Ieri ho postato su Facebook una domanda. Mi chiedevo il motivo per cui tanti romanzi si occupassero, recentemente, di adolescenza. Non che sia una novità, com’è ovvio: la questione del cambiamento e della trasformazione dell’individuo è sempre stata cara ai narratori.
Ma c’è qualcosa, mi sembra, di diverso: in parte c’è la solita questione del “red ocean”. Ovvero, laddove un libro sull’adolescenza è divenuto best-seller, tanto vale provarci ancora e ancora. Era avvenuto dopo Tre metri sopra il cielo, avviene tuttora, in ambito fantastico-romance, dopo Twilight.
Ma qui stiamo parlando di mainstream: dunque, il filone “racconto com’ero” si apre di nuovo dopo La solitudine dei numeri primi. Inutile fare l’elenco dei titoli attuali perchè occuperebbe troppo spazio: non c’è quasi esordio, al momento, che non riguardi tormenti e ferocia dell’adolescente, maschio o femmina che sia.
Una delle risposte possibili – oltre a quella modaiola – riguarda l’ossessione sociale e culturale per la figura del giovane: ma potrebbe non essere l’unica causa. La discussione è comunque tuttora in corso. Ne estraggo, accorpandoli, due commenti di Gilda Policastro, e rilancio qui. Scrive Gilda:
“Da sempre il romanzo è narrazione di una Bildung, e i primi germi della formazione sono lì, nell’adolescenza. siccome gli editori hanno spiegato a intere generazioni di aspiranti scrittori che i lettori vogliono leggere STORIE e ROMANZI, quello si sono messi a fare, i nostri scriventi, storie e romanzi, meglio se di Bildung, meglio ancora se sull’ adolescenza, con esiti alterni (da Melissa P. a Chiara Valerio). attenzione a chiamarli indistintamente scrittori, però. l’ultimo serio libro di Bildung (al contrario) che si sia letto in Italia è Scuola di Nudo di Walter Siti, che non ha scalato le classifiche, non parlava di adolescenza, ma certamente rimarrà per decenni ancora un esempio di scrittura e di stile, e Giordano a distanza di un annetto già è tornato a fare il fisico, mi pare (buon per lui e per noi).
In Italia almeno sta prevalendo la tendenza perniciosa a considerare il romanzo in quanto tale Opera Letteraria. caratteristiche del romanzo di successo: avere almeno 300 pp, raccontare una storia, meglio se aristotelicamente coerente -inizio, mezzo, fine-, avere uno stile accattivante, possibilmente scorrevole e comprensibile (il romanzo di successo deve potersi leggere senza il vocabolario accanto, cosa fino agli Sessanta impossibile, non dico per Manganelli, ma anche, ad esempio, per Bianciardi). Questo tipo di ricerca hanno condotto gli editori negli ultimi decenni, col risultato di ammazzare la narrazione, soprattutto quella breve, così feconda in Italia, dalle novelle di Boccaccio ai racconti dei cosiddetti cannibali anni Novanta. Manganelli ci aveva insegnato invano a preferire il narratore al romanziere, e a comprendere che in nessun caso, ma meno che mai nel moderno, la narrazione può coincidere con la Visione Del Mondo, ma solo offrire una parziale, momentanea immersione nelle sue zone più buie e non immediatamente visibili (mentre un romanzo su due adolescenti a Piombino, l’ultimo degli allievi di una scuola di scrittura è in grado di scriverlo, così). Manganelli, che esordì a 40 anni, difatti. Oggi si vuole (gli editori, il pubblico) lo scrittor giovane che parli di giovani, e i migliori narratori o prosatori che abbiamo sono confinati in collane di nicchia che non arrivano in libreria (penso all’ottimo Bortolotti, ad esempio). E il dramma non è solo che chi scala le classifiche si affermi a danno di chi non verrà mai conosciuto nemmeno dai posteri, ma che queste tendenze si affermino non solo editorialmente e dunque sul mercato, ma che orientino e condizionino la scrittura. Altro che Saviano e il neoneorealismo: qui stanno tornando le Liale”.
Trovo condivisibili – è la prima volta – entrambi i commenti citati di Policastro, che di solito non amo per niente. Credo che si soffra anche di una difficoltà ad uscire da se – ecco la difficoltà di una generazione, di cui gli scrittori sono l’avamposto approdato nell’editoria. Stanno tutti a parlà della genesi dell’ombelico proprio non solo perchè la storicizzazione dell’ombelichi (giovane ombelico borghese milanese, vs piccola ombelica disinibita de cartanissetta e via così) vende per certo, perchè vendono le vite e non le filosofie, ma proprio perchè di scrivere romanzi strutturati, romanzi metastorici – un ci è più nessuno che manco di prova. Per me questo è un dolore. Per me – nella fortuna di trovare due romanzi ben scritti – quello grandioso e quello gradevole si distinguono per la presenza di una retrostante Filosofia, visione del mondo.
Ah ma sono anni di scarse palle teoriche ed etiche, si vola basso e si perdono le elezioni.
Secondo voi c’entra, e in che misura, anche il voler intercettare un pubblico di adolescenti/giovani lettori che in genere non leggono? Voglio dire, non solo nei casi conclamati alla Moccia: per esempio, la pubblicazione e grande visibilità data al romanzo di Giordano, era che sappiate anche con lo scopo di accalappiare i ggiovani non-leggenti?
La mia testimonianza: invio quattro racconti a vari editori. Una delle risposte: “Gentile signor ***, ho letti i racconti che ha mandato a ***: belli! Originali, ben scritti, interessanti. Un romanzo l’ha scritto? Intendo per adulti, come i racconti.”
Invio vari romanzi.
Risposta: “Caro ***,
sono riuscita a leggere altre sue cose ma – lo ammetto – ancora non tutte! Mi ha fatto molto ridere (perché io amo molto le visioni comico-grottesche del mondo) il racconto sui Pink Floyd anche perché non solo sono mezza veneziana ma c’ero anch’io ai tempi del fantascientifico concerto e conosco a memoria la canzone dei Pitura Freska. Il pezzo (surreale) sulla NIE, sempre dal mio punto di vista, è esilarante. A presto.”
Dopo altre settimane: “lo ammetto: mi sto affezionando a lei. Intanto, buon anno! Poi, per quel che riguarda le novità, non saprei da che parte cominciare. Ho fatto fatica a districarmi tra tutti i testi che mi ha mandato. Comunque, in parte li ho letti, in parte li ho fatti leggere e il giudizio è unanime (sempre lo stesso): lei scrive benissimo e la sua scrittura è molto affascinante e originale.”
Infine: “Non ce l’ha un progetto più semplice con una trama che si possa seguire un po’ meglio?”
Insomma, o perdo complessità, o mi attacco al tram.
Come sono d’accordo! Poco tempo fa, un mio amico mi raccontava di una trasmissione in cui veniva fatta a un critico (non so che trasmissione, non so quale critico, purtroppo) la fatidica domanda: “Qual’è stato il caso letterario dell’anno?”. Ha risposto che ricordava moltissimi casi editoriali, ma di casi letterari nemmeno l’ombra.
Io tenderei a sottolineare la giovane età degli scrittori emergenti e non.
Più o meno attorno ai 30.
Si vede che attorno ai 30 si tende a credere che i nostri 15 anni siano un periodo impareggiabile, pieno di avventure fichissime, e di gente strana degna di un romanzo.
Ma si vede soprattutto che sono le case editrici a spremere gli autori verso quell’età.
“Sai (tu giovane scrittore), questa storia della giovane studentessa universitaria che abortisce è senz’altro bella, ma se lei avesse 10 anni meno? Ti si aprirebbe un mondo!”.
concordo pienamente con il secondo paragrafo, condizione costante maggioritaria prosaica narrazione stereotipata – adolescenziale – di formazione!!!!!!!!!!!!!!! – magari con qualche problema naturalmente probabilmente forse mai magari provato sulla pelle tranne che su wikipedia, neologismi/che??, un linguaggio “adeguato” per non sconvolgere menti addestrate al qualunquismo affettato oppure raffinatissime poetiche controverse addirittura!! che si aggrappano comunque agli slogan ancora, un certo adeguatissimo svolgimento da letture dimenticabili in due minuti in piedi sull’autobus senza scossoni con un occhio sul libro e l’altro sulla destinazione, le punte che spuntano dai ghiacciai vengono regolarmente piallate con i flessibili della Macchina della Società, nessuno o pochi diversificano, la vendita è un obbligo, il primo, impellente e necessario, nessuno o quasi – più – canta i Diseredati, il fallimento Ma Non epico e ottocentesco da spiccio anticonformismo, nessuno canta la pelle raggrinzita dei vecchi che si cacano addosso della paura di morire condizione costante a cui arriveremo, comunque, tutti – e la Dipendenza totale quella dalla Realtà delle borse della spesa – l’essere umano diventa sempre più stupido e necessariamente rincorre cose sempre più stupide, gli outsider (e non lo uso come un termine, di nuovo, “epico”) vengono rinchiusi nel loro ghetto sclerotizzato dal completo anonimato indifferente, nessuna titolazione paragone suberbo accostamento felicitazioni slogan e pile e pile volumetriche librerie, ma d’altronde probabilmente nemmeno lo desiderano yeah
Però, che noia Gilda Policastro. Per una volta che un settore produttivo del povero belpaese punta sui giovani, subito giù mazzate in nome di questo e quello.
Ce la meritiamo, la gerontocrazia. Mentale, prima ancora che anagrafica.
A lato: quante incoerenze, eccessi, ruvidezze, ingenuità hanno Le ultime lettere di Jacopo Ortis? Non dico che Giordano valga Foscolo, ma insomma.
Non sono sicura di avere ben intuìto che differenza fa Manganelli tra narratore e romanziere… forse il narratore si limita a raccontare una storia per il gusto di raccontare mentre il romanziere vuole costruirci un suo mondo? Qualcuno mi corregga se ho capito male 🙂
Per quanto riguarda l’ossessione per l’adolescenza, secondo me le ragioni principali sono: principalmente economiche (come già detto; nella speranza di imbroccare un nuovo Twilight & C., gli adolescenti sono un buon mercato se trovi il prodotto giusto); l’idea che raccontare l’adolescenza (magari ispirandosi alla propria) sia più facile che non inventarsi una storia di sana pianta e al tempo stesso sia appetibile, poiché l’età adulta sembra ai più ormai così grigia e triste (v. le rappresentazioni mucciniane) che al confronto l’adolescenza risplende, perché ancora tutto può succedere, ancora non sei un fallito; la nostalgia, che di questi tempi va forte: metti insieme dei trentenni che non si conoscono, e dopo un po’ li vedrai familiarizzare a suon di rievocazioni di Lupin, lady Oscar e girelle Motta…
@Ilaria
Se vuoi capire la differenza che fa Manganelli fra narratore e romanziere basta che leggi i suoi libri. Definiresti ‘romanzi’ libri come ‘Hilarotragoedia’, ‘Amore’, ‘Dall’inferno’, per non citarne che tre?
Paolo: questo è quello che la Marzano chiama “Jeunisme”. Essere giovani non è un fattore qualitativo come essere vecchi, o donne, non è un fattore di discredito. Cominciamo a occuparci un pochino anche noi di “age neutrality” o facciamo finta che il problema non ci sia? 🙂
“La maturità è tutto”, diceva Pavese. Ma anche Lui ci è arrivato attraverso racconti un minimo acerbi: l’esuberanza e l’ingenuità da un esordiente me la aspetto (ma magari anche radicalità…); l’omologazione no, quella viene dal mercato, e pur non leggendo molto certe cose, ho la sensazione che abbia ragione Policastro, per una volta sono abbastanza d’accordo con lei, che invece di solito proprio no.
Non approvo affatto, invece, il cenno alla lettura col vocabolario a fianco come sinonimo di qualità: non è sempre così, detesto certe esibizioni di erudizione, le fuggo come la peste, ed è un morbo che guarda caso hanno pure molti critici, che dovrebbero andare a scuola da Calvino: lo stile è altra cosa
Nel giorno del mio genetliaco -conduco a termine il 44esimo venerando anno della mia esistenza-, orgogliosamente vado fregiandomi del titolo di “solito stronzo” e posso finalmente dichiarare con fiera pacatezza che ho avuto una adolescenza invero pallosa e per nulla raccontabile. Che culo!
Ci sono due libri di scrittori giovani su adolescenti che a me sono piaciuti molto: “Mi chiedo quando ti mancherò” di Amanda Davis e “Una piccola cosa che sta per esplodere” di Cognetti di cui, anche a distanza di tempo dalla lettura, ricordo i personaggi, cosa che non mi capita più molto spesso con altri libri. Che siano piaciuti a me, non vuol dire che sia di per sé un ottimo libro, magari alla Policastro non piacciono, ho dato solo il parere di una lettrice adulta.
Lasciando da parte la Davis, pubblicata da una coraggiosa casa editrice come ‘Terre di mezzo’ (e su cui i critici non mi pare si siano spesi più di tanto) non mi pare che Cognetti abbia fatto delle vendite strepitose, né che si parta da lui quando si parla di questo tipo di libri: si parte da Giordano (il cui libro mi pare sia stato pubblicato qualche anno dopo). Perché? Può darsi anche per il fatto che i suoi siano racconti e, nonostane l’Italia abbia una tradizione splendida in fatto di racconti, l’editoria li vede come il fumo negli occhi, oppure perché Giordano ha venduto moltissimo, è diventato un caso, e Cognetti no.
Comunque io non sparerei nemmeno su Giordano, visto che il suo libro mi pare abbia goduto di un onesto successo da parte dei lettori.
E i lettori non sono dei decerebrati per default, forse da parte dei critici ci vorrebbe un’umiltà maggiore per capire perché certi libri vengano letti e certi altri no, a parità di condizioni di presenza sul mercato ovviamente (e, prima di tutto, di presenza, si capisce).
Il fatto che Siti sia passato inosservato potrebbe essere un inidizio: Siti è ampiamente adulto, mentre i libri che hanno più successo sono scritti da giovani, non proprio adolescenti, ma sicuramente più vicini per età ai loro personaggi.
E questo darebbe, parlo sempre per ipotesi, un valore testimoniale ai loro libri: ‘parlo di quello che so e che, fino a ieri, sono stato’.
E il valore testimoniale credo non solo sia molto importante di questi tempi, ma sia pure l’unica cosa che onestamente siamo in grado di fare.
Se non siamo più in grado di scrivere romanzi, scriviamo personal essays, ma non credo che questo accada per una questione di disimpegno da parte dello scrittore, insomma il disimpegno di questi tempi non è solo a carico degli scrittori.
E poi, anzi prima, c’è il mercato. E vabbè ma qua stiamo, mica su un altro pianeta E come fare a ingannare il mercato a fargli pescare pesci nel mare blu invece che nel mare rosso è questione che, una volta risolta, staremmo in paradiso.
“un settore produttivo del belpaese che punta sui giovani” è un’affermazione davvero divertente. punta su un patetico giovanilismo, semmai.
che il numero di lettori, le vendite o il chiacchiericcio mediatico intorno a un libro (o a un film, o a un disco, o a un’esposizione di foto) siano in qualche modo indicative sulla sua natura e utili a spiegare se è incredibilmente toccante o fa letteralmente schifo, è una teoria che speravo di non dover affrontare mai più.
poi, il “tema” ha poco a che fare con la qualità della scrittura e la potenza del linguaggio. anche riflessi sulla pelle di ridley, la fine di alice della homes, il suo vero nome di d’ambrosio, tanto per fare qualche nome, contengono delle voci di adolescenti, ma non contengono descrizioni raffazzonate di quello che dovrebbe essere un certo stato emotivo – la giovinezza, l’adolescenza – come quelle proposte dall’impraticabile giordano o chi per lui. e trovo ancora più grave che a propinare questi codici siano proprio degli scrittori giovani. i primi che dovrebbero guardarsi allo specchio ed essere costernati di fronte all’assoluta incapacità di creare un linguaggio. le prime cose di ellis o eggers per quanto imperfette stavano proprio creando un linguaggio. le prime cose di giordano e emuli non stanno creando nulla, solo cavalcando a suon di luoghi comuni e pessima scrittura l’onda di una mediocrità culturale sempre più sconfortante, di una capacità percettiva sempre meno forte, che almeno per quanto riguarda la letteratura e il cinema, non mi sento di definire universale, ma nella fattispecie italiana.
A mio parere dipende molto anche dall’educazione alla lettura e al valore che comunemente viene attribuito alla cultura di questi tempi (mi riferisco quindi anche alla fruizione delle opere musicali e visive). La finalizzazione e degradazione della cultura a mera merce ne condiziona l’uso come tale.
Non ho mai letto nemmeno mezza riga della Meyer, però la scorsa estate, sbirciando tra gli ombrelloni vicino al mio, ho visto un gran numero di adolescenti che leggevano appassionate i suoi libri. Non entro nel merito della “qualità letteraria” dell’opera, ma se un giorno quelle ragazze prenderanno in mano altri libri, in questo la Meyer avrà avuto un ruolo. Temo che non si possa dire lo stesso di tante altre letture, sicuramente più “alte”, che ancora troppi insegnanti impongono per le vacanze estive. Sbaglio?
Sbagli, Riccardo, e sbaglierai finchè il lettore sarà considerato come un elemento perturbante. E dico questo perché mi pare che colpa del degrado sia imputabile tutto ai suoi deprecabili gusti.
Beato quel mondo letterario che non ha bisogno di lettori!
@riccardo: sì sbagli perchè se “un giorno quelle ragazze prenderanno in mano altri libri, in questo la Meyer avrà avuto un ruolo” e che libri prenderanno in mano? cioè quello che conta è prendere in mano un libro? guarda che si può usare per tanti scopi un libro!
“Beato quel mondo letterario che non ha bisogno di lettori!” sante parole
@will: se “un giorno quelle ragazze prenderanno in mano altri libri, in questo la Meyer avrà avuto un ruolo” e che libri prenderanno in mano?
io mica ho iniziato leggendo Proust o Arbasino…in casa c’era Salgari, Stephen King e Ken Follett, e quelli leggevo. Ma intanto avevo avevo sperimentato il piacere e la magia della lettura e non ho mai più smesso di cercare quella sensazione di entrare in un altro mondo. Crescendo e incontrando altri stimoli, di libro in libro, ho capito che cerano cose più stimolanti e interessanti, ma intanto se ho preso il vizio lo devo davvero a quei libri là. Mi capita invece di sentire persone ammettere che loro non leggono proprio. Evidentemente nessun libro mai li ha coinvolti e appassionati…come tanti ragazzini/e prima di Moccia, Meyer e Troisi. Non che questo giustifichi la pubblicazione di ciofeche, ci sono molti libri per ragazzi davvero belli e ben scritti, ma forse è vero che non tutti i mali…
Il punto è fondamentale: io ho iniziato leggendo gialli Mondadori, per esempio. Però ero fuori target. Ora, l’adolescenza è un target, e finita una Meyer c’è una Lisa Jane Smith, e finita la medesima ci sono decine – centinaia – di titoli analoghi, alcuni anche buoni peraltro, molti altri pessimi.
La questione del “red ocean” è tutta qui: posso passare da un libro popolare e non di alta qualità letteraria a un altro nel momento in cui sono sommerso da un’offerta che punta sulla somiglianza fra un testo e l’altro e non sulla differenziazione?
e l’articolazione sciamannata delle frasi nel precedente post vi prego di non imputarla alle mie cattive letture, o meglio sì, insomma sto nel frattempo cercando di evitare che mia figlia di anni 1 dia la scalata alla libreria
Non concordo!
Viva i lettori, viva gli spettatori.
Penso che l’osservazione di Riccardo meriti più attenzione.
Quei ragazzi lì che citate, hanno letto Harry Potter e la Meyer a 14 anni. Ok.
Qual è il problema?
Alle medie i miei autori preferiti erano Conan Doyle, Tolkien e Terry Brooks. Roba da ombrellone, per dirla come si suol dire.
Questo non mi ha precluso niente.
Ieri sono andato in libreria e sentivo dire “Ah questo è il libro che hanno presentato da Fazio!”.
*
Se davvero i teen-agers sono diventati il centro dell’attenzione mediatica in letteratura, non v’è niente di cui scandalizzarsi. E’ sempre il problema di capire che storie si raccontano.
Far capire che “Stand by me” e “Come tu mi vuoi” sono entrambi film per teen.
Ma ci sono delle differenze.
@violi: e vorresti paragonare Stephen King ai vampiri innamorati?. E poi lo sappiamo benissimo che i 15 anni di oggi Non sono i 15 anni di 15 anni fa, in un altro mondo ci si può entrare in un milione di modi, dalla torre, dalle fogne o dalla porta d’ingresso, insomma non credo in tutti questi salti magistrali di qualità dall’adolescenza all’età “matura” se esiste. Si cerca la magia della letteratura, non quella della lettura, se no ci sono anche i cartelli stradali.
@lipperini: appunto, il punto secondo me è che si peggiorerà esponenzialmente, il salto sarà nell’abisso, partendo dalla differenza iniziale tra leggere i sopraddetti e i gialli Mondadori agli attuali vampiri innamorati. Lo stesso dicasi per il Cinema.
@ekerot: conan doyle e tolkien roba da ombrellone? beato te.
Digressione nippofila: la letteratura giapponese ha attraversato nei primi anni del ‘900 un fiorire di racconti con protagonisti adolescenti (“Sanshirô” di Natsume Sôseki su tutti). L’inizio dell’industrializzazione e la fine del periodo feudale sono stati interpretati come le cause principali di questo interessamento, – e il ‘red ocean’ sicuramente esisteva anche allora-. In effetti in quel periodo il popolo giapponese era ‘adolescente’ e inquieto rispetto all’occidentalizzazione poi diventata a tutti così nota.
Nei manga e negli anime è accaduta una cosa simile in tempi recenti. Esigenze di mercato a parte, i protagonisti delle storie sono diventati mediamente adolescenti molto inquieti e l’adolescenza stessa è stata teorizzata come una fase difficile della vita.
Tornando a noi, ho idea che per molti la metabolizzazione dell’adolescenza sia una fase interessante di cui scrivere a 30 anni. In questi anni poi dove sappiamo tutti che l’adolescenza a 30 anni è quasi ancora in corso le attitudini prettamente scrittorie (non di storytelling quindi) secondo me in qualche modo si fondono con l’etica stessa dell’autore (e mi vengono Aldo Nove e Paolo Nori o Isabella Santacrocee in mente, il cui backgorund pop dei loro libri è a volte riconducibile, in modi diversi, a un’estetica adolescenziale).
Mi viene anche in mente la questione dei bamboccioni, e di come gli scandinavi (che sono, per motivi vari, indipendenti e viaggiatori), abbiano nelle librerie lo scaffale e il genere della letteratura di viaggio, che pare abbia un certo richiamo.
E qui mi chiedo se forse in italia non ci sia questa mancanza di storytelling audace (yeah), di fame onnivora. Non so, a volte mi sembra non si riesca a guardare più avanti del proprio naso. E questo fiorire di libri sull’adolescenza -se è vero che di oceano rosso stiamo parlando- mi sembra uno dei risultati.
La letteratura senza lettori la vedo un po’ come cantare sotto la doccia. Io adoro farlo, anche perché nei bagni c’è un’acustica fantastica, ma mi guardo dal definire “musica” le mie performace. I quindicenni che leggono dei “vampiri innamorati” cresceranno e leggeranno altre cose, magari passeranno a libri migliori, o magari si dedicheranno agli Harmony, che esistono dagli anni Ottanta. Resta il fatto che avvicinare alla lettura chi altrimenti trascorrerebbe quelle ore a chattare con il telefonino (non certo a leggere Proust) è secondo me una buona cosa. Avvicinare i giovani alla lettura oggi è più difficile, perché ci sono molti altri modi di disimpegnare il tempo. Se leggere resta “una cosa noiosa”, come molti ragazzi credono, anche i grandi capolavori avranno sempre meno lettori.
@Andrea. Da quello che ho capito, gli editori scandinavi hanno come target di riferimento i viaggiatori, gli italiani quello dei bamboccioni.
Da un punto di vista del mercato editoriale però mi pare che la cosa cambi di segno ma non di sostanza.
Il punto è come vengono considerati i libri, a mio avviso. Io non sono convinto aprano soltanto altri mondi (non sono just entertainment) ma siano dei modi per addentrarsi maggiormente nel nostro di mondo. È che alcuni ci riescono meglio di altri ad arrivare in profondità. Il problema è di qualità.
Io vorrei rilanciare il punto individuato da Loredana come fondamentale, ovvero quello del target.
“La questione del “red ocean” è tutta qui: posso passare da un libro popolare e non di alta qualità letteraria a un altro nel momento in cui sono sommerso da un’offerta che punta sulla somiglianza fra un testo e l’altro e non sulla differenziazione?”
Posso passare da un oceano all’altro? No, allo stato attuale delle cose parrebbe di no, perché io quell’oceano, o quel rivolo, se pure c’è, non riesco a vederlo, visto che sono stato sottoposta a una (de)formazione sistematica.
Non è verisimile però che quel passaggio me la faccia fare il mercato che sul target lavora e neppure gli scrittori che, per essere pubblicati, devono passare attraverso quel setaccio, dal quale pure loro alla fine escono deformati.
E allora però, secondo me, la questione non è più strettamente letteraria, ma politica. E scusate se uso questa parola arcaica e desueta.
Metto qui il link a un’intervista fatta poco fa, a Fahrenheit, da Tommaso Giartosio a Tullio De Mauro sul suo libro La cultura degli italiani (si può ascoltare da domani pomeriggio), dove mi pare si dicano cose interessanti e utili pure a questa discussione.
Vabbé, lo so che intigno sulle dimensioni macro, ma senza il macro io il micro non lo capisco.
E pure questo sarà un tipo di target!
@Valeria
🙂 io non volevo essere così lapidario! ma una connessione etnosociale ce la vedo…
però a questo punto abbiamo capito che ci sono delle spinte: quelle interne, che spingono uno scrittore a parlare di adolescenza, ed esterne, ovvero il maledetto editore et mercato sporcato di rosso sangue. Qui dobbiamo capire se questa spinta interna, è genuina, e rispecchia qualcosa o se è solo questione di mercato, o tutt’eddue. Perchè un buon libro che segue il mercato in teoria rimane comunque un buon libro.
Ma io non riesco sempre a distinguere le due cose, davvero. Mettere bocca sulle ispirazioni altrui è sempre difficile.
@Andrea. Non sono certo io a demonizzare i libri che hanno successo, tutt’altro. Un libro di successo non è privo di valore ‘in quanto’ di successo, così come un libro privo di lettori è un capolavoro ‘in quanto’ privo di lettori. Asserzione banalissima, ma non sempre condivisa.
E credo pure che a volte il mercato interccetti delle domande che depravate non sono e a cui si può rispondere in modi diversi.
E su questo mettiamoci un punto.
Quello che non non capisco, anzi che mi saltare letteralmente i nervi, è il tono spocchioso e autoreferenziale con cui certa critica parla di certi fenomeni, osservandoli da un’angolazione molto molto ristretta.
Viva la age neutrality… 🙂
Su tutto il post di Loredana concordo in maniera quasi esagerata.
😀
Scrivere romanzi sui tormenti adolescenziali è, più o meno, semplice, visto che permette di mitizzare le proprie esperienze, magari recenti. Da questo punto di vista è un genere che ha un qualche rapporto con la realtà, una realtà semplice, con le sue difficoltà ma che viene prima delle ben più complesse difficoltà della maturità. La letteratura adulta è, mi pare, la MIA della letteratura italiana, visto che abbastanza spesso si passa dall’adolescenza ai vari kit fai-da-te narrativi, dal giallo all’horror con l’occasionale elfo. Specie i gialli (magari politico-cospirativi) permettono di pretendere di occuparsi del mondo reale pur continunando, imperterriti, a occuparsi di televisione.
Anni fa, scherzando ma non troppo, Gore Vidal lamentò di non aver avuto un’infanzia felice in un paesino del Sud pieno di gente ‘vera’, bizzarra, saggia e pittoresca da raccontare: così sarebbe stato preso sul serio dai critici. Invece un destino avverso l’aveva fatto nascere a Washington, figlio di un ministro di Roosevelt e fondatore della TWA e della nipote di un potentissimo Senatore, con parenti a tutti i livelli dell’establishment (Al Gore, per esempio)…
Che io sappia c’è un solo romanzo italiano di una qualche importanza che abbia a protagonista un deputato che sia proprio un deputato e non un mostro o un imbecille (Il Comunista, di Guido Morselli). Niente romanzi su ministri o Presidenti del Consiglio (Petrolio, forse). Pochi imprenditori, pochi scienziati, pochi artisti in quanto artisti – e se si fanno vivi sono i ‘cattivi’… Di gran lunga più facile trovare romanzi sugli immigrati che si prestano facilmente a essere mitizzati ed idealizzati e di solito non mettono becco nelle discussioni letterarie. La vita adulta, a parte l’aspetto sentimentale-erotico, è largamente assente. Le lotte politiche e sociali sono quasi sempre sotto il segno della nostalgia. I gialli, dicevo, parlano di una realtà, certo, a volte molto bene o godibilmente, ma nell’Italia reale gli omicidi sono sempre di meno mentre sono sempre di più nei media.
Tornando all’adolescenza, assistiamo all’onda lunga del Giovane Holden, non a caso popolarissimo in Italia e scusa per considerare sul serio i tormenti dell’adolescenza come se ci dicessero qualcosa di significativo sul mondo. Per non parlare dei romanzi dal punto di vista dei bambini, ancora più facili…
a dire il vero la gilda chiama liala anche wu ming (e non si capisce perché, visto che si parlava d’altro).
@al3sim
“Io non sono convinto aprano soltanto altri mondi (non sono just entertainment) ma siano dei modi per addentrarsi maggiormente nel nostro di mondo.”
sì, dicendo che la narrativa ha il potere di aprirci “altri mondi” intendevo non solo letteralmente, tipo l’Ade o la Terra di Mezzo, ma di coinvolgerci in vite e vicende non nostre, che siano lontane o molto prossime alla nostra quotidianità: vampiro gnokko, replicante in scadenza, agente immobiliare dell’east coast o giovane camorrista, questi “mondi” possono essere scritti in modo da farci semplicemente evadere dal nostro per un po’ (just entertainment), oppure da lasciarci qualche domanda o occasione di pensiero.
Mhhh, Liale, Manganelli… mi ricorda qualcosa… finirà che mi tocca parteggiare per i Giordano e le Avallone (un po’ antipatica quella stroncatura tra parentesi finale…)
ma banalmente non è che questi autori, trentenni o anche meno, si trovano giustamente più a loro agio a parlare di adolescenza (età che conoscono e che hanno superato abbastanza per poterla trattare con distacco) piuttosto che di vecchiaia, questo tabù? è interessante la provocazione di loredana: “l’ossessione sociale e culturale per la figura del giovane”, e forse è un elemento. ma, più terra terra, mi dico che i libri che hanno per protagonisti individui non più giovani da tempo sono scritti da persone over 60 o giù di lì: starnone ha scritto “spavento” adesso, e non avrebbe potuto scriverlo come esordio, anche philip roth negli ultimi anni ci propone ossessioni di vecchio. l’unico modo in cui un venticinquenne può parlare di anziani è attraverso il ricordo dei propri nonni, non certo quindi con la verità di chi ha vissuto. e quella verità è alla base, spesso, della forza di alcuni testi. del resto, quando i giovani autori infilano i nonni nei loro libri, anche questo non va bene: si critica l’ennesimo nonno dei romanzi italiani. insomma, ce n’è per tutti.
credo poi che ci sia un problema legato a come questi libri vengono letti e presentati dai giornalisti. non penso che l’obiettivo di chiara valerio fosse parlare dell’adolescenza, ma di tantissimi altri temi, tra cui la perdita (di una madre, come dei “nomi delle cose” da parte della nonna – arieccola), e i personaggi che mette in scena sono solo il meccanismo che le serve per parlarne. del resto, nemmeno giordano parla di adolescenti tout court. alice e mattia vengono colti da bambini, poi da ragazzi, poi da adulti: ma questo, ancora una volta, i giornalisti lo dimenticano. è questa tendenza a semplificare che uccide, tanto quanto la spasmodica ricerca del bestseller da parte degli editori.
Anch’io rilancio qui un mio commento su Vibrisse dove si parlava del solito Nori ma anche no:
“Dai un’occhiata alla pagina culturale del Corrierone di oggi: ci troverai, travestito da articolo sulle proteste dei genitori di una ragazza morta di leucemia (di queste proteste o perplessità si parla in realtà in una riga) una pubblicità sguaiata e nemmeno occulta dell’ennesima porcheria propinata da Mondadori al lettore adolescente: “Bianca come il latte rossa come il sangue”, un libro fasullo come il suo autore (sfogliato in libreria, scrive peggio di Moccia) che dopo il Giordano dei numeri primi si butta a pesce su un’altra patologia per un’altra immagine vittimistica e claudicante dell’adolescenza di cui la gioventù nostrana ha certo un gran bisogno.
E allora, se questi sono i professionisti delle pagine culturali, forse ci sarebbe bisogno di gente un po’ meno prona ai volere della bottega, almeno rifiutandosi a operazioni del genere: non so Nori, ma uno scrittore che non ha la faccia come il culo non firmerebbe mai un articolo come quello odierno di Cristina Taglietti.
Affanculo il Corrierone e affanculo Mondadori, compresi i redattori interni o esterni “de sinistra” che naturalmente non ammetteranno mai di aver partecipato a montare “casi editoriali” del genere, e che si dichiarano “liberi” e felici di lavorarci, a prescindere dalle “libere” scelte del vicino di scrivania.”
Di Giordano ho letto un romanzo, che m’ha fatto venir voglia di leggerne un altro (sempre che venga); un articolo su matematica e disobbedienza, che ha fatto infuriare Giorgio Israel (épater les imbéciles!); e ascoltato una piccola conferenza su David Foster Wallace commovente per l’interazione tra il narratore e l’oggetto narrato.
Almeno Giordano un’alternativa intellettuale ed esistenziale ce l’ha: Gilda Policastro, purtroppo, no (per sfortuna nostra, ma soprattutto sua).
Che invidia mi fa Girolamo per come dice bene le cose che penso. 😉
La discussione è andata molto avanti, ed è arrivata a riguardare una serie di questioni capitali (e alcune menomissime, che tralascio). Anzitutto non confondiamo l’oggetto con l’ identità anagrafica dell’autore, di cui poco ci cale: Tozzi e Pirandello, a dire solo dei massimi del secolo scorso, ma anche Moravia (vogliamo trascurare Proust?), hanno dedicato alla Bildung e alla figure di giovani in formazione pagine memorabili e capolavori indiscussi (un’intera raccolta tozziana si chiama “Giovani”, ma chi l’ha letta? Scommetto non molti degli scrittor giovani e ciancianti di giovinezze varie, perché altrimenti un po’ d’anxiety of influence, minimo minimo…), dunque non si sta contestando il tema in sé, ma il mondo in cui oggi viene presentato editorialmente e spacciato come un valore di per sé (come è in Italia del resto del romanzo tout court, laddove in altri paesi la tradizione modernista ha trasformato e rivoluzionato radicalmente il genere fino a dissolverlo, perlomeno nella sua forma tradizionale e a partire proprio dalla forma breve, come ben notava decenni fa Guido Guglielmi). Qui no, qui si scrivono romanzi come se si fosse Manzoni, e francamente è il caso che i nostri romanzieri leggano un po’ di più e scrivano un po’ di meno, o scrivano e riscrivano, esattamente come Manzoni, dopo aver trovato una lingua, cosa che nella stragrande maggioranza dei casi non avviene. Ma per restare al Novecento, Manganelli esordì a 40 anni e dai suoi libri c’è solo da imparare (distinzione tra narratore e romanziere, per chi l’aveva chiesta: il discrimine sta nell’impossibilità ormai lampante nel moderno di spacciare per autentico o universale un contenuto ideologico o una visione del mondo, tratti tipici del romanzo, divenuti ormai sempre più frammentari e parziali. Il narratore può solo ingannare, dichiaratamente inventando: la storia del non-nato, ad esempio, memorabile inserto di Hilarotragoedia, o il racconto in sé, che a differenza del romanzo è la narrazione di una parzialità dichiarata, o la “narrazione del romanzo che non si fa”: ad esempio “di cosa si saranno parlati i bravi manzoniani, arrivando a quel bivio (citando più o meno alla lettera da Il rumore sottile della prosa)”? Studiando le carte di Hilarotragoedia, se qualcuno studiasse ancora e non stessimo tutti a scrivere romanzi, si può ricostruire anche fisicamente la fatica di Manganelli nel rendere il suo scritto, attraverso cinque stesure principali più una serie infinita di revisioni, quanto di meno vicino a un romanzo (e quindi quanto di più vicino a quell’unica verità romanzesca possibile che è la menzogna) si potesse immaginare.
Che poi l’esordio giovanile (giovani di 25 anni, attenzione, che sono pseudoadolescenti solo nel nostro sistema gerontocratico, appunto) si debba considerare a priori un elemento di valore, non ci sto. Non si scrivono libri per prescrizione medica, dunque non si vede perché esordire “immaturi” (come ha detto persino la Dandini del libro di Silvia Avallone) e non aspettare di avere, oltre a un tema “fico”, anche una maturità stilistica e di scrittura. Che poi ci si debba entusiasmare per le vicende lesbo di due adolescenti di Piombino più che per un’altra sia pur anomala Bildung come quella narrata in Adorazione (vero esordio di qualità di questo inizio d’anno) di Raffaella D’Elia mi pare tutto da dimostrare. Ma Raffaella D’Elia non ha scritto un romanzo, non è edita da Rizzoli, non ha 25 anni, non la invita la Dandini, non venderà una copia e dunque non l’abbiamo mai sentita nominare. (Dico bene, o tu ultimo commentatore che confondi il presenzialismo con l’alternativa intellettuale ed esistenziale?). Il problema come disse proprio Walter Siti in un’occasione pubblica è che il mercato detti ormai le condizioni non tanto e non solo delle vendite attuali, ma della scrittura futura. Così se Raffaella D’Elia oggi non arriva in libreria, domani nemmeno si sognerà di cercarsi un editore di ricerca e di provare a pubblicare (cioè ad entrare in un discorso culturale, non mai mirare ad avere uno spazio televisivo o di propaganda) e forse nemmeno più di scrivere. Io però sono meno pessimista di Siti, e anche di Leopardi, che si chiedeva come potessero i posteri rivalutare libri che i contemporanei non avevano apprezzato. Intanto il critico sta qui per questo, per provare a contrastare le mode e le tendenze, e valorizzare i pochissimi libri, sempre con Leopardi, “costati grandissimo lavoro”. Facile non è, ma come mi ricordava proprio un amico critico di recente siamo nati per soffrire…
[l’anonimo delle 1.11 am sono io…siamo nati anche per imparare a postare i commenti, evidentemente]
Per il pochissimo che può importare, appoggio gli interventi di Gilda Policastro, specie l’ultimo.
Gilda Policastro spera che Paolo Giordano sia tornato a fare il fisico.Io personalmente no.Il suo mi pare vero talento.
“veri talenti” questa è bella auauaua.
“alternativa intellettuale” poi.
quoto:
“Il problema come disse proprio Walter Siti in un’occasione pubblica è che il mercato detti ormai le condizioni non tanto e non solo delle vendite attuali, ma della scrittura futura.”
quando un articolo comincia con nuovo esordiente di talento il nuovo “bla bla” ecc. puzza già.
@ gilda (come anonimo): la forma romanzo si sarebbe dissolta – nel resto del mondo? Dunque, quando l’anno scorso, per dire, ho letto l’ultimo romanzo (tradotto) di Richard Powers o l’ultimo di Denis Johnson, o l’ultimo, immenso, Chatterjee ho avuto un abbaglio? Sembravano romanzi ma non lo erano? Altra cosa: nel pezzo postato si parlava della differenza tra scrittore e narratore. Altra cosa è, come fa Cordelli in Democrazia magica, aggiungere un termine in più, cioè il romanziere (una sorta di sintesi, forse). Strumento epistemologico essenziale, peraltro, ché sennò – dalla coppia narratore/scrittore – resterebbero fuori degli autori importanti (dove andrebbe Dostojevski? Dove Scott Fitzgerald? Dove Sciascia?).
Comunque le accuse di “lialismo” fuori tempo massimo mi sanno di provocatorio recupero della parte più caduca del Gruppo ’63. E hanno già fatto male una volta.
Giusto oggi un articolo del Guardian sulla difficoltà, per autori adulti, di ‘fare la voce’ dei giovani:
http://www.guardian.co.uk/books/booksblog/2010/feb/03/young-narrators-sound-phony
Come al solito, nessuno critica gli scrittori giovani perchè hanno difficoltà a rendere le voci degli ‘adulti’…
Mi permetto innanzitutto di dissentire dal commento di Sasha, che tra tutti è quello che più mi ha colpita.
Al solito, qui non è questione di temi “facili” o “difficili”. A parte che bollare l’adolescenza come periodo in cui i problemi e i motivi di sofferenza hanno molta meno dignità di quelli dell’età adulta, in cui – eh, lì sì – si soffre per davvero, mi pare sommamente riduttivo, e anche un pochino irrispettoso nei confronti degli adolescenti. Senza contare che non vedo perché un autore debba mitizzare le proprie esperienze solo quando sono adolescenziali, e non, che ne so, quando si parla di maturità. Il problema comunque, dicevo, è come si tratta il tema. C’è chi lo fa con superficialità? Ovvio. Questi libri arrivano in libreria? Non sono ferrata sull’argomento (all’attivo ho solo Giordano, che per altro ho apprezzato davvero molto, lo confesso), ma non stento a credere che sì, ci arrivino. Perché ci arrivano, che poi mi pare essere una delle domande del post? Perché l’editoria percepisce l’argomento come redditizio, perché alcuni autori hanno venduto molto, e allora si batte il ferro finché è caldo. Quindi i miei due cents è che sì, è moda.
Perché gli autori si concentrano sulle tematiche adolescenziali, che mi pare essere la seconda domanda? Perché l’adolescenza, con la sua fame insoddisfatta di verità e assoluto, la sua ricerca continua di sé e di un senso, è figura della vita tutta dell’uomo. Solo che in quel periodo tutto è percepito come più tragico, e dunque dotato di una forza narrativa che alcuni (parecchi) autori apprezzano e nella quale si ritrovano. O almeno, io parlo di adolescenza per questa ragione.
Poi, sono d’accordo con lolli: se hai trent’anni, l’adolescenza è dietro l’angolo, magari hai anche iniziato a rimpiangerla, per cui parlarne ti risulta più immediato che trattare di vecchiaia, di cui non hai esperienza, o di maturità, nella quale sei appena entrato.
@Policastro. Per quel che mi riguarda, se il critico si assume il compito titanico di contrastare le derive del mercato e segnalare ‘gli scarti’ di valore tanto di cappello.
Sarebbe gradito però un tono meno acido e apodittico, perché certo da quel tono il mercato non si lascia intimidire e tutti gli altri potrebbero trarne una pessima, ma proprio pessima, impressione.