Mi sono chiesta se parlarne o meno, e alla fine ho deciso di sì, senza indicare il nome della pagina e dell’influencer in questione. Perché quando si parla di odio on line sembra che il medesimo sia spuntato come un fungo, a opera esclusiva di avversari politici (che peraltro in passato hanno cavalcato eccome l’odio, con video e immagini di ogni sorta) e che sia il segno di questo tempo in particolare.
Niente affatto: i social vivono da sempre sull’odio, perché grazie all’odio fanno traffico e dunque, banalmente, soldi. Lo hanno incrementato sapientemente e sapendo benissimo che eravamo pronti a esprimerlo, almeno dagli anni Ottanta di Radio parolaccia e poi dalle risse al Costanzo Show dove i toni si alzavano fino a tacitare l’interlocutore, e infine dalla televisione della “gente comune”, dei partecipanti ai reality, dei tronisti di Maria De Filippi che sostituiscono il pubblico scampanellante e muto della Corrida che improvvisamente può prendere la parola e trasformarsi a sua volta in protagonista, e soprattutto insultare.
I social hanno incrementato il fenomeno, ma certo. In Morti di fama, con Giovanni Arduino, raccontammo per esempio cosa avvenne nel novembre 2012, quando una certa Flora vinse tre biglietti omaggio per partecipare al concerto degli One Direction, a New York. Alla notizia della vincita, i tweet furono di questo tenore: “Devi morire”. “Fai un aerosol con il gas”. “Lavati con la benzina e asciugati con l’accendino”. A gennaio 2013, una quattordicenne di Pescara viene prescelta da Justin Bieber per salire sul palco: anche qui, il massacro. “Ti vorrei buttare giù dalle scale”. “Ti prenderei a sprangate”. La ragazza disattiva i suoi account. “L’abbiamo fatta cancellare da Facebook, siamo grandi”, esultano. Quando la storia diviene pubblica, uno dei tweet sarà: “CHE BELLO REGA’ TUTTE IN CARCERE MINORILE INSIEME! DISTANZA, VINCIAMO ANCORA NOI. SOFFOCO”.
Ora, non è strano che oggi spunti fuori un insegnante che non sembra propriamente un maestro del pensiero e che diventa protagonista di una discussione politico-sociologica. Ma per darvi un’idea di quello che i social possono essere, specie se si decide di far diventare un inetto, e cinico, una star, vi racconto cosa mi è capitato.
Ogni tanto, come immagino avvenga a voi, mi capitano sotto gli occhi i famigerati reel di Facebook, ovvero video che non si sa perché l’algoritmo mi propone: da ultimo, scene realizzate con l’AI dove gattoni picchiano gattine che vengono salvate da coccodrilli o da castori, gente che si risveglia a Pompei nel giorno dell’eruzione, Gesù che fa miracoli vari. Non so cosa abbia fatto per dare di me quest’impressione all’algoritmo, a parte vivere con due gatti, ma pazienza.
Questa mattina mi capita invece il reel di una donna che insulta la madre di Martina Campanaro perché ha mangiato un hot dog. Basisco, mi ritornano in mente decenni di accuse alle madri vittime di sciagure atroci che non piangevano abbastanza in pubblico (è capitato per prima, pubblicamente e se ben ricordo, alla madre di Alfredino, troppo composta, dissero comari e comarelle (scusate, ma donne erano) per soffrire davvero. Mi chiedo se siamo impazziti, vado alla pagina in questione e scopro che ci sono altre signore, fra cui la famosa influencer porta-turisti, che inveiscono contro questa povera donna perché aveva mangiato, appunto, l’hot dog. Scopro anche che a innescare la faccenda è un venditore di hot-dog (ma va?) da 70.000 follower, che ha diffuso un video con la madre di Martina mentre mangiava il famigerato hot dog dal suo baracchino. Il seguito, fatto di scuse e rilanci e orrori vari, ve lo risparmio.
Mostri? Ma certissimo. Però mostri che sulla diceria e il pettegolezzo e la cattiveria, che esistevano pure prima, fanno contatti e dunque soldi. Perché quello che è accaduto in questi anni non è semplicemente che si è perso il filtro, e che ognuno scrive o filma pubblicamente ciò che prima veniva tenuto nascosto. Ma è che si rilancia, appunto, e che si tira fuori la parte peggiore di noi incitando gli altri a farlo, e a innalzare il livello dello scontro, si sarebbe detto un tempo.
Certo, lo so, esiste la parte luminosa, esistono persone che scrivono e raccontano cercando di fare l’opposto, e di tirar fuori la parte migliore di noi. Ma dal momento che siamo tutti oscuri, nel fondo, è facilissimo scivolare dall’altra parte. E allora, se si vuole fare qualcosa di serio sull’odio social, non si tratta di sorvegliare né di punire: si tratta di fare un lavoro gigantesco di confronto e di riflessione comune per fermare quel che avviene.
E, la butto là, magari smettendo anche di premiare gli e le influencer elevandoli a idoli e opinionisti in quanto influencer, e gloriarsene. Molti lo meritano, è verissimo: ma moltissimi altri sono solo un’immagine sullo schermo abbastanza graziosa o buffa oppure originale. Voglio dire che dovrebbe valere quello che hanno da dire e non lo status, o i follower, o i cuoricini. Perché il passo verso l’ombra è brevissimo, e non sappiamo quando e se verrà compiuto.
Anche da noi, ovviamente.