Nicla Vassallo, professore ordinario di Filosofia teoretica, legge XY per Lipperatura.
In Una visita guidata (Adelphi 2008, p. 35), l’acuto e folgorante Alan Bennett ammette: «Ho sempre avuto un’inconfessata simpatia per Giuda, in primo luogo perché senza di lui il cristianesimo non sarebbe mai decollato, e poi, se si considera che uno dei principali fondamentali del cristianesimo è il perdono dei peccati, allora Giuda dovrebbe essere in testa alla classifica dei peccatori da perdonare. Giuda è la prova del fuoco del cristianesimo, è la maglietta macchiata d’olio e ketchup che, lavata nel sangue dell’agnello, dovrebbe venire più bianca del bianco. Invece Giuda non viene mai menzionato; come Trotskij sotto Stalin, è una non persona». Il romanzo XY (Fandango, Roma 2010) di Sandro Veronesi tratta di Giuda, e questa è senz’altro una ragione per tornare a scriverne – per quanto ci ricorda Alan Bennett, non per la prossimità della Pasqua.
Ma perché non illustrare una qualche novità letteraria? Quali altre ragioni si danno per affrontare XY? Perché ci dice più di quel che ritenessi, in una sorta di “visita guidata” a una ferita irrimediabile, e questa sua pregnanza costituisce (chissà) la motivazione per cui non ha goduto di tutto il meritato successo. Meglio il romanzetto o il saggetto pop in questa nostra Italia sempre più populista – volendo impiegare un eufemismo? O meglio parecchia filosofia, in forma metafisica ed epistemologica, congiunta a una sorta di descrizione realistica di quella San Giuda/Italia, in cui siamo ben lungi dal vivere nel migliore dei mondi possibili (di lebniziana memoria), in cui il male rimane, oltre che inevitabile, qualcosa da ricercare e al contempo da manipolare, in cui, a tratti, non resta che rifugiarsi nel catastrofismo della follia?
E’ vero: avendo difficoltà (almeno finora) a comprendere Friedrich Dürrenmatt, non mi pare una buona promessa che la prima citazione si debba a lui: «Un fatto non può “tornare” come torna un conto, perché non conosciamo tutti i fattori necessari, ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è causale, incalcolabile, incommensurabile, ha una parte troppo grande». Dalla discutibile tesi che non ci tornano i fatti, come invece ci tornano i conti, non segue che i fatti sia inconoscibili. Eppure la realtà, questa nostra realtà di parecchia Italia (non di ogni Italia) che si sta trasformando in una sorta di realtà/fiction a se stante, tra l’incubo, lo psicotico, il farsesco, una disneyland contradditoria, allucinata, delirante, muta, roboante, triste, in cui i fatti vengono tanto irrisi, da fare sì che ci pare di non riuscire a conoscerli, in cui i fatti ci vengono riferiti tramite informazioni al tal punto controllate e contraffatte da restituirceli “incommensurabili”, proprio come un insigne filosofo, Thomas Kuhn ritiene stiano le teorie scientifiche l’una nei confronti dell’altra. Ma qui non si tratta di teorie scientifiche. Di trappole, piuttosto, tese a troppi cittadini, su innumerevoli fronti.
Non so se, come mi risulta altri abbiano già intuito, XY decostruisca (con una strategia francesizzante degna di Jacques Derrida) il paradigma del giallo, del noir, del thriller. Ci restituisce però un’eccellente metafora di una bella parte di quell’Italia, dove, a discapito dei fatti, regnano i calcoli: calcoli di ogni ordine e grado, fino a manomettere le prove di una strage (di valori rispetto a cui corre in parallelo quella dei fatti), di una sorta di guerra, interna ed esterna, interiore ed esteriore, in cui freddure, omertà, spettacolarizzazioni, traumi si intrecciano tra loro.
Sebbene nella trama io (inguaribile) finisca per cogliere qualcosa di Davos e de La montagna incantata di Thomas Mann, ci troviamo nel semplice Trentino di San Giuda. San Giuda: nome che, con richiami a troppi Giuda, vorrebbe riferirsi alla magnanimità di Giuda Taddeo, mentre finisce col riconsegnarci la dannazione di Giuda Iscariota, insieme a tutta una parte di italiani che, con qualche tradimento e pentimento, pretende infine un riscatto, una reale chance, per continuare o tornare a vivere con serietà in un paese (San Giuda/Italia) in cui alla cittadinanza viene attribuito un nobile significato, o comunque un significato effettivo.
San Giuda/Italia rimane, invece, almeno per ora, “un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perché quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente”. Arduo ragionare filosoficamente su un “non esistere quasi”, sulla convinzione che nessuno capirà mai il perché, su un luogo dove accade qualcosa, pur non accadendovi mai nulla. Però, quando non si fa filosofia, o per chi non è filosofo, gran parte dell’Italia in effetti – geografia a parte – dove si trova e ritrova?; in uno continuo costoso scandalo, o in una cultura cui i finanziamenti sono negati? Ma allora accade qualcosa di rilevante, che non si concretizzi in banali narcisismi, gossip e manie?; vi si verifica, per esempio, un qualche evento d’accezione non marginale?
Non è il caso di ricordare le vittime e la loro morte degna delle serie più raffinate di Fox Crime (Veronesi menziona, se non ricordo male, X–Files), né la trama ormai nota, e scaltramente palesata dapprima sul web (www.x-y.it) tramite una successione d’indizi sibillini, in modo da produrre la giusta suspense prima dell’uscita in libreria. Scaltramente, quanto? C’è tutta un’Italia ben più astuta in tal senso. In cui ciò che avverrà viene addirittura negato, oppure in cui non viene annunciato, oppure, ancora, in cui, viene promesso ciò che si sa già che non accadrà.
Tuttavia, in questa San Giuda/Italia, c’è una donna non comune, Giovanna Gassion, simbolo della ragione psicologica e dei suoi fallimenti (i dubbi di Karl Popper sulla psicoanalisi?), con una domanda: «Perché io so quello che è bene e continuo a fare male?». Domanda banale solo in apparenza, non foss’altro per il peso, nonostante l’Italia pop paia smentirlo, del problema legato alla conoscenza del bene e del male, e dei comportamenti che ne seguono. C’è anche un uomo non comune, don Ermete, simbolo della fede, sacerdote in cui concetto di bene in quanto fine ultimo viene a offuscarsi, mentre la devozione a Dio a mancare, sarcerdote che assume qualche caratteristica di Ermete Trismegisto, ovvero “Hermes Triplex”, al contempo re, filosofo, profeta. Insomma, una donna e un uomo che rispettano poco gli stereotipi, dominanti nel pensiero italiano, della “vera” donna e del “vero” uomo, e che, in fondo, evidenziano a tal punto le loro caratteristiche individuali, da presentarsi in quanto persone uniche, al di là del loro sesso e del loro genere di appartenenza. Se, invece, ci si ferma alle apparenze, le cose appaiono scontate, con la scienza/ragione versus la fede, nonché controverse, sia perché c’è chi tenta di fondare la fede sulla ragione, sia per il convenzionale sovvertimento delle tradizionali attribuzioni della fede credulona alle donne e della razionalità algida agli uomini. Per di più, rimane il male a dominare sulla ragione. Meno, però, di quel che si verifichi in Italia.
Il titolo XY, ovvero il maschio, ma indirettamente pure l’uomo (Y) e la femmina (X), che, con quel loro articolo determinativo, fanno tanto assoluto: c’è un unico uomo, c’è un’unica donna, che, poi, come ho accennato, le figure dei due protagonisti negano, insieme a tanti altri diversi personaggi; XY, ovvero gli assi cartesiani, una fievole relazione al calcolo di Dürrenmatt, una più forte col razionalismo, nonché il dualismo tra mente (non anima) e corpo – a richiamare un’antitesi che l’attualità continua a porre in bella e drammatica mostra, con la supremazia incontrastata dei corpi delle donne, corpi imposti da una normatività di matrice maschile, e le negazioni di vere e proprie menti a queste stesse donne; XY che, sovrapposte, diventano macchie di Rorschach, o XY inusuale croce, sigillo magico, o XY a indicare l’incognito, il mistero, l’impossibilità di conoscere i fatti, cosicché traspare l’esigenza d’interpretazione, in congiunzione a qualche sorta d’incanto e/o di fatalità tra la fiction, il reale, il simbolico: rimane, tuttavia, l’ignoto con qualche senso di oscurità in sé, un ignoto pure volutamente celato, e tanto più inconoscibile, o semplicemente inafferrabile perché c’è a chi tutto ciò torna comodo.
Mi colpisce: «Ecco l’ho usato. Soprannaturale. E’ successo qualcosa di soprannaturale. E’ possibile. Se esistono le parole per dirlo, è possibile». Filosoficamente non sempre regge. Dipende soprattutto da ciò che si intende con “possibile”: per esempio, gli unicorni, pur possibili nei miti, di fatto non sono mai esisti. Nondimeno, quanto trascende la natura (chissà, il mistero, il miracolo, il divino) diventa possibile grazie al termine “soprannaturale”, e da questo segue che le parole rendono possibile molto altro. Troppe le domande da sollevare: cos’è la possibilità?, cos’è il significato delle parole?, cos’è la realtà?, la conosciamo attraverso le parole?; cosa sono i fatti naturali e quelli soprannaturali? Ma se sui fatti non dobbiamo dimenticare Dürrenmatt, volendo invece menzionare Michel Foucault, qual è il rapporto tra le parole e le cose? E il rapporto tra quanto rimane possibile credere e quando invece diventa impossibile? Sì, il romanzo di Veronesi ci inonda di interrogativi (quelli appena enunciati ne rappresentano alcuni – tra gli altri, basti nominare il problema del tempo che si arresta e «scorre in un verso solo», del giorno zero, del passato–presente, dei nomi con troppi riferimenti, “Giuda”, certo, ma anche altri quali “Giovanna”: Beata Giovanna da Signa, Beata Giovanna del Portogallo, Beata Giovanna Gerard, Beata Giovanna Maria di San Bernardo de Romillon, Beata Giovanna Veron, Giovanna Carlotta di Anhalt-Dessau, Giovanna d’Aragona, duchessa d’Amalfi, Giovanna d’Aragona, duchessa di Paliano, Giovanna d’Aragona, duchessa di Sora, Giovanna d’Asburgo o Giovanna di Spagna, Giovanna d’Austria o Giovanna d’Asburgo, Giovanna d’Aviz, Giovanna d’Évreux, Giovanna di Castiglia detta Giovanna la Pazza, Giovanna di Costantinopoli, Giovanna di Dammartin, Giovanna di Francia o Giovanna di Valois, Giovanna di Holstein-Gottorp, Giovanna di Savoia, Giovanna di Trastamara, Giovanna d’Inghilterra, Giovanna Dorotea di Anhalt-Dessau, Giovanna Enriquez, Giovanna Guglielmina di Anhalt–Köthen, Giovanna I d’Alvernia, Giovanna I d’Angiò, Giovanna I di Borgogna, Giovanna II di Borgogna, Giovanna III di Borgogna, Giovanna la Beltraneja, Santa Giovanna Antida Thouret, Santa Giovanna da Bagno di Romagna, Santa Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orléans, Santa Giovanna de Lestonnac, Santa Giovanna della Croce, Santa Giovanna di Valois, Santa Giovanna Elisabetta Bichier des Ages, Santa Giovanna Francesca de Chantal, Santa Giovanna, detta la “Mirofora”, e via dicendo). Giusto e necessario interrogarsi, perché questa nostra Italia, assai populista, ha più che mai bisogno di domande. Ha bisogno di non appiattirsi ulteriormente in, né di stordirsi con volgarità/banalità materiali, nonché pseudo–intellettuali.
XY ci lascia con un’equivoca “Weltanschauung”, che, se da una parte rimanda ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Caroll, e ciò non si situa in contrapposizione con il bisogno di sapere (introspettivo e non) di Giovanna Gassion e di don Ermete, dall’altra mostra l’incoscienza di un paese molto pulp, oltre che pop (San Giuda/Italia), in cui la realtà sembra ormai determinata dal susseguirsi delle puntate televisive di un qualche “Porta a porta” e dei suoi cloni, di un qualche massacro (reale o metaforico) che non trova risposte, per cui s’inquisisce per non inquisire. L’urgenza di sapere, accompagnata dal dubbio, vi torna e ritorna con ossessione. Un’urgenza su cui l’Italia populista non può investire, un’urgenza che viene costantemente frustrata, se non castrata. Il sapere si accompagna al dubbio, e viceversa: assai pericoloso per chi intende privarci degli strumenti essenziali a compiere scelte giuste, a ricercare la verità. Per chi ci vuol “fare sbandare” a tutti i costi. Tra l’altro, rimane qualcosa in XY che conduce il lettore non solo a una sorta d’indignazione e di vergogna per l’Italia, ma pure a una vera e propria, inevitabile ribellione. Un’illusione? Forse, se «trovare un senso in quello che è successo non è possibile». Eppure, quanto a me e a Giovanna, «o si è il viandante che sono sempre stata che accusa il contadino di non sapere niente o si è il contadino che sarò da ora in poi e che gentilmente e continuando a zappare gli risponde sì signore è vero signore io non so niente signore ma quello che si è perso è lei».
un po’ mi vergogno a dirlo, ma non ci ho capito niente. Mi tengo caro il libro di Veronesi…
Cercavo un motivo per leggere questo libro, qui non lo trovo.
Non perchè il libro di cui si tratta non contenga elementi di interesse (presumo) ma perchè la recensione è incomprensibile, dà per implicita la lettura, è avvitata su se stessa come purtroppo molta scrittura saggistica dei nostri tempi, che definire autoreferenziale è un eufemismo positivo. Prima di (non) recensire: imparare a scrivere, cioè a privilegiare la comunicazione sull’esibizione problematica fine a se stessa.
Ciao Vito.
Abbiamo postato in contemporanea.
Flic e Floc
beh,però la critica anche per continuare a esistere e svolgere il lavoro di stimolo deve alzare sempre l’asticella azzardando paralleli anche improbabili.Forse sempre solo in virtù di quello che La Gioia metteva in bocca a un muliebre personaggio confuso tra i principianti:meglio fingesse acrobati che sentisse nani dentro.Per quanto riguarda il romanzo di veronesi credo di essermi già espresso in termini di sospensione del giudizio.Più che altro,di questi tempi, era molto interessante il racconto di Arrigo Boito allegato in appendice,che parlava a proposito di insurgentes
ciao Flic.
O Floc?
:-))))))))))
Ho dato un’occhiata al sito in questione, curato dalla fandango, per pubblicizzare il romanzo di Veronesi. Non sono riuscito neanche lì a capirci granché – ci vorrebbe più pazienza.
Anche la recensione della filosofa non è certo “facile”. Né invoglia a leggere il romanzo, d’altronde – evidentemente – non le era stato chiesto di fare promozione.
C’è il marchio di fabbrica del filosofo, comunque. Non essere riusciti a non citare Foucault, Derrida e Popper in un articolo su un romanzo thriller di Veronesi. Questo devo dire che è un po’ urticante.
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Non avendo letto il romanzo, né essendo riuscito a capire quanto la figura di Giuda sia effettivamente rilevante, è dai tempi della visione de “L’ultima tentazione di Cristo” che mi sono interessato a questa figura. E da quanto ho capito non tutte le teologie hanno bollato Giuda come una non-persona. Anzi. Non sono rare le idee di chi pensa sia stato lui il vero “miglior apostolo” di Gesù; il favorito.
Spesso il traditore, in letteratura e al cinema, è una figura centrale. O perché tradisce l’eroe, o perché dopo averlo tradito si redime – anche sacrificandosi.
La figura dell’Iscariota, invece, è un raro esempio di “traditore forzato”, di vero martire. Mentre Pietro rinnega tre volte il suo signore e viene perdonato, Giuda si avvia all’eterna dannazione.
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A quel dinanzi il mordere era nulla \
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena \
rimanea de la pelle tutta brulla. \
Quell’anima là sù c’ ha maggior pena
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D’altronde il punto è, per me, questo. Cristo non perdona Giuda. Perché non ha niente da perdonargli.
Io il romanzo l’ho letto e nonostante questo ho dovuto rileggere l’articolo almeno un paio di volte per seguirne il filo, ma essendo una mezza filosofa non ho potuto trattenermi dallo sfidare la mia capacità di comprensione!
Mi spiace che il pezzo non abbia invogliato molti a leggere il libro, perché secondo me merita davvero, anche se tanti critici e lettori ne hanno fatto una vera e propria autopsia!
Direi questo a chi è in dubbio tra leggerlo o non leggerlo: questo libro non vi darà risposte, farà nascere in voi tutte le domande che avete letto nell’articolo e molte altre per non darvi nessuna risposta, oppure vi darà risposte che non volevate, risposte che non vi appartengono, ma non è forse passando dalle strade sbagliate che si fanno le grandi scoperte?
Quindi si, se non avete paura di buttarvi dentro il mistero che ogni uomo rappresenta, leggete XY e poi tornate a riguardare l’articolo potreste avere una risposta in più…o magari una nuova domanda!!!
come ci mancano i tempi in cui Deleuze scriveva di CB…
Phew che sollievo. Pensavo di essere il solo a non averci capito nulla, ma evidentemente c’ è un qualcosa di oggettivo che tocca. Magari la’utroe della recensione ha scritto il pezzo pensando di rivolgersi ad un pubblico più preparato.
Ma è giusto questo, se stiamo parlando di un romanzo thriller? O più in generale, è giusto avere recensioni di romanzi che si rivlogno ad una cerchia limitata di fruitori? Non lo so.
Mah, a me sembra più interessante il commento che la recensione. Il che è tutto dire. Ha sintetizzato bene questo tipo:
http://www.youtube.com/watch?v=5v_chqBbEx4