli sono molto grata per il suo lavoro, ma mi piacerebbe chiedergli se questo considerare la donna come una “lingua straniera” non sia una parte del problema.
Conosco e frequento donne “maschili”, uomini “femminili”, lesbiche, gay…
Immagino la sessualità come un buffet in cui ciascuno si serve di ciò che più gli aggrada, con l’unica avvertenza di comportarsi con ragionevole buona educazione. Io mi sento una donna, non un eteros, sono un essere umano, forse potrei essere considerata uno fra milioni di dialetti, ma… una ben codificata e solenne “lingua straniera”? Sono davvero perplessa…
Ripubblico qui la lettera che Marina Morpurgo ha inviato ad Alessando Gilioli e che appare in Piovono rane (la vicenda della scuola Siri di Foggia è gravissima, per me):
Caro Alessandro,
ti espongo i fatti che mi sono successi, non perché siano gravi per me – conto di non finire i miei giorni in galera – ma perché costituiscono un pessimo precedente.
L’altro ieri mi sono vista notificare («il presente atto vale quale informazione di garanzia…») un avviso della Procura della Repubblica di Foggia. Sono indagata – le indagini sono terminate, e io attendo di conoscere il mio destino – per aver usato, su Facebook, «espressioni denigranti»riferite al manifesto utilizzato, nel 2012, da una scuola professionale di Foggia (foto sopra).
Uscendo dal comando dei vigili ho avuto un sobbalzo, anche perché nella mia carriera di giornalista non mi era mai successo, pur essendomi occupata per anni di argomenti bollenti per antonomasia, come la nera e la giudiziaria.
Ora mi ritrovo a dover ricorrere a un avvocato e scrivere memorie difensive (però se voglio posso anche andare a Foggia di persona: è appena dietro l’angolo, in effetti, visto che abito a Milano) per aver espresso una critica a un manifesto che raffigurava una bimbetta truccatissima che si passava il rossetto sulle labbrucce protese.
Quel manifesto mi appariva offensivo e bruttissimo sotto vari punti di vista. La signora che ha sporto denuncia si ritiene denigrata perché ho scritto (lo leggo nella notifica) sulla pagina Facebook mia e loro: “I vostri manifesti e i vostri banner sono semplicemente raggelanti… Complimenti per la rappresentazione della donna che offrite… Negli anni Cinquanta vi hanno ibernato e poi svegliati?”.
Mi viene contestato anche l’aver scritto (sulla mia bacheca), citando l’indimenticabile zio Paperone e parafrasando il loro manifesto, l’espressione: “Anche io ho sempre avuto le idee chiare, chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato e impiumato”.
Qualcuno dice: in certi casi basta chiedere scusa. Mi scuserei se avessi calunniato o diffamato, se avessi dato del corrotto, del ladro o del truffatore a qualcuno che non lo è. Ma la bruttezza e anche l’ambiguità di quel manifesto le confermerei anche mille volte, il fatterello di per sé è insignificante, ma per me rappresenta una questione di principio – la libertà di critica e di opinione – e i principi si difendono, anche a costo di seccature.
Sono una giornalista disoccupata senza sussidi da tempo, e ogni spesa mi preoccupa un po’. Anche le perdite di tempo, visto che ormai campo di lavori editoriali in autonomia.
Però trovo inaccettabile che si venga perseguiti non per aver detto il falso o infangato gratuitamente enti o persone, ma per aver espresso su un social network un’opinione che può piacere o non piacere, ma considero più che legittima e manifestata nei modi consoni all’ambiente, con una battuta.
Zittire la gente è una gran brutta cosa, e mi dispiace vedere profuse energie giudiziarie in fatti del genere, come se le procure non avessero del lavoro serio da svolgere.
Cara Loredana,
non so abbastanza della costruzione del 25 novembre per poter esprimere un giudizio negativo senza appello. Ma come sempre a me pare che si mettano tante energie su “grandi eventi”. A me ha colpito il manifesto che hanno fatto i sindacati per la loro iniziativa a Napoli. Come tanti, tantissimi, direi quasi tutti, la rappresentazione è quella di una donna vittima, che ha bisogno di essere salvata pic.twitter.com/IqZTeKRoKR
Forse queste rappresentazioni fanno male alla costruzione dell’immaginario tanto, se non più, quanto quelle delle bambine ammiccanti che mettono il rossetto. E forse sarebbe utile che queste persone,prima di profondersi in organizzazione di grandi eventi, lavorino sul loro stesso immaginario circa l’immagine della donna. Io sono stanca e stufa di vederci rappresentate accasciate e bisognose di protezione! Che si tratti di un manifesto dei sindacati o di una pubblicità di Coconuda poco mi importa.
I driver del mainstream si divertono a traghettarci da coccology a questa merda passando per moltro altro schifo(e intanto mary per sempre ce lo siamo dimenticati)
Grazie, dell’elenco di punti e, finalmente, dell’attenzione su “la questione maschile”: le donne hanno già pensato, stiamo aspettando che lo facciano anche gli uomini.
Il comportamento degli uomini rimasti per così dire indietro può (forse) cambiare se interverrano innovazioni culturali, pedagogiche… I respinti violenti debbono superare il timore dell’abbandono nell’esperienza primaria o qualcosa del genere. Ma intanto, cavolo, non sarebbe il caso di prendere qualche iniziativa più cogente?
Frequento un corso di formazione al volontariato di Telefono rosa. Al termine potrò, nel mio piccolo, rendermi utile in un centro di accoglienza. Apprendo con meraviglia che non c’è nessun obbligo, per chi ha mandato in ospedale la partner (e magari è stato pure condannato) di intraprendere un percorso “rieducativo”. Così, se lei torna (accade spesso, pare), saranno al punto di prima.
A proposito del giocattolo per bambine ingegnere, in me prevale la perplessità o meglio la negatività. Molti giocattoli tecnici sono presentati e pubblicizzati come rivolti preferibilmente o esclusivamente ai maschi: se l’intenzione è invogliare le bambine a usare un giocattolo tecnico, bastarebbe presentare il giocattolo includendo anche loro nelle pubblicità, nelle immagini sulle confezioni, dando cioè l’idea che la tecnologia, la scienza, la matematica, l’ingegneria, le leggi fisiche, sono ugualmente divertenti stimolanti ecc. per maschi e femmine. Così invece (gioco tecnico progettato apposta per femmine, e con nastri rosa) sembra che si dica che c’è una tecnologia normale per maschi, mentre le femmine hanno bisgono della versione ingentilita apposta per loro. Per me è un modo di cavalcare la re-gendrization e non di combatterla.
Concordo con francesca violi, basterebbe uscire dalla cd. “gendrigetion”. Del resto, chi di noi è abbastanza antica può ricordare che, se mezzo secolo fa esistevano giocattoli “per bambine” (bambole, carrozzine cucinine) e giocattoli “per bambini” (soldatini, armi giocattolo, etc.), esisteva pure un buon numero di giocattoli “indifferenziati”, che non comportavano, cioè, l’identificazione del genere destinatario, ovvero del bambino o della bambina destinatari-o/-a. La secchiata di vernice rosa e la segregazione per genere dei giocattoli, tutti, è piuttosto recente. Come d’altronde sa la titolare di questo blog, essendo autrice di un libro che ricostruisce il fenomeno.
■ L’incertezza sulla propria identità sessuale è un’altra conseguenza dell’abuso. Alcuni ragazzini sedotti dal padre o da un altro adulto significativo, hanno provato del piacere fisico nell’esperienza. E per tale motivo hanno finito per credersi omosessuali. Esiste però un’altra forma d’omosessualità che riguarda l’avversione per le persone dello stesso sesso dell’individuo che ha commesso l’abuso. Per esempio, la ragazza abusata dal padre, può sviluppare una profonda sfiducia negli uomini, e per tale motivo, preferire le donne (cfr. dr. Anna Zanon e dr. Francesca Mancadori).