LA RAGAZZA CON LA BANDANA ROSSA, CHE NON ESISTE, EPPURE SORVOLAVA IL MARE DI USTICA

Sull’aereo per Palermo, dunque, sono saliti bambini con le pinne, ragazze con i jeans e le borse indiane, uomini con la ventiquattrore. Si sono accomodati sui sedili, prima ancora hanno infilato zaini e borse nelle cappelliere, mentre allacciavano la cintura una hostess è passata a chiuderle e le cappelliere hanno fatto clac sopra di loro, e qualcuno – quelli che hanno paura di volare, ce ne sono sempre due o tre in ogni volo – ha sospirato e pensato che stava mettendo la propria vita nelle mani di qualcun altro, e che Dio davvero la mandasse buona. Qualcuno ha tirato fuori un libro, forse Altri libertini di Tondelli perché dicono che bisogna leggerlo, o forse un libro di Moravia, bisogna leggere anche quello, dicono sempre. Qualcuno ha cercato nelle tasche una gomma da masticare per le orecchie che si tappano al decollo. Qualcuno – pochi, crede Dora, immobilizzata sul divano davanti al telecronista concitato – ha guardato le dimostrazioni degli assistenti di volo sulle uscite di emergenza. Poi le porte si sono chiuse, l’imbarco è terminato, le sigarette andavano spente, le cinture dovevano essere tutte allacciate. E poi. Poi l’aereo si è spostato sulla pista, piano come una grossa automobile sgraziata, e poi c’è stata la corsa, e la piccola sensazione di vuoto allo stomaco quando il pavimento si inclina e il muso punta verso l’alto. Qualcuno ha guardato dal finestrino cercando il mare, perché quando si vola si cerca sempre il mare. Ottantuno. Sono ottantuno i passeggeri. Quando il segnale si spegne, qualcuno accende la sigaretta, qualcuno allunga i piedi, c’è sempre quello che continua a sospirare perché nonostante l’aereo sia di nuovo orizzontale non smetterà di avere paura finché non avrà sentito il tonfo del carrello sulla pista. Dora scuote la cenere. Alle 20.59, sta dicendo il telecronista. Tra Ustica e Ponza. Dunque dopo cinquantun minuti di volo. In cinquantuno minuti si accetta da bere (Tè? Un prosecco? Un bicchiere d’acqua?) dall’assistente. Si poggia la testa sul coprisedile e si cerca di dormire, pensando a quello che si è lasciato alla partenza o a quello che si troverà. O forse nulla di questo, forse un sogno sciocco, di quelli che a terra non si sognerebbero affatto. Un giro di valzer sulla spiaggia, con un uomo bellissimo, magari un attore. Una corsa in moto. In astronave, magari, con Capitan Harlock. Oppure niente sogni, solo la stanchezza. C’è un bambino di un anno, fra quelli che il giornalista chiama dispersi, ma se l’aereo è sparito, proprio sparito dai radar, dove vuoi che sia disperso, pensa Dora. Un bambino di un anno dorme in braccio alla mamma. Forse dorme anche la mamma. Ci sono altri bambini, altri tre, le sembra di capire, due femmine e un maschio. Forse stanno giocando insieme, ma senza correre perché sono bambini educati e nel corridoio non si corre. Forse le bambine hanno una bambola. Forse stanno inventando un’avventura dove Goldrake salva le bambole, o magari una sola bambola, all’altra spetta il ruolo del cattivo. No, non tre. Tredici. Un aereo pieno di bambini. Qualcuno ride, qualcuno legge, qualcuno gioca, qualcuno dorme, qualcuno fa i capricci. Poi arrivano le 20.59, scadono i cinquantuno minuti di volo. Come sarà successo, pensa Dora? L’aereo che sussulta, come succede nei vuoti d’aria, e i passeggeri che cominciano a gemere, le mani contratte sulla cintura. E poi punta verso il basso, di colpo, e le cappelliere si aprono e zaini e valigie cadono sulle teste ma ormai non è più quello il problema. Oppure?
Una chiazza oleosa, dice il giornalista. Sullo schermo c’è una macchia lucida, si muove sull’acqua azzurra riflettendo la luce del sole. E poi lo vede. Un corpo, crede, come un fiore bianco, quella che deve essere la testa reclinata all’indietro, le mani come a voler fermare qualcosa. Un corpo di donna. Bianco nell’azzurro. Dora inghiotte saliva. Solo ieri sera. Ecco, è sera e quella è una donna che sta guardando dall’oblò, e chissà cosa vede, se l’acqua che si avvicina o un solo bagliore incandescente, perché chissà cosa è successo, nessuno lo sa, si sa solo che la sera del 27 giugno un aereo è partito e non è mai arrivato e si è fermato nel mare. E in quel momento è come se la donna si voltasse verso di lei, stupita, e avesse un cappello rosso che nessuno indosserebbe oggi, un cappello largo quanto il suo viso è lungo e stretto, e vivace quanto la sua carnagione è pallida. Dora spegne la sigaretta.
Immagina. Le 20.59. La ragazza non aveva un cappello rosso come la Ragazza di Vermeer, che è uno dei suoi quadri preferiti. Aveva una bandana, magari, dello stesso colore, per tenere indietro i capelli. Capelli neri e ricci, si increspano per il sudore. A Bologna fa caldo. La ragazza sta andando in vacanza in Sicilia. La ragazza è stanca, ha dato un esame la settimana prima. Fuma troppo, beve troppi caffè. Ha bisogno di mare e di sole, di pensieri leggeri, di pigrizia. La ragazza è stanca di essere stanca, di avere sempre i pensieri impegnati, per tutti gli anni Settanta è stato così. Ora vuole gonne attillate e camicette ricamate un po’ trasparenti, e magari una sottoveste di raso, e un amore lieve, lievissimo, come l’estate. La ragazza ha deciso che se lo merita. Allora non ha portato con sé Siddharta di Hesse, come pure aveva pensato, ma un fascio di riviste femminili per guardare quali costumi andranno di moda, e magari potrebbe fare una dieta e calare almeno di una taglia, e forse tingersi i capelli. Colpi di sole, sì. La ragazza sta leggendo un articolo che parla del ritorno del raso, appunto, ed è corredato da abitini che sembrano sottovesti, appunto, color crema e azzurro polvere. La ragazza è una ragazza, e non si vede perché debba prendere su di sé i destini del mondo. La lasciassero vivere. Poi però c’è un momento in cui smette di leggere e qualcuno la chiama, forse dice “guarda!” e in quel guarda c’è tutta la paura dell’universo. E lei si volta.
Un brano da L’arrivo di Saturno. E non per ricordare il libro, ma per ricordare Ustica. Perché sempre sono stata e sarò convinta che non c’è salvezza senza memoria, e senza giustizia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto