Dice David Grossman che ciò che dobbiamo temere è il cinismo. Quello che ci si chiude intorno come una corazza, e ci imprigiona, e non ci fa sperare, e neanche vedere, che esiste una possibilità migliore di quella che abbiamo. Dice David Grossman (e lo scrive nel suo ultimo, bellissimo romanzo, Applausi a scena vuota) che davanti a persone che accettano di ascoltare senza giudicare abbiamo fra le mani quella possibilità. Tiqqun, dice. Riparazione, secondo la Cabala. Lo sguardo degli altri ripara e redime, dice Grossman, se si spoglia da pregiudizio e cinismo.
Altri, meglio di me, possono analizzare i suoi romanzi dal punto di vista narratologico. Io posso dire solo che trovo non ripetuta la sua capacità di trasformare il dolore in pacificazione, senza nascondere quel dolore, senza trasformarlo in rabbia. Se si riesce a portare questo in un libro, quel libro diviene conforto, oltre che piacere estetico.
Per questo, riporto qui uno scritto che non nasce per la letteratura, ma è di straziante bellezza letteraria. La sua orazione funebre per il figlio Uri. Agosto 2006.
Mio caro Uri, sono ormai tre giorni che quasi ogni pensiero comincia con “non”. Non verrà, non parleremo, non rideremo. Non ci sarà più questo ragazzo dallo sguardo ironico e dallo straordinario senso dell’umorismo. Non ci sarà il giovane uomo dalla saggezza molto più profonda di quella dei suoi anni, dal sorriso caloroso, dall’appetito sano. Non ci sarà quella rara combinazione di determinazione e delicatezza. Non ci saranno il suo buon senso e l’assennatezza del suo cuore.
Non ci sarà l’infinita tenerezza di Uri e la tranquillità con cui placava ogni tempesta, non vedremo insieme i Simpsons o Seinfeld, non ascolteremo con te Johnny Cash e non sentiremo il tuo abbraccio forte e rassicurante. Non ti vedremo camminare e parlare con Yonatan (il fratello maggiore ndr) gesticolando con foga, abbracciare Ruti (la sorella più piccola ndr), a cui volevi tanto bene.
Uri, amore mio, per tutta la tua breve vita abbiamo imparato da te. Dalla tua forza e dalla determinazione di seguire la tua strada, anche quando non avevi possibilità di riuscita. Abbiamo seguito stupefatti la tua lotta per essere ammesso al corso di comandanti di tank. Non ti sei arreso ai tuoi superiori, sapevi di poter essere un buon comandante e non eri disposto a dare meno di quanto potevi. E quando l’hai spuntata, ho pensato, ecco un ragazzo che conosce semplicemente e lucidamente le sue possibilità. Senza pretese, senza arroganza. Che non si lascia influenzare da quello che gli altri dicono di lui. Che trova la forza dentro di sé.
Sei stato così fin da piccolo. Vivevi in armonia con te stesso e con chi ti stava intorno. Sapevi qual era il tuo posto, eri consapevole di essere amato, conoscevi i tuoi limiti e le tue virtù. E davvero, dopo aver piegato l’intero esercito, ed essere stato nominato comandante, era chiaro che tipo di comandante e uomo eri. E oggi i tuoi amici e i tuoi subordinati raccontano del comandante e dell’amico, di quello che si alzava per primo per organizzare tutto e che si coricava solo dopo che gli altri già dormivano.
E ieri, a mezzanotte, ho guardato la casa, che era piuttosto in disordine dopo che centinaia di persone sono venute a farci visita, a consolarci, e ho detto, eh sì, adesso ci vorrebbe Uri per aiutare a sistemare.
Eri il “sinistroide” del tuo battaglione, ma eri rispettato, perché mantenevi le tue posizioni senza rinunciare ai tuoi doveri militari. Ricordo che mi hai raccontato della tua “politica dei posti di blocco”, perché anche tu sei stato non poco ai posti di blocco. Dicevi che se c’era un bambino nell’auto che avevi fermato, innanzi tutto cercavi di tranquillizzarlo e di farlo ridere. E ricordavi a te stesso che quel bambino aveva più o meno l’età di Ruti e quanta paura aveva di te e quanto ti odiava, e a ragione. Eppure facevi di tutto per rendergli più facili quei momenti tremendi, compiendo al tempo stesso il tuo dovere, senza compromessi.
Quando sei partito per il Libano la mamma ha detto che la cosa che temeva di più era la tua “sindrome di Elifelet”. Avevamo molta paura che, come l’Elifelet della canzone, anche tu saresti corso dritto in mezzo al fuoco per salvare un ferito, che saresti stato il primo a offrirti volontario per portare il rifornimento-di-munizioni-esaurite-da-tempo. E lassù, in Libano, in quella dura guerra, ti saresti comportato come hai fatto per tutta la vita, a casa, a scuola e durante il servizio militare, offrendoti di rinunciare a una licenza perché un altro soldato aveva più bisogno di te, o perché a casa di quell’altro c’era una situazione più difficile.
Eri per me figlio e amico. Ed era lo stesso per la mamma. La nostra anima è legata alla tua. Vivevi in pace con te stesso, eri una persona con cui è bello stare. Non sono nemmeno capace di dire ad alta voce quanto tu fossi per me qualcuno con cui correre. Ogni qualvolta arrivavi in licenza dicevi: vieni papà, parliamo. Di solito andavamo a un ristorante, a sedere e a parlare. Mi raccontavi così tanto, Uri, ed ero orgoglioso di avere l’onore di essere il tuo confidente, che uno come te avesse scelto me.
Ricordo quanto fossi indeciso una volta se punire un soldato in seguito a un’infrazione disciplinare. Quanto per te quella decisione fosse sofferta perché avrebbe scatenato la rabbia dei tuoi sottoposti e degli altri comandanti, molto più indulgenti di te riguardo a certe infrazioni. E infatti, punire quel soldato ti è costato molto da un punto di vista dei rapporti umani ma proprio quell’episodio si è trasformato in una delle storie cardinali dell’intero battaglione, che ha stabilito certe norme di comportamento e di rispetto delle regole. E nella tua ultima licenza mi hai raccontato, con timido orgoglio, che il comandante del battaglione, durante una conversazione con alcuni nuovi ufficiali, ha portato la tua decisione come esempio di un giusto comportamento del comandante.
Hai illuminato la nostra vita, Uri. Io e la mamma ti abbiamo cresciuto con amore. Era così facile volerti bene, con tutto il cuore, e so che anche tu sei stato bene. Che la tua breve vita è stata bella. Spero di essere stato un padre degno di un figlio come te. Ma so che essere il figlio di Michal (la moglie di David Grossman ndr) vuol dire crescere con generosità, grazia e amore infiniti, e tu hai ricevuto tutto questo. Lo hai ricevuto in abbondanza, e hai saputo apprezzarlo, hai saputo ringraziare, e niente di quello che hai ricevuto era scontato per te.
In questo momento non dico nulla della guerra in cui sei rimasto ucciso. Noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa. Israele ora si farà un esame di coscienza, noi ci chiuderemo nel nostro dolore, attorniati dai nostri buoni amici, circondati dall’amore immenso di tanta gente, che per la maggior parte non conosciamo, e che io ringrazio per l’illimitato sostegno.
Vorrei che sapessimo dare gli uni agli altri questo amore e questa solidarietà anche in altri momenti. È forse questa la nostra risorsa nazionale più particolare. Vorrei che potessimo essere più sensibili gli uni nei confronti degli altri. Che potessimo salvare noi stessi ora, proprio all’ultimo momento, perché ci attendono tempi durissimi.
Vorrei dire ancora qualche parola.
Uri era un ragazzo molto israeliano. Anche il suo nome è molto israeliano, ebreo. Uri era il compendio dell’israelianità come io la vorrei vedere. Un’israelianità ormai quasi dimenticata. Spesso considerata alla stregua di una curiosità. Talvolta, guardandolo, pensavo che fosse un ragazzo un po’ anacronistico. Lui e Yonatan e Ruti. Bambini degli anni cinquanta. Uri, con la sua totale onestà e il suo assumersi la responsabilità per tutto quello che gli succedeva intorno. Uri sempre in “prima fila”, su cui poter contare. Uri con la sua profonda sensibilità verso ogni sofferenza, ogni torto. E capace di compassione. Una parola che mi faceva pensare a lui ogni qualvolta mi veniva in mente.
Era un ragazzo con dei valori, parola molto logorata e schernita negli ultimi anni. Nel nostro mondo a pezzi e crudele e cinico non è “tosto” avere dei valori. O essere umani. O sensibili al malessere del prossimo, anche se quel prossimo è il tuo nemico sul campo di battaglia.
Ma io ho imparato da Uri che si può e si deve essere sia l’uno che l’altro. Che dobbiamo difendere noi stessi e la nostra anima. Insistere a preservarla dalla tentazione della forza e da pensieri semplicistici, dalla deturpazione del cinismo, dalla volgarità del cuore e dal disprezzo degli altri, che sono la vera, grande maledizione di chi vive in una area di tragedia come la nostra.
Uri aveva semplicemente il coraggio di essere se stesso, sempre, in ogni situazione, di trovare la sua voce precisa in tutto ciò che diceva e faceva, ed era questo a proteggerlo dalla contaminazione, dalla deturpazione e dal degrado dell’anima.
Uri era anche un ragazzo buffo, incredibilmente divertente e sagace ed è impossibile parlare di lui senza riportare alcune sue “trovate”. Per esempio, quando aveva tredici anni, gli dissi: immagina che tu e i tuoi figli un giorno potrete recarvi nello spazio come oggi si va in Europa. E lui rispose sorridendo: “Lo spazio non mi attira molto, si può trovare tutto sulla terra”.
O un’altra volta, mentre viaggiavamo in automobile, io e Michal parlavamo di un nuovo libro che aveva suscitato molto interesse e nominavamo scrittori e critici. Uri, che allora aveva nove anni, ci richiamò dal sedile posteriore: “Ehi, voi, elitisti, vi prego di notare che qui dietro c’è un piccolo sempliciotto che non capisce niente di quello che dite!”.
O per esempio Uri, a cui piacevano molto i fichi, con un fico secco in mano: “Dì un po’, i fichi secchi sono quelli che hanno commesso peccato nella loro vita precedente?”. O ancora, una volta che ero indeciso se accettare un invito in Giappone: “Come puoi non andare? Sai cosa vuol dire essere nell’unico Paese in cui non ci sono turisti giapponesi?”
Cari amici, nella notte tra sabato e domenica, alle tre meno venti, hanno suonato alla nostra porta. Al citofono hanno detto di essere “gli ufficiali civici”. Sono andato ad aprire e ho pensato, ecco, la vita è finita.
Ma cinque ore dopo, quando io e Michal siamo entrati nella camera di Ruti e l’abbiamo svegliata per darle la terribile notizia, Ruti, dopo il primo pianto, ha detto: “Ma noi vivremo, vero? Vivremo come prima. Io voglio continuare a cantare nel coro, a ridere come sempre, a imparare a suonare la chitarra.” Noi l’abbiamo abbracciata e le abbiamo detto che vivremo. E Ruti ha anche detto: che terzetto stupendo eravamo, Yonatan, Uri e io.
E siete davvero stupendi. E anche le coppie all’interno del terzetto. Yonatan, tu e Uri non eravate solo fratelli ma amici, nel cuore e nell’anima. Avevate un mondo vostro e un vostro linguaggio privato e un vostro senso dell’umorismo. Ruti, Uri ti voleva un bene dell’anima. Con quanta tenerezza si rivolgeva a te. Ricordo la sua ultima telefonata, dopo aver espresso la sua felicità per la proclamazione all’Onu del cessate il fuoco, ha insistito per parlare con te. E tu hai pianto, dopo. Come se già sapessi.
La nostra vita non è finita. Abbiamo solo subito un colpo durissimo. Troveremo la forza per sopportarlo dentro di noi, nel nostro stare insieme, io, Michal e i nostri figli e anche il nonno e le nonne, che amavano Uri con tutto il cuore – “Neshuma”, lo chiamavano, perché era tutto Neshamà, anima – e gli zii e i cugini e tutti i numerosi amici della scuola e dell’esercito che ci seguono con apprensione e affetto.
E troveremo la forza anche in Uri. Aveva forze che ci basteranno per tantissimi anni. La luce che proiettava – di vita, di vigore, di innocenza e di amore – era tanto intensa che continuerà a illuminarci anche dopo che l’astro che la produceva si è spento.
Amore nostro, abbiamo avuto il grande privilegio di stare con te. Grazie per ogni momento che sei stato con noi.
Papà, mamma, Yonatan e Ruti.
Struggente, stupendo, ricco d’amore…
grazie, e io imparo, imparo… e prendo forza leggendo
una lettura che toglie la prima pelle e ci lascia disarmati… un grande autore… grazie Loredana
Nicoletta
bellissimo e commovente ! grazie
ho avuto il privilegio di vedere da vicino David Grossman alla presentazione del suo libro “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, nella mia città. ha destato in me un senso di grande e immediato affetto, per la sua persona, per il suo modo di esprimere il dolore e non solo, per la sua umiltà, per l’immensa capacità di entrare in contatto col mondo intorno a sé nonostante il dolore straniante con cui stava convivendo. Il mio affetto si è unito all’ammirazione che già provavo per la sua scrittura. un uomo di grande intensa umanità.