JONATHAN COE

Sull’ultimo numero del Venerdì c’era un colonnino della sottoscritta su Circolo chiuso di Jonathan Coe.

“Lockerbie. L’11 settembre. Bali. Le ho guardate tutte, queste tragedie.Non riesco a farne a meno, ed è terribile, sai. E la cosa peggiore è che non smette mai. Non smette mai, e diventa sempre peggio”.  E’ vero,  non bisognerebbe parlare di un libro cominciando dall’ultima pagina: ma nel caso di Circolo chiuso (traduzione, ottima, di Delfina Vezzoli) serve ad illuminare tutto il percorso precedente di Jonathan Coe. Percorso lungo, e iniziato con il romanzo che di questo è il dichiarato antecedente, La banda dei brocchi, dove gli stessi personaggi iniziavano appena a mettere a punto le proprie vite in un’Inghilterra degli anni Settanta ancora non toccata da Mrs Thatcher. Qui siamo nell’era di Blair e delle disillusioni pubbliche e private: romanzieri diventati commercialisti, dodicenni destrorsi trasformati in ambiziosi parlamentari laburisti a simboleggiare una inquietante continuità fra le due epoche.  La feroce amarezza di Coe non abbraccia soltanto il prevedibile flirt con il potere degli ex rivoluzionari: ma anche tutti i sogni infranti di ex mogli, madri titubanti o mancate, amanti impossibili, inseguitori di utopie sommersi dai sensi di colpa che cercano di spiegarsi i caffè Starbucks, il neoliberismo e le consulenze mediatiche.

16 pensieri su “JONATHAN COE

  1. Ah, ho capito. Ieri, primo maggio, non hai fatto i compiti e oggi ti presenti sul blog con un pezzo riciclato:-/
    P.S. E per giunta privo di positività.

  2. Io insisto: gli idioti manifestano una dedizione totale alla loro missione. Peccato che siano idioti, altrimenti sarebbero perfetti.
    Fake, positività non significa molto, se non specifichi una misura per la negatività (ma ho il sospetto che tu sia un fanatico di Ouspensky)
    Ciao, e che “il pensiero” ti accompagni

  3. Per Roquentin:
    1) Piccolino, smetti di essere autobiografico.
    2) Positività è in riferimento a un recente msg (= una sua accusa nei miei cfr.) indirizzatomi da LoLip.

  4. Angelini è un insopportabile mentecatto. E’ così insopportabile e così mentecatto che mi decido a fare il mio primo post in un blog solo per dire questo. Che rovina per l’umanità, quell’uomo. (se di uomo si può parlare)

  5. Per Andrea C.
    Non preoccuparti, gli insulti di chi non si qualifica qualificano soprattutto chi li invia. Gente con le palle, ripeto, attaccate al cilindro della testa:-/

  6. ma perchè ho la sensazione che ci tutti gli interventi anonimi vengano dalla stessa “persona”?
    non capisco se si tratta della lente deformante del mio apparato percettivo o dell’atteggiamento di fondo che anima questi interventi. c’è qualcosa, una rabbia, un bisogno di attenzione, un “frantismo” voluto e mai raggiunto, posticcio e costruito. c’è qualcosa del piccolo borghese che non riesce mai a vedere davvero gli altri, oscillando tra la caricatura e il timore e che si rifugia nella cialtroneria e nella doppiezza.
    più che di anonimato semra essere di fronte ad una anomia che tutto inghiotte, buco nero dello stare di fronte agli altri. un gioco di specchi che non riflettono, ma ingoiano ogni luce.

  7. Coe a me piace moltissimo.
    Infatti non capisco perchè non si è parlato di lui. Soprattutto La casa del sonno, che secondo me resta uno dei suoi libri più belli (anche più bello dei brocchi)

  8. (l’avevo inserito in brolli anziché in coe)
    A proposito di “Circolo chiuso” di Coe, io non direi “traduzione, ottima, di Delfina Vezzoli”. Lo sto leggendo e ho già notato un certo numero di fastidiosi errori di traduzione: a parte il letterale “educazione” in luogo di “istruzione” (che forse non è un vero e proprio errore ma soltanto perché ormai anche in italiano si preferiscono le parole più somiglianti al corrispondente termine inglese), qualcuno può spiegarmi che cosa ci fa una bandura (un misto cetra-liuto, diffuso in Russia) in un tango di Piazzolla (p. 94)? Non sarà una maldestra traduzione di “bandoneon”, che era appunto lo strumento di Piazzolla? E che cos’è la “musica di sistema”? Forse è la “system music” (p. 242), uno dei modi in cui gli inglesi chiamano la “minimal music” statunitense e i suoi derivati? E quelle chiavi che cambiano (per es. ancora a p. 242) non saranno tonalità (una confusione già presente nella “Banda dei brocchi”, dove il traduttore era un altro). E “Hatfield and the North” non è il titolo del disco che Ben regalò a Lois (ancora p. 242) ma del gruppo che incise il disco (intitolato invece “The Rotters’ Club”: non è mica un errore da poco, se si pensa che è anche il titolo originale della “Banda dei brocchi”; e anche su “rotter” tradotto come “brocco” ci sarebbe da discutere). Potrei andare avanti per un bel po’ ma tanto sono quasi tutti esempi musicali e quindi chi se ne frega, no? Anche il Philippe Auclaire cui è dedicato il libro si chiama in realtà Philippe Auclair ma, essendo appunto un musicista e per giunta non una star, si può tranquillamente sbagliarne il nome, laddove nessuno avrebbe tollerato un “per Bruce Springsteene”.

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