Poi non dite più che faccio post brevi, voi…Scherzi a parte: dal momento che oggi è ancora una giornata tempestosa (le bozze le ho rilette, ma devo, come si suol dire, confrontarmi sulle medesime; poi devo fare una cosa che non ho mai fatto e che non vi dico), vi offro la già citata intervista con Laura Pugno uscita su Mente e Cervello. Prossima intervistata? Non vi dico neanche quello. Per ora. State bene.
Immaginate un mondo votato ad una morte terribile (il cancro nero, che brucia la pelle e con l’approssimarsi della fine la rende candida come i petali di un fiore). Immaginate che poco prima dell’apocalisse questo stesso mondo – che è il nostro- venga visitato da esseri mitologici, i quali vengono catturati, sottomessi e destinati ai piaceri carnali della nutrizione e dell’accoppiamento. Immaginate che però quegli esseri siano gli unici a sopravvivere. Questo è Sirene, primo, breve e assai ben accolto romanzo di Laura Pugno (Einaudi, pagg. 148, euro 11): che affronta, con una struttura assai poco frequentata nella narrativa italiana, il grande tema della paura della catastrofe. Ma, soprattutto, recupera e rivisita il mito.
Inevitabilmente, comincerei da qui. In genere si dice che i nostri scrittori nutrano qualche diffidenza nei confronti del medesimo. Mentre altre culture narrative, includendo dunque anche fumetto e manga, ne fanno la propria materia prima. Ne eri consapevole, o non concordi con il si dice?
Trattare il mito a mani nude, ma è successo più in poesia che nel romanzo, è molto pericoloso. E la narrativa italiana è, io credo, giustamente diffidente, anche per la grande vicinanza che ancora manteniamo con una grande tradizione. Non a caso in Sirene sono all’opera tutta una serie di meccanismi di straniamento, a cominciare dall’ambientazione paracaliforniana, con forte presenza orientale, e dalla prospettiva del prossimo futuro. Nel romanzo le sirene sono precipitate dal piedistallo del mito – ridotte a bestie d’allevamento, a feticci viventi – eppure mantengono segretamente il loro potere. Per quanto mi riguarda, se penso alle sirene di Sirene, le vedo più come creature di una biologia estrema che del mito; e mi piacerebbe riprendere una definizione di Marco Giovenale, che ha scritto la postfazione a un altro mio libro uscito di recente, il poemetto “Il colore oro” (Le Lettere 2007): “mitografia senza mito, come se di mito si potesse ancora parlare”.
Veniamo subito all’argomento manga. Tu ti sei dichiaratamente ispirata ad una serie di Rumiko Takahashi, fra le più prolifiche e famose mangaka giapponesi: nota, questo è il punto, per la capacità di attingere sia alla mitologia orientale, sia a quella occidentale, facendole convivere armoniosamente. Questa perdita di appartenenza del mito, dai detrattori dei manga, viene vista con ostilità. Cosa ne pensi?
Per me, il debito con la Saga della Sirena di Rumiko Takahashi riguarda un solo dettaglio molto preciso, il mangiare carne di sirena, e mi sembrava giusto “citare le fonti”: detto questo, mi piace lasciare il campo aperto alle possibili letture del romanzo, perché posso sempre scoprirvi qualcosa di nuovo, anche per me. Per rispondere più precisamente alla domanda, credo che almeno in Italia la mia generazione, forse non le precedenti né le successive, viva la mescolanza delle due tradizioni, orientale e occidentale, con naturalezza. Andare a scuola e studiare i classici, poi tornare a casa e appassionarsi alle prime serie di anime trasmesse in televisione, sono due esperienze senza soluzione di continuità per chi è stato ragazzo (o ragazza) negli anni Settanta/Ottanta.
Proprio nella tradizione orientale nascono le sirene: e nascono come ibridi. Inizialmente sono metà esseri umani e metà uccelli (i pesci vengono dopo). A proposito del collegamento con i manga: in genere gli eroi dei medesimi sono proprio ibridi. Sono a cavallo di due mondi. Secondo te, c’è un rispecchiamento della nostra attuale condizione in questo?
Più che un rispecchiamento della condizione attuale, i personaggi teriomorfici mi sembrano legati al persistere di un meccanismo antichissimo della mente umana, che si ritrova praticamente in tutte le tradizioni, a partire dalle pitture rupestri del Paleolitico come Lascaux, Pech Merle o Altamira, realizzate da homo sapiens mentalmente e fisicamente identici a noi. Forse oggi lo spirito del tempo, se vogliamo adoperare quest’espressione, consente di porsi la questione in modi diversi e nuovi: l’essere umano riesce di nuovo a pensarsi – da Darwin, che nelle scuole americane i creazionisti tentano assurdamente di abolire, in poi – in modo più consapevole in relazione alle altre specie. Leggere un po’ di paleontologia recentissima, notizie scientifiche che a volte finiscono anche sui quotidiani, e rendersi conto che non un generico antenato dell’uomo, ma questa specie umana, in un momento in cui era già in grado di produrre cultura, ha convissuto molto a lungo – decine di migliaia di anni, un tempo che si fa fatica a immaginare – con almeno un’altra specie umana, il neanderthal, dà da pensare. È possibile che un incontro di questa portata, prolungato di decine di migliaia di anni, abbia lasciato “tracce mnestiche” nella nostra eterna ossessione per l’Altro, simile ma irriducibilmente diverso?
In un saggio recente scritto con Maurizio Bettini e dedicato proprio al mito delle sirene, Luigi Spina scrive che le medesime “sono la voce che rimane sola a regolare le sfere del cosmo, la voce che ricorda la vita – il fascino di ciò che si desidera, nel regno della morte, la voce di quel momento in cui qualcosa che c’era può non esserci più, o c’è in altra forma: la voce delle metamorfosi, appunto”. Nel tuo romanzo le sirene non cantano: o quanto meno il loro canto non può essere percepito se non da alcuni animali. Ma la sirena-ibrido, Mia, cerca di imparare a parlare. Una metamorfosi alla rovescia?
Le sirene cantano, ma l’uomo non può sentirle, anche se sembra che l’esposizione prolungata al loro canto possa spingere al suicidio. In che modo esiste ciò che cade al di fuori della nostra percezione? E questo nostro limite percettivo, è irriducibile? Domande che la filosofia ha identificato da tempo e che la scienza, scoprendo oggetti ed energie continuamente nuovi e intangibili ai sensi, rende sempre più reali. In questo modo, se vogliamo, la proibizione che vieta di ascoltare il canto delle Sirene – se non a prezzo della morte – è conservata anche in presenza di un’impossibilità fisica. E Mia non cerca di imparare a parlare da sola – non più di quanto non cerchi di farlo un neonato – ma è Samuel, un essere umano della generazione precedente, a spingerla.
Ma questa negazione del canto simboleggia anche, mi viene in mente, la perdita della capacità di ascoltare il proprio stesso passato da parte degli esseri umani?
Underwater, la città in parte subacquea di Sirene, non ha più un passato perché non esiste più un futuro. Le Sirene compaiono poco prima che il futuro scompaia.
C’è stato chi ha visto nella nascita della sirena ulteriormente ibridata la “via d’uscita dall’umano” come soluzione, o almeno come possibilità di salvezza. E’ stato uno dei grandi temi di fine Novecento, quello del post-umano. Ti ha ispirata?
Si dice post-umano e si pensa all’inorganico, al cyborg, all’intelligenza artificiale, all’uomo e la macchina. Il filo segreto che percorre Sirene – come del resto tutto il mio lavoro – è più il rapporto tra il corpo e la mente, la loro unità. E la salvezza di Mia e del suo cucciolo per tre quarti umano (strano accostamento di parole) non è affatto umana. Niente viene conservato, tanto meno la possibilità della lingua e del pensiero, che si perde senza la struttura del contatto.
La catastrofe. Ci arrivo tardi, ma è il tema centrale del romanzo, o meglio lo sfondo imponente che dà senso agli avvenimenti. L’umanità messa in crisi, quindi decimata, infine condannata all’estinzione dal cancro nero dovuto al disastro ecologico: è il tema dei temi, in questo momento. Ma la letteratura, specie quella fantascientifica, lo aveva anticipato da tempo.
Sta diventando – ed è un bene, così forse, ammesso che la finestra di tempo utile non si sia già chiusa, e se non vi saranno ulteriori inganni e colpevoli delazioni, e se vi sarà la volontà politica, si potrà fare qualcosa – un tema del quotidiano, della vita delle persone comuni, almeno nelle fasce più consapevoli. Ciascuno di noi prima o poi arriverà a chiedersi, il mondo sarà ancora abitabile quando avrò ottant’anni? Il mondo in cui vivranno i miei figli, o i miei nipoti, sarà ancora questo mondo? La sensazione di avere una data di scadenza, che si sia innescata, lentamente ma inesorabilmente, una bomba ad orologeria: è un tipo di timore diverso dalla grande paura dell’atomica di qualche decennio fa, è ancora limitato e strisciante, ma è con noi, è la qualità del tempo del nuovo secolo/Millennio.
Narrativamente, il cerchio della catastrofe che si va chiudendo permette che si inneschi il meccanismo a orologeria proprio del romanzo. Quanto rimane a Samuel da vivere? Quanto tempo avranno lui e Mia prima che li trovino? Morirà prima di portare a compimento il suo piano? Alla fine di Sirene, si accenna alla possibilità, per quanto crudele, di una cura per l’epidemia di cancro nero. La Storia e le storie vanno avanti.
A proposito di genere. Il tuo romanzo, formalmente, rientrerebbe nella definizione: eppure è stato accolto e salutato come “mainstream”. Io credo che sia importante. Oppure siamo di fronte a un ulteriore, felice, “ibrido”?
Io vedo Sirene come letteratura fantastica. Una volta, sarà stato dieci anni fa, in un seminario di sceneggiatura in Rai, ho assistito a una conferenza di Valerio Evangelisti, che raccontava come tutti i suoi primi romanzi fossero stati rifiutati da Urania perché non erano abbastanza fantascientifici, perché “non c’erano dentro le astronavi”. Ecco, in Sirene “non ci sono le astronavi”. Sempre Evangelisti, provocatoriamente, diceva che “per la letteratura senza etichette di genere l’unico argomento accettabile sono le corna”. Boutade a parte, e tenendo conto della possibile labilità della mia memoria nel raccontare questo lontano episodio, mi fa piacere che la letteratura senza etichette, oggi in Italia, si dimostri abbastanza ampia da accogliere Sirene. Aggiungo che mi piacerebbe dare al genere una connotazione descrittiva, e non prescrittiva o di valore; che è quello che si tende a fare oggi, con intenti opposti, di denigrazione o di esaltazione commerciale.
Una curiosità, infine. E’ un romanzo che assume un punto di vista molto maschile: non solo per il sesso della protagonista, ma per la tensione erotica nei confronti delle sirene medesime e per il ruolo che hanno i due personaggi femminili in carne ed ossa (una sublimata in un amore ideale, l’altra utilizzata cinicamente). E anche per la sensazione che al femminile venga attribuita la possibilità di salvezza finale. E’ solo una mia impressione?
Sirene è scritto in terza persona, ma è una terza persona appollaiata, come le presunte voci degli dèi nel Crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza di Jaynes, sulla spalla del protagonista maschile. Quasi una prima persona criptata. In quanto al femminile, non so se oggi abbia più possibilità di salvezza; ma oggi come ieri, in quasi tutto il mondo, ha molto poco da perdere.
bello, soprattutto quando dice “
Sì Sì è una scrittrice interessante, anche i suoi racconti “fantastici” sono da recuperare. La prossima intervistata, essendo io veggente dico Babsi… a proposito qualche commento sul suo non-romanzo? (Sulla cosa che non hai fatto non mi pronuncio…)
.. quanto mi è piaciuto questo libro, quanto mi è piaciuto…: da tempo non leggevo un testo che sapesse anche disturbarmi un po’… è stata una scoperta… fossi un fumettista, o magari un regista, poi, comprerei i diritti immediatamente…