L'ALBERO DI MANGO

Dopo aver letto il titolo è lecito attendersi un post sull’atroce morte delle due ragazzine indiane, seguita da un’altra morte recente,stesso stato (Uttar Pradesh), stessa prassi: prima lo stupro di gruppo, poi l’impiccagione a un albero di mango.
Non lo farò. E non perché non sia toccata e furiosa e addolorata da quel che è avvenuto alle tre bambine, e che avviene ad altre, ogni giorno, in modalità diverse, in ogni angolo del mondo, in India come in America come in Italia. Non lo farò perché altre e altri hanno usato parole forti e giuste, come Adriano Sofri questa mattina. Non lo farò perché mi sto convincendo che questo ci si aspetta da una donna e da una femminista: che usi le proprie parole per deprecare l’orrore e l’ingiustizia che tocca in sorte ad altre donne. E in questo modo, in un certo senso, assolva al proprio compito ed elargisca assoluzione: abbiamo recitato la nostra omelia quotidiana contro il femminicidio, la violenza, le disuguaglianze. La voce delle donne parla per noi, grazie di averlo fatto, andiamo avanti.
Non lo farò perché il pensiero che crea le disuguaglianze sembra non essersi spostato di un millimetro in questi anni. Scrittori, politici, intellettuali, attivisti hanno firmato petizioni, hanno preso le distanze, si sono battuti il petto. Ma nel fondo del loro sentire, annidata nel cervello rettile e nella parte più oscura di se stessi, quella disuguaglianza è radicata e alimenta i loro comportamenti: è bene, è giusto, è sano che le donne parlino di femminismi. E’ il loro recinto, il loro cerchio magico, il loro sacrosanto trastullo. Per questo le accogliamo fra noi, le invitiamo ai convegni, le intervistiamo, recensiamo i loro saggi. Ma quando quelle stesse donne prendono la parola sugli argomenti che spettano a noi (letteratura, arte, filosofia, internet, politica) sappiamo che sono meno di noi, che non raggiungono il nostro livello, e se non glielo facciamo notare apertamente è perché al momento non è corretto e siamo consapevoli che essere benevoli verso i femminismi è conveniente.
In queste settimane e giorni ho ascoltato e letto parole che sono intrise di questo pensiero, da parte di uomini e anche di donne. Parole che rigurgitano di pregiudizio e di stereotipi. Parole che definiscono una persona in base all’età, all’aspetto, agli ormoni (ah, la menopausa!). Parole che oggettivizzano e sminuiscono e che vengono, lo si voglia o no, dal pozzo nero in cui ci si rifiuta di guardare.
Dunque, non è quello spaventoso albero di mango che occorre osservare: anche, certo, ma non solo. Occorre non ri-cominciare ma cominciare un lavoro che non è mai stato fatto. Altrimenti, i femminismi, lo vogliano o meno, saranno solo i cagnolini da salotto delle nostre coscienze. E a questo gioco non bisogna, più, partecipare.

4 pensieri su “L'ALBERO DI MANGO

  1. Prima di scrivere o parlare, preferisco pensare ed ascoltare a lungo. E magari finisco per non scrivere e parlare mai. Ora, però, di getto, voglio dirle GRAZIE per questo post. Di cuore.

  2. Gran bel post, Loredana. Ieri ho passato un brutto quarto d’ora a scorrere il “manifesto” di Elliot Rodger, l’assassino che in California ha ammazzato 6 persone (più se stesso) durante il suo “Retribution day”, cioè il giorno del castigo. Castigo per cosa? Per essere stato rifiutato dalle donne, che considerava bestie non raziocinanti che andrebbero sterminate e cancellate dalla memoria dell’umanità, conservate solo come uteri per la riproduzione, per creare finalmente un mondo in cui gli uomini possano vivere pacificamente tra i loro pari. Per qualche minuto, quella violenza scritta e poi attuata – anche se lontano da me quanto metà del globo – mi ha paralizzata.
    Sono gli scritti di un pazzo, direte voi. Poi ho letto questo: http://www.ilpost.it/2014/06/03/elliot-rodger/ e quello che pensavo si è confermato: gli Elliot Rodger sono molti, non pochi. Perché la violenza non è – solo – una questione psichiatrica, e tanto meno sessuale. È una questione di potere. E quanti sono gli uomini che accusano le donne della loro mancanza di potere, un potere che sono convinti di meritare, e sono pronti a sacrificarle per ottenerlo? Non lo sappiamo. Tra di loro potrebbe esserci il tuo collega, che è un uomo cattivo, solitario, lunatico che passa le giornate a guardarti con odio perché non rispondi ai suoi approcci (quante brutti momenti ho passato a causa sua, quante volte ho pensato che un giorno lo avrei trovato ad aspettarmi dietro il portone di casa). Oppure quello che ti spintona sull’autobus, o il tuo ex, oppure quello che minaccia di spaccarti la faccia – un palmo più alto di te – perché hai difeso una tua amica. La violenza impone un potere, e la paura è sufficiente a creare uno squilibrio, a renderti più debole. È già una vittoria. Perché è difficile, tanto difficile, andare oltre, guardare oltre, quando è la propria pelle ad essere in ballo. Bisogna combattere contro i propri istinti di creatura vivente, quegli istinti che nell’articolo che ho linkato sopra ti fanno pensare solo a quanti uomini così hai conosciuto – misogini, uomini che odiano le donne – a quanti ne hai attorno ora, a quanti ne conoscerai e a come fare per evitarli. Nessun uomo può immaginare quanto tempo ogni donna spende a pensare a cose del genere. Tempo tolto ad altro, tolto alle idee, all’immaginazione, alla politica, alle cose da fare e da costruire.
    E così non ci si accorge, ad esempio, della schifosa autocommiserazione che esala da quell’articolo. Al suo intento di auto conferma, narcisistico, incapace di empatia: io sono un misogino, lo sono sempre stato e non posso cambiare. Un intellettuale, uno scrittore, uno che può persino fregiarsi della medaglia della consapevolezza e della sensibilità sulla questione della violenza contro le donne.
    E ancora, così non ci si accorge di quanto suonino vecchie e banali le parole di Elliot Rodger, del fatto che non siano farina del suo sacco, proprio per niente. Sono idee vecchissime, che oggi urla il leader del primo partito britannico – lo stesso con cui il secondo partito da noi si vuole alleare. Le stesse che martellano incontrollate, e anzi sollecitate, solleticate, in qualunque ambito di discussione in rete in cui l’argomento femmine venga anche solo sfiorato. Le stesse che giornalisti, intellettuali, scrittori, sparavano dalle maggiori testate italiane fino a poco tempo fa, e che ora un po’ sussurrano, scrivono tra le righe, perché ora va di moda non dirle più ad alta voce, ma questo non significa che, per carità, si venga puniti per averle proclamate, altrimenti si urla al nazifemminismo e si tirano in ballo tutti i santi che esistano, dalla Madonna alla mamma a Voltaire.
    La violenza questo fa, crea uno shock, impegna i tuoi pensieri, li dirotta, li fa girare in tondo attorno a quel nodo fondamentale che è la tua vita, nientemeno. È anche per questo che è così odiosa. Quanti uomini – e anche donne – pensano che se non ti capita di venire assalita, picchiata, violentata, ammazzata, allora tutto sommato è tutto ok, e non sanno nulla di tutto il tempo e le energie che passi a pensare a quello che ti potrebbe accadere e a come evitarlo, a pensare a quando hai rischiato, a cosa ti sarebbe accaduto se e via dicendo?
    Tutto questo per dire che sì, bisogna guardare oltre la violenza attuata, e scovarla ovunque, anche dove non sembra ci sia – perché discriminare qualcun@, ridurla, come dici tu, all’età, agli ormoni eccetera è già violenza.
    Essere impietose. Perché di compassione, di empatia, spessissimo noi non ne riceviamo per nulla. Perché ogni volta che qualcuno si crede più di noi perché siamo donne, è uno schiaffo che riceviamo. Essere impietose, ogni volta che possiamo.
    E trovarci tra di noi, che non so dire se sia la cosa più facile o quella più difficile.

  3. davvero, hai ragione! resta solo il silenzio di un vuoto che non sembra si voglia colmare se non per apparire e mettersi in mostra e poi dimenticare! Vedo che si parla e si lotta inutilmente, vedo che c’è ancora troppo da fare e che non si vuole ascoltare nel profondo. Farsi belli sul dolore altrui… tutto fugace e momentaneo… cosa cambia, poi? L’atteggiamento interiore di chi ci crede davvero e continua a testimoniare nella formazione e nella cultura l’alternativa possibile… chi vorrà davvero starci? Non lo so.

  4. magari cos’è una preterizione non lo sanno nemmeno i lettori di lipp. Si tratta di una forma retorica per cui affermando di non voler parlare di un argomento, in realtà lo si mette al centro del nostro argomentare. Ora sono convinto che nessuno intende utilizzare questa tragedia delle ragazzine indiane per deviarne la compassione verso il dolore delle povere filosofe nostrane misconosciute nella loro grandezza. L’ associazione però risulta ( secondo me) comunque avventata il dolore le tragedie, specie quando così impressionanti, hanno una loro singolarità da rispettare . Ma dato che la frittata è fatta, voglio abusare anch’io dell’argomento, ricordando che India tante altre ragazzine vengono sfruttate dalle multinazionali bioteconologiche, come uteri in affitto. La donna, privata della dignità sfruttata abbassata a macchina da riproduzione, una considerazione sociale che forse ha una attinenza significativa con le tragedie evocate
    ciao,k.

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