LO SPETTACOLO CHE SIAMO DIVENTATI

Dice Franco Maresco, spiegando il suo film La mafia non è più quella di una volta (premio speciale della giuria a Venezia):
“E’ una versione molto per i poveri della Società dello spettacolo di Guy Debord, un mondo dove tutto si è azzerato. E’ un film su una tragedia in corso, la mafia, di cui non si parla più, se non nelle fiction: nella più felice delle ipotesi – ti prego di cogliere l’ironia – l’antimafia ha il volto di Pif. L’idea, insomma, è che tutto è allo stesso livello: le fiction, le cerimonie istituzionali, i neomelodici”.
Franco Maresco e io apparteniamo alla stessa generazione. E le sue parole esprimono in pieno quello che provo da diversi mesi, non solo sulla mafia, evidentemente. Ogni battaglia – ogni attivismo, ogni opposizione – deve prendere quell’aspetto, deve farsi allestimento scenico, deve proporre, insieme alle parole e alle azioni, un volto sorridente, un corpo da esibire, una spettacolarizzazione di se stessi che, che lo si voglia o meno, finisce con il semplificare quelle parole e quelle azioni, finisce per farsi performance, e che lo si voglia o meno chi pronuncia quelle parole e compie quelle azioni diventa, giorno dopo giorno, più integrato nello spettacolo. Diventa personaggio. E nessuna battaglia si conduce da personaggi: non una duratura, almeno. Nonostante le vittorie accumulate, si finisce col perdere la partita, nel momento in cui altri personaggi che funzionano meglio, e non importa quale sia il pensiero di cui sono portatori, si fanno avanti.
Conosco pochissime persone che riescono a sfuggire al meccanismo: i Wu Ming, per esempio, che dallo spettacolo si tengono lontanissimi (forse perché fin dai tempi di Luther Blissett conoscevano molto bene Debord). Davvero è difficile, e non è soltanto una questione di social, anche se ovviamente i social contano perché, sempre che lo si voglia o meno, ti sottraggono energie e, velocizzando il pensiero, tendono a renderlo meno sfumato, a farti ragionare per dicotomie.
Del resto, scrivere questo è impopolare: se mi guardo indietro, mi rendo conto che da almeno due anni ripeto la stessa cosa, si parli di femminismi o migranti o terremoto. Dunque, queste benedette vie di resistenza altra occorre pur trovarle, per evitare di restare a guardare con la malinconia nello sguardo (che, no, non è nostalgia: preferisco mille volte la me stessa di oggi che quella di dieci, venti, trent’anni fa). E non ho ancora, prima che me lo chiediate, la risposta.
Ps. Solita nota di servizio. Domani parto per Matera, per la festa di Radio3: il blog tornerà ad essere aggiornato lunedì. Finirà pure questo settembre, eh.

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