L'ARCHITETTO E I NON LUOGHI

E’ in tema con quanto
discusso fin qui: è un articolo, uscito su Epolis Milano, di Gianni
Biondillo
, che il medesimo mi ha inviato ieri. E che vi rigiro.

Conosco
una persona che per lavoro è sempre in viaggio. Conosce i bagni, i selfservice,
i benzinai, gli autogrill di mezza Italia. Ha fatto amicizia con molti degli
addetti, si salutano, chiacchierano. Eppure quei posti, secondo una vulgata un
po’ troppo semplicistica, non esistono. Sono “non luoghi”. Il primo a coniare
l’espressione fu un antropologo francese che parlando degli ipermercati, degli
aeroporti, dei luoghi di transito, diceva che fossero mancanti di senso, di
comunità. La cosa piacque e tutto un giornalismo pigro allargò la definizione
un po’ a sproposito. Una volta sentii dire che le periferie urbane, che Baggio,
Quarto Oggiaro, Gratosoglio, erano “non luoghi”. Quel giorno mi sono arrabbiato
per davvero. Ci sento una puzza di classismo esasperante in affermazioni così
trancianti, che riconoscono dignità e valore solo al centro storico, depurato e
musealizzato. Se le periferie sono “non luoghi” allora significa che sono
abitate da “non persone”. Lo trovo inaccettabile. Quanto razzismo c’è in chi
non c’è mai stato i quei quartieri e crede di poter pontificare sulle teste di
chi li abita? In molti giornalisti, politici, amministratori, tecnici? Quanta
miopia?

Chi lavora otto ore al giorno in un autogrill ha il
diritto a dare un senso, una qualità al suo posto di lavoro. Bisognerebbe
saperlo leggere un senso nello spazio che attraversiamo, un campetto, due panchine,
un muro di cemento, e che noi crediamo
sia solo un vuoto illogico. È da lì, da quei pezzi di città residuale che
bisognerebbe partire per una riqualificazione urbana. È fin troppo facile
pensare a musei o biblioteche. Ma una città non è fatta solo di musei. Abbiamo
permesso che progettisti inefficaci abbandonassero sul territorio ipermercati,
megamagazzini, centri commerciali enormi e mostruosi disinteressandocene perché
troppo presi a qualificare il solito, trito, centro storico. Ma la gente non vive
tutta dentro la cerchia dei navigli. La vera sfida sarebbe stata quella di
qualificare quei progetti, di renderli belli. Perché, in ogni caso, per quanto
insistiamo a chiamarli “non luoghi”, lì la gente ci passa la domenica
pomeriggio in famiglia. Qualcuno forse arriccia il naso, ma sono quelle le
nuove piazze urbane. Quelle che la politica e l’intellighenzija non hanno
saputo, voluto, regalare alla collettività come opere degne di resistere nel
tempo.

42 pensieri su “L'ARCHITETTO E I NON LUOGHI

  1. «Le periferie non sono dei “non luoghi”. Con l’espressione “non luogo” caratterizzo un certo tipo di spazio dentro la nostra società contemporanea. Il “luogo” per un antropologo è uno spazio nel quale tutto fa segno. O, più esattamente, è un luogo nel quale si può leggere attraverso l’organizzazione dello spazio tutta la struttura sociale…Oggi viviamo in un mondo nel quale lo spazio dei “non luoghi” si è di molto accresciuto. “Non luoghi” sono gli spazi della circolazione, del consumo, della comunicazione, eccetera. Sono spazi di solitudine…Prendiamo l’esempio di un supermercato. Ha tutti gli aspetti di un “non luogo”. Ma un supermercato può diventare anche un luogo di appuntamento per i giovani. Talvolta, anzi, è il solo “luogo”. Da questo punto di vista si può dire che le banlieues sono dei “non luoghi” per la gente che viene da fuori…Ma sono, viceversa , dei “luoghi” di vita per molte persone»
    M. AUGÉ, L’incendio di Parigi, “MicroMega” n. 7/2005
    saluti, paola

  2. Ciao Gianni, troppo interessante per non intervenire. Da una Non-architetto so che Augé definì non luoghi gli spazi (?) “in cui colui che attraversa non può leggere nulla né della sua identità (del suo rapporto con se stesso), né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori, della loro storia comune”. C’è una sorta di estraneità per quegli spazi, che immediatamente impedisce a chi li guarda di identificare se stesso, una porzione di sè, un “angolo caldo” dove fermarsi. Questo non ha nulla a che vedere con le nostre periferie, che di “calore umano” ne hanno in surplus, nè tantomeno con alcuni centri commerciali, che sono assai più terresti di piazza Duomo la domenica pomeriggio. A sproposito si prendono a prestito francesi definizioni che neanche dall’autore (Augé) sono state applicate tout court alle sue periferie. E’ l’occhio di chi guarda a dare significato e senso. Inutile dire che spesso il centro storico di Milano è assai più non-luogo dei cavalcavia della tangenziale est (su cui si affacciava la mia cameretta di adolescente, diventati poi il soggetto preferito del pittore Frangi, nipote di Testori), dicevo appunto l’occhio di chi guarda, a volte in senso stretto. Ma in quel cavalcavia (definito un non luogo anche da Augé) ho sempre visto un’estraneità periferica, e una familiarità esistenziale (a furia di guardarlo, immagino) come in altri non luoghi… tipo il giardino di Villa Invernizzi, pieno centro, con tanto di fenicotteri odoranti.
    Non arrabbiarti se ancora qualcuno considera le periferie con distratta e distaccata diffidenza, o peggio snobismo fuori moda… vedrai che quando andrà ad abitare in una post fabbrica ora super loft, le percepirà calorose e piene di ottime relazioni interpersonali. Buona giornata
    elisabetta (bucciarelli)

  3. Non faccio altre citazioni, vorei però attirare l’attenzione fra la diversità di concetto di spazio e il concetto di vuoto.
    Non si tratta dungue di definire un luogo ma di dare identità ad un vuoto per renderlo uno spazio.
    Molti invece non sono capaci di progettare in tre dimensioni e di conseguenza non sanno definire lo “spazio”.
    Questo perchè? Perchè la loro attenzione è altrove, non all’uomo che lì potrebbe “vivere” anche solo pochi momenti della sua esistenza, ma all’oggetto, che diventato scopo della progettazione e non elemento di una futura fruibilità.
    In parole estremamente semplici alcuni progettano un “luogo” e non tengono conto della sua vita futura.
    Come disegnare un vaso non tenendo conto che li dovrebbero essere messi dei fiori.

  4. A me è sempre sembrato che l’etichetta non-luoghi (anche nell’accezione originaria di Augé) sia uno strumento per occultare i problemi – e per evitare la fatica di leggere la realtà per quello che è. C’è gente, tantissima gente, che passa una parte consistente del suo tempo negli aeroporti, negli autogrill, nelle stazioni, sui treni, e una porzione probabilmente maggioritaria della popolazione di questo paese abita in periferia. Tutti questi luoghi hanno un senso, sono “spazi dove tutto fa segno”, dove si legge benissimo la struttura sociale, per quanto Augé possa dire il contrario. Rimaniamo ancorati all’idea che la città che crea identità possa essere solo quella storica, e così facendo lasciamo che tutto ciò che è fuori dal centro cresca solo seguendo logiche funzionaliste (e/o speculative). Chiamiamo questi spazi – le periferie – non luoghi, ma alla fine sono semplicementi luoghi di una gigantesca rimozione collettiva.

  5. D’accordo con Gianni, d’accordo con Paola ed Elisabetta: insopportabile la vulgata sui cosiddetti non-luoghi che banalizza le osservazioni dello stesso Augé, molto più interessanti e ricche di spunti (basta leggerlo direttamente…).
    La divisione fra luoghi e non luoghi non è – ovviamente – stabile e netta: accade infatti che monumenti e piazze, se visitati in serie e visti in cartolina, perdano unicità e spessore storico; accade d’altra parte che centri commerciali, fast food e siti Internet diventino luoghi d’incontro, condivisione, passione.
    Ma questo, a dispetto dei giornalisti “pigri”, come dice Gianni, mi pare ormai evidente.

  6. Ma, d’accordo nel non chiamare non-luoghi le periferie delle città (termine alquanto improprio), però il concetto di non-luogo viene da una riflessione sui luoghi cosiddetti di nomadismo, quali aeroporti, sale d’attesa, stazioni ferroviarie ecc. cioè luoghi di transito affollati, senza segni stabili di interazione tra le persone e tra le persone e il luogo. Brian Eno, che nel 1968 aveva elaborato teorie sulla musica per non-musicisti (cioè operatori e miscelatori di suoni, diciamo i pionieri dei moderni DJ), nel 1978 compose il mitico album Ambient Music 1: Music for airports, che ne costituisce un po’ il manifesto.

  7. Baldrus,
    giusto anche questo. E d’altra parte, dando per scontato e qui da tutti condiviso che la distinzione fra luogo e non-luogo è funzionale e mai netta, a volte parlare in termini di non-luogo può essere utile. Quando ci vuole ci vuole, insomma.
    🙂
    Mi permetto di segnalare una cosa che avevo scritto sui non-luoghi delle vacanze, che c’entra anche con la discussione dei giorni scorsi sulla cultura di massa.
    GolemIndispensabile, n.8, agosto 2003.

  8. be’, il carrefour di limbiate, ad esempio, non è affatto male, e architettonicamente dà dei punti a un bel po’ di blasonate schifezze (sembra un po’ una schiena di dinosauro che emerge dalla brughiera. e tra l’altro nei bagni, che sono puliti, hanno i fasciatoi per cambiare i pupi. roba da danimarca…)

  9. Non luoghi è sempre stata una definizione antipatica, concordo con Gianni (sarà che veniamo dalle stesse periferie e la definizione aleatoria di non persone ci fa incazzare allo stesso modo 🙂
    Peraltro, soprattutto in alcuni casi, diciamo per esempio i centri commerciali, l’affermazione che siano luoghi privi di senso è veramente lontana da una lettura reale della questione.
    I centri commerciali, cosi’ come gli autogrill, per quanto mi riguarda (e in questo mi rifaccio a tutto il lavoro fatto come chainworkers sono vere e proprie cattedrali ideologiche, svuotano di senso chi le attraversa, chi ci lavora, plasmano la mente con un senso fortemente definito. Mi pare quindi che siano tutt’altro che non luoghi.
    In questa accezione le periferie sono più libere. Anch’esse tutt’altro che non luoghi, sono forse uno dei punti di partenza della possibilità di strutturare una comunicazione sociale diversa da quella a cui la nostra realtà ci ha abituato.
    Sono sintetico, d’altronde lo spazio di un commento è quello che è sia sulla pagina che nella mia testa :), però la contraddizione tra la definizione “non luogo” e la reale densità di messaggi dei luoghi definiti come tali è fin troppo evidente.

  10. Rispetto alla visione antropologica e alla definizione-negazione di Marc Augé (“NON luoghi”) mi sembrano più chiare e interessanti alcune riflessioni dell’architetto olandese Rem Koolhaas (http://it.wikipedia.org/wiki/Rem_Koolhaas) sulle caratteristiche dei luoghi della post-modernità. Koolhaas parla di “junk space” e “generic city”: la città generica, estesa suburbia che in meno di mezzo secolo ha ricoperto vastissime superfici del pianeta, è la città senza storia “superficial like a film studio”, caratterizzata dalla ripetizione, dall’assenza di centro e di progetto, (nel senso di progetto urbano complessivo, cosa che, per quanto criticabile, sottostava in qualche modo al disegno delle periferie romane di cui scriveva Pasolini). In essa proliferano i “junkspace”, sciatte e fragili architetture che strutturano gli orizzonti in cui ormai siamo tutti abituati a muoverci (i profili ottusi dei capannoni industriali, le “torri” dei centri commerciali, le discoteche in stile egizio o atzeco, gli acquapark… talvolta appare persino qualche allevamento di struzzi, io ne ho visti fra Treviso e Padova). “Junkspace does not pretend to create perfection, only interest”. Per Koolhaas la generic city è un fenomeno pervasivo e può rivelarsi all’improvviso anche nel centro delle città storiche (ad es. a Venezia fra Rialto e San Marco, sempre più simili alla loro copia Venice-Las Vegas).
    Insomma essa è il LUOGO, per quanto inospitale e vuota (e a detta di molti assolutamente insostenibile) e noi siamo i suoi abitanti (anche Bordone).

  11. “I centri commerciali, cosi’ come gli autogrill (…) svuotano di senso chi le attraversa, chi ci lavora, plasmano la mente con un senso fortemente definito.”
    cioè, preferisci le autostrade senza autogrill? e perché non fare un po’ di psicosociopolitica anche delle fermate del tram, degli orinatoi e delle pizzerie napoletane?
    “svuotano di senso” poi… qualsiasi luogo organizzato funziona come una macchina ambientale, cioè come una macchina di senso, anche casa in cui abiti, e non esistono sensi depurati. magari non ti va quel senso lì, magari preferisci comprare dal pizzicagnolo sotto casa – al triplo del prezzo – o fermarti in corsia di emergenza a mangiare il panino nel cartoccio, è legittimo, del resto ognuno ha le sue teorie. quindi sarebbe da dimostrare che il senso perduto nel centro commerciale, cioè il senso del pizzicagnolo, sia migliore. dal punto di vista del prezzo ne dubito, dal punto di vista di chi ci lavora pure (le catene applicano contratti collettivi, il mio pizzicagnolo se può fa lavorare in nero il garzone per 12 ore sabato compreso).

  12. Molto d’accordo con chiara. E tra l’altro koolhaas è uno che gli spazi e i luoghi li progetta e li fa. E questa consapevolezza pratica lo rende più antropologo e sociologo di molti antropologi e sociologi.
    Come poi suggerisce il bell’articolo di gianni bondillo, sarebbe il caso di insistere sul modo in cui le pratiche legate al progetto incontrano e sono capaci di accogliere le pratiche d’uso. Perché altrettanta consapevolezza pratica dei luoghi ce l’hanno anche gli utilizzatori e chi ci lavora.

  13. Io propenderei per il non luogo a procedere nei confronti degli estensori della definizione non luogo… personalmente li assolvo da qualunque forma di stato d’animo snobistico. Scrivo con ragione di causa in quanto in passato ho lavorato in uno di questi non luoghi, anzi in più d’uno, quindi la mia opinione è quanto mai fattiva, come del resto quella di chi la pensa diversamente. Non voglio opinare sull’aspetto architettonico, i centri commerciali di ultima generazione promanano del “fascino plastilino” anche a chilometri di distanza. Il problema è il viverci all’interno, l’aria in certi giorni è irrespirabile, non riesci neanche ad alzare lo sguardo, ressa ovunque. Il vociare di migliaia di persone è impressionante, ti rendi conto nel momento in cui alla sera esci per tornartene a casa, sembra quasi di rinascere dentro un nuovo apparato uditivo. Vogliamo parlare degli orari? A me capitava di finire alle 23 e riprendere alle 8 l’indomani mattina, quello che desideravamo noi tutti era di andarcene al più presto da quel non luogo di lavoro. Non si può nemmeno trascurare il traffico pazzesco che generano questi posti, inquinamento, incidenti, risse per disputarsi un posto auto il Sabato pomeriggio. Ultimamente crescono come funghi, calpestando il buonsenso di qualunque piano regolatore. Comunque sono luoghi di lavoro e come tali vanno rispettati anche se le condizioni di lavoro non sono ottimali, la dignità dei lavoratori che vi operano all’interno è sacra. Definirli non luoghi credo che non offenda nessuno, forse le offese sono semplicemente da circoscriversi alla busta paga.

  14. Non luogo mi sembra solo una definizione di comodo per descrivere una prassi d’uso.
    Del resto @paola ha meritoriamente riportato la definizione di Augé. Visto che non l’avete letta ve ne ricopio un frammento anch’io il “luogo”:
    “è un luogo nel quale si può leggere attraverso l’organizzazione dello spazio TUTTA la struttura sociale”
    Dai “non luoghi” Augé esclude le periferie, di cui dice:
    “Le periferie NON sono dei “non luoghi”.”
    Tutti gli altri luoghi da voi citati sono luoghi in cui non si può leggere TUTTA l’organizzazione sociale. Come in effetti un autogrill, che permetterà di leggere PARTI dell’organizzazione sociale, ma non TUTTA l’organizzazione sociale.
    Di cosa dibattete dunque?
    Non la capisco questa lettura pregiudizialmente sentimentale e affettiva, mentre Augé definisce invece per distinguere e analizzare.
    Scusate, eh, soprattutto tu, GB, ma il minestrone è buono solo di verdure, non di idee.

  15. L’intervento di Biondillo e Baldrus e ovviamente di Claudio C. mi hanno ricordato delle osservazioni dell’architetto e sociologo Manuel Castells sull’urbanistica che spero possano arricchire la conversazione.
    Castells come Baldrus individua negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, ma anche nelle sale d’attesa, nei musei e nei centri congressi dei non luoghi o luoghi di nomadismo (Baldrus), che chiama “spazio dei flussi” (e vabbè ognuno li nomina a modo suo). L’aeroporto di Bofil a Barcellona, la stazione di Moneo a Madrid, il Museo Guggenheim di Frank Gehry a Bilbao, sono per Castells i simboli architettonici di questo spazio dei flussi, (io,da romano, aggiungerei la nuova sistemazione dell’Ara Pacis). Nuove cattedrali in cui il pellegrino cerca il senso del proprio vagare e Bordone una serie di indicazioni non richieste e petulanti che l’ immalinconisce. Nello spazio dei flussi si esprime la frattura fra gli edifici e la città nel suo complesso. La mancata integrazione tra questa architettura e lo spazio pubblico, rispecchia quella tra la marcatura simbolica e l’anonimato metropolitano. Lo spazio pubblico, una piazza, un parco, un viale, un caffè all’aperto …. è il luogo dell’ interscambio sociale, l’elemento di connessione delle esperienze, è la sintesi fra lo spazio fisico e quello dei flussi. E secondo Castells “La progressiva dissoluzione dello spazio pubblico sotto la doppia pressione della privatizzazione della città e dell’affermarsi dello spazio dei flussi è un paradosso storico. Questa lotta e il suo esito sono politica, nel senso etimologico del termine. La lotta della polis per creare la città come luogo denso di significati”.
    Personalmente credo che in alcuni casi più fortunati un centro commerciale che ricrei un minimo di spazi pubblici (e ricordo Bordone mentre fa lo spuntino e poi anche un po’ di salotto con la coppia sui divani/panchine) possa rispondere a quel bisogno di attenzione che l’urbanistica e l’arredamento urbano dovrebbero prestare all’uomo e alle relazioni umane piuttosto che al “palazzinaro”, ma credo anche, con Castells, che convenga sempre tenere gli occhi aperti per non trovarsi il centro commerciale o l’aeroporto come uniche possibilità.

  16. Scusate sono tornato solo ora e casco dal sonno (e domattina altra levataccia).
    Me ne dispiaccio perché mi pare proprio una bella discussione. Grazie a tutti.
    Solo una cosa, Alcor: io non ho MAI detto che sia Augè (studioso serissimo) a usare a sproposito la formula, facci caso, ma i suoi pigri epigoni.
    In più reputo che comunque Augè, per quanto abbia aperto con la sua intuizione nominalista una discussione davvero proficua, sia fin troppo radicale nella suddivisione (quanti momenti della città storica possono, in fondo, NON riproporre l’intera organizzazione sociale eppure sono, allo stesso tempo “luoghi”?).
    Più densa la distinzione (molto da architetto, me ne rendo conto) fra “spazio” e “vuoto”.
    Ma perdonate, non riesco ad andare oltre, buonanotte.

  17. @GB
    Momenti, appunto, non “luoghi”.
    Credo che abbia ragione Chiara, per il discorso che si è intrecciato qui, dall’ottica che mi pare prevalente, e cioè quella di comprendere il nostro tempo a partire dal nostro essere qui ora, e allora sì che anche la posa affettiva mi va bene, in un certo senso, il discorso di Koohlhaas è più interessante.
    Quella idea di junk space e generic city applicata da Chiara a Venezia poi, mi convince molto. Il junk space ha eroso i margini del luogo, rendendolo poroso e permeabile a qualcosa che prima non c’era.

  18. No, no, Alcor. proprio “luoghi” dove l’intera organizzazione sociale è negata! Eppure sono “luoghi”, anche per il carico di memoria che si portano appresso, non solo per la precisa soluzione spaziale.
    Ecco, appunto, perché reputo che il discorso fatto da alcuni teorici ed architetti (vedi Koohlaas) sia un miglior approfondimento del discorso.
    Ri-esco (e ritorno tardi anche stasera. Che vita infame!)

  19. Intervengo su questo interessante argomento . Su questioni come queste mi sembra quantomeno riduttivo che ci si riduca a questionare in modo più o meno storiografico su cosa il tale o il talaltro architetto abbia voluto dire con una definizione. Il fatto poi che si parta da una definizione di “non luogo” di tipo profondamente umano, cioè che coinvolge a fondo la vita interiore di una singola persona, rende la decisione sulla adeguatezza della definizione di “non luogo” rispetto da determinate situazioni (che siano un centro commerciale, o la periferia, o quant’altro), un vicolo cieco.
    Perchè, se ci pensate, dare una definizione di non luogo che sia in qualunque modo legata alla non interazione con la vita interiore degli uomini che lo frequntano
    equivale a dire che non esistono non luoghi, e la suddetta definizione diventa un puro esercizio logico. Perchè di ogni situazione, che sia sociale o puramente geografica, sono gli uomini la sola ed unica misura e la sola ragione d’essere, nel loro relazionarsi con essa, e nel cambiare in relazione ad essa. Gli uomini che frequetano una certa situazione, anche solo nel pensarla, la rendono un luogo. Ed infatti siete arrivati puntualmente a dire che sia la periferia che i centri commerciali non sono dei non luoghi.
    Perchè non esistono non luoghi in senso assoluto, aggiungo io.
    E’ facilissimo per un non luogo diventare un luogo: è sufficiente che un uomo ci passi.

  20. Seguendo gli approfondimenti di Augé sui non luoghi, si arriva a Disneyland e ai tanto citati centri commerciali. Sono quelli per lui (e anche per me) i “nuovi” non luoghi non perchè “vuoti” quanto piuttosto perchè “troppo pieni”, saturi di significati. Impossibili da reinventare, preordinati, prefigurati, già pronti all’uso (spendere, divertirsi in quel modo lì). In questo senso penso agli epigoni di MA, che decisamente mal interpretano il maestro. Però mi viene da aggiungere, non sarà che anche le nostre periferie sono ormai così “piene” di significati (e vita e sangue e anima) che l’osservatore “estraneo” (definiamolo così) non riesce ad aggiungere nulla che già non sia stato scritto? Dunque non può che considerare quegli “spazi” di pieno alieni e impossibili da penetrare se non con le classiche chiavi di lettura? Non so. Personalmente la percezione di non luogo, che mi rimanda più al vuoto, freddo ed estraneo, è decisamente trasversale. E mi riesce assai difficile ridefinire con i sensi e la pura speculazione teorica alcuni “luoghi”, per questo ritengo sia necessaria una riqualificazione, al limite anche ricostruzione, eliminando fisicamente alcuni luoghi (sia della periferia che del centro), a favore di un disegno differente della città che abbia un pensiero forte, persino antagonista, alla base.
    elisabetta

  21. Mi scusino gli architetti, ma credo che ci sia un altro aspetto da prendere in considerazione. Gianni l’ha citato parlando delle PERSONE che abitano nelle periferie. Mi pare che la discussione si sia sviluppata trascurando questo aspetto, che invece a me pare fondamentale. Le persone non vivono di concetti astratti. Le astrazioni possono essere utili, ma solo a patto che poi vengano calate nel concreto.
    Io(che non sono un architetto) sono originario di Busto Arsizio. Ci torno sì e no una volta all’anno e ogni volta la trovo diversa. Non mi ci ritrovo più. Mi sembra brutta. Mi sembra senza anima. In certe zone mi sembra un non luogo. Ma è solo una mia sensazione, che deriva semplicemente dal fatto che sono passati gli anni e Busto non è più quella che conoscevo. Chi ci abita adesso la vede sicuramente in tutt’altro modo. Lì si innamorerà, avrà gioie e delusioni, eccetera eccetera, e quell’architettura (o meglio: quell’edilizia) che a me dà una vaga sensazione repulsiva sarà associata al senso della loro vita.
    Vorrei dire agli architetti, agli artisti in genere (e in primo luogo agli scrittori): sì, va bene, se possiamo circondarci di cose belle, tanto meglio; ma non sopravvalutiamoci. L’umanità viene prima dell’arte. Nel trecento a Firenze l’arte era dappertutto, ma le strade erano piene di sterco e la gente moriva di peste.

  22. Ho l’impressione che il concetto di (non) luogo abbia in qualche modo tristemente soverchiato la dimensione umana che si instaura al suo interno. Personalmente non ho da vendere citazioni, sfoglio solo qualche idea che custodisco da sempre e che mi porta a guardare con una certa apprensione la faccia che stanno prendendo le nascenti architetture. Mi fanno paura certe forme di palazzi, così amene rispetto all’ambiente in cui sono inserite. Colgo la fruttifera rappresentazione turistica di tutto questo, pensiamo a Valencia, quindi a Calatrava, ma temo che tutto questo avveniristico design sia un semplice fuoco d’artificio o d’artifizio fine a se stesso, magari ideale per le foto di un calendario. Confido in un’architettura che sposi concetti più etici e soprattutto meno invasivi a livello paesaggistico. A volte temo che siano i ( non) luoghi ad abitare noi e non viceversa. La patente di (non) luogo è data, a mio parere, dalle stanziali condizioni offerte alle persone che agiscono all’interno, lo Zen come si può altrimenti definire? Le grigie torri di Gratosoglio a Milano? Non capisco perché la memoria raramente si rappresenta in spazi liberi, ma debba invece spesso essere accompagnata da qualche espressione edilizia….

  23. ogni tempo (e ogni generazione) lascia la sua impronta di sè sullo spazio. La Valencia di Calatrava sarà forse troppo turistica però l’altro lato della città è molto deprimente. Si sarebbero dovuti impiegare i fondi per abbellire quella parte e solo quella?
    in fondo la nuova città vuole proiettarsi in un futuro con la speranza di far affluire fondi che magari miglioraranno anche la parte vecchia.

  24. Si rischia di andare fuoti tema ma vale la pena di mettere a fuoco: bello e brutto. Il non luogo non è per forza brutto. La sua desolazione (penso sempre al cavalcavia della tangenziale est) può rimandare comunque a un’estetica (vaga o meno). Vuoto, desolato, insignificante, troppo sgnificante, non sono sinonimi di brutto. Ma se per il bello, diciamo almeno, “decente”, esistono sfumature di conversazione e pensiero, per il brutto ( penso alle Case Bianche di Via Salomone a Milano, per es) non ci sono accettabili giustificazioni. Certa edilizia, soprattutto “periferica” ha plasmato parte dell’umanità rendendola quello che è. Poi, per qualcuno, è stata la grande molla per “fare”, scrivere, musicare… penso alla rabbia, al senso di rivalsa e a certa fertilità di pensiero. Ma sono eccezioni e anche “luoghi” comuni. Quello che rimane nelle nostre periferie sono gli obelischi al brutto, all’orrido, all’ordinario… privo sicuramente di qualsiasi possibilità di “elevare” spirito e coscienze (L’aula bunker dove mettere i detenuti di fianco alle Case Bianche è stato un vero intervento di riqualificazione del territorio…). E non è per sopravvalutare nessuno che andrebbero abbattute porzioni sostanziose di città.
    elisabetta

  25. Buongiorno a tutti!
    sono capitata qui per caso, vagando nella rete alla ricerca di spunti sul concetto di non-luogo.
    Ho deciso che sarà l’argomento della mia tesi di laurea. Ho già letto un paio di libri di Augé. Sto cercando altri materiali, libri, spunti… anche sul rapporto tra non-luogo e viaggio, non-luogo e persone, non-luogo e memeoria.
    Sarei veramente grata a chiunque potesse fornirmi delle dritte da cui poter partire per la mia ricerca.
    Grazie a tutti. Buona giornata Paola

  26. Bellissimo pezzo. Soprattutto la parte sul classismo di fondo di chi “produce cultura”, in questo Paese come un po’ ovunque – per la stragrande (stragrandissima) maggioranza, gente di solida, direi irrecuperabile formazione borghese. Che nelle periferie non c’ha mai messo piede per davvero.
    Marco

  27. SANGUINETI E’ CON NOI.Capita molto raramente di ascoltare con gioia un politico intervistato in televisione. Con gioia si. E scrivo perché mi è successo proprio adesso e vorrei condividere questo sentimento con tutti voi. Sanguineti da Fazio, RAI 3, 20:30. Sanguineti politico poeta, Fazio che per una volta non chiede cos’ha nel frigo, né quali cravatte preferisce, ma segue meglio le domande preparate dai collaboratori del programma (tra i quali credo anche Michele Serra).
    Collaboratori/autori che sembrano molto attenti a questo blog.
    Sanguineti parte proprio dai non luoghi, lo sconfinamento centro-periferia, l’inappartenenza dell’uomo ai luoghi della città ormai tutta privatizzata a costi esorbitanti, la conseguente scomparsa dello spazio pubblico. Cita W. Benjamin e Adorno, è pessimista perché vede l’uomo precipitarsi verso l’autodistruzione e proprio per questo si adopera per favorire l’ottimismo, perché comunque non intende arrendersi e tenta di salvarsi/re. Parla del ruolo degli intellettuali, cita Gramsci, lamenta la scomparsa della coscienza di classe, ora che la Repubblica non è più basata sul lavoro, quindi sul lavoratore, ma sul consumatore. Ma è anche edonista, rivendica la scelta di desiderare e fruire delle cose buone possibili in questo male montante, perché negarsele? Cita B.Brecht, e vuole essere gentile con i suoi compagni ma non con gli avversari. Parla della fedeltà del testo tradotto e definisce il traduttore, nuovo autore che deve usare la dissimulazione onesta. Chiude con Cechov e la possibilità per i comici e non per i reality di mostrare la realtà e la tragedia.
    Insomma se avete capito qualcosa complimenti, ho scritto in trance. Se ne fossi capace inserirei il link per farvelo vedere. Sono sicuro che interessa tutti quelli che hanno partecipato a questa settimana di Lipperatura (e di Carmilla) e spero che qualcuno voglia/riesca a linkare il video da qualche parte.

  28. il dibattito è bello, il tema anche, biondillo tra l’altro ha partecipato di recente a un libro collettivo sulle periferie (laterza), qualcuno lo ha letto? ci sono cose interessanti scritte non da sociologi ma da scrittori, sulle periferie, luoghi appunto, e immagini di artisti.

  29. Il classismo nella maggior parte dei casi – non lo fanno i concetti ma le intenzioni. Quando ci si è occupati dei non luoghi, il pensiero non era per il centro storico musealmente protetto ora dai ricchi, ma al centro storico soggettivamente determinato dalla vita di tutti – poveri in primis, nei tempi di un’architettura ancora non industrialmente determinata. Un areoporto, è una croce per l’assenza di richiami soggettivi non tanto per il ricco che ci transita e che di richiami soggettivi ne ha in abbondanza nella sua magione, ma per quello che ci fa lavora e che fa fatica a trovare la sua singolarità rispecchiata, in un modo di farcire un panino per esempio, o nella camicia che si è messo quella mattina.

  30. Pensavo che l’articolo di gianni, sin dall’inizio, invita a considerare il senso dei luoghi in base alla capacità di avvicinarli e di viverli con lo sguardo/corpo dello straniero.
    Contrariamente all’estraneo, all’alienato o al forestiero, lo straniero è coinvolto nelle pratiche di quel luogo, è una figura mobile, curiosa, che cerca la relazione e l’incontro e provoca la curiosità/diffidenza/ospitalità di chi abita già lì, mettendo in crisi il dato per scontato. Simmel e Schutz hanno scritto pagine fondamentali a riguardo, ma anche i film western rendono conto abbastanza bene di questi meccanismi: non penso soltanto all’immagine del pistolero ramingo che entra nel saloon suscitando vari commenti e reazioni, ma anche ad ‘oggetti stranieri’, come la ferrovia (in “c’era una volta il west”), che nell’ottocento rimette completamente in discussione la geografia del territorio americano. La ferrovia potrebbe apparire uno dei tanti nonluoghi (come le autostrade di augé!) ma sergio leone ce la racconta nel suo farsi, chiamando in causa gli interessi in gioco, andando a guardare il lavoro degli operai, la fatica di quelle trasformazioni. Altro che nonluogo!
    Tutto dipende insomma dal modo in cui questi fenomeni vengono interrogati, e le domande dello straniero hanno il merito di mettere in discussione proprio l’essenza di “luogo”, qualsiasi luogo, come entità stabile, data, con una precisa tradizione e precisi confini, tanto che la sua esistenza è tale non in base ad alcuni requisiti da soddisfare, ma come prodotto parziale di quello che ci si fa e delle tracce che si porta dietro. E sia a disneyland come nel piccolo borgo antico, in misura diversa e scala diversa, ci troviamo sempre a sperimentare il fatto di essere stranieri, di farci domande impertinenti, di essere provocati da altri stranieri, di attraversare confini come l’amico di cui ci racconta gianni, che fa amicizia negli autogrill. Se proprio, mi verrebbe da dire che i nonluoghi sono i luoghi di chi è sempre in viaggio. Ma chi non lo è? E allora mi pare che questa etichetta non aggiunga molto alla comprensione.

  31. caro bg, la tua veemenza è mal riposta: si vede che sei allergico alla politica ma è un problema tuo.
    Io non ho scritto, né mai scriverò, di volere un ritorno ad un aulica era in cui tutto era più a misura d’uomo e in cui i pizzicagnoli vivevano al posto degli ipermercati.
    Non essere nostalgici però non significa essere ciechi al significato sociale (e non sociologico, mi spiace) e politico dei luoghi, delle architetture e via dicendo.
    Se tu sei un architetto che ama le grandi commesse, non te la prendere con me: certamente esistono luoghi di flusso di massa ad alto contenuto ideologico (è vero ogni luogo ha un contenuto ideologico come scrivi, ma esiste una gradazione di questa caratteristica e anche della volontà che vi si esprime) anche molto belli e impressionanti (la Fiera di Rho ad esempio), ma ciò non toglie che pur ammirandoli siano per me dei luoghi sulla cui influenza implicita sia interessante ragionare.
    Del resto è stato così per le chiese di tutti i tempi… non per questo non apprezzo il Duomo 🙂

  32. aggiungo che non esistono non-luoghi, ma solo luoghi dove non sei nato o che per altri motivi ti sono estranei: anche un muretto può essere (e di fatto è) portatore di un luogo.

  33. Personalmente sono molto affascinato dagli scritti di Marc Augè sui NonLuoghi.. nonostante siano ormai datati (considerando soprattutto la velocità con cui si evolvono tali “processi”) li trovo ancora molto attuali e interessanti..
    Proprio in questo periodo ho organizzato la rassegna cinematografica NonLuoghi. Questa non vuole avere la pretesa di risolvere ed esaurire questioni e interrogativi su un quadro indubbiamente complesso e in continuo mutamento, ma ha l’intenzione di riflettere sui cambiamenti della città e del nostro modo di viverla, anche attraverso l’opera cinematografica.
    L’articolo e il programma della rassegna su farch.it (blog degli studenti della Facoltà di Architettura di Siracusa)

  34. Sto facendo una piccola ricerca sulla botanica dei non luoghi.
    Ho letto i vostri commenti sull’articolo di Biondillo.
    Mi piacerebbe sapere se qualcuno, quando va in questi ‘non luoghi’,guarda anche come è sistemato lo spazio esterno di parcheggio e ricevimento delle persone che,all’inteno dei non luoghi, è il non luogo per eccellenza.

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