LUOGHI DOVE VENIRE AL MONDO E' PIU' RISCHIOSO

Laddove si impatta con la fragilità della parola scritta. Da “Di mamma ce n’è più d’una”, due anni prima della morte di Nicole Di Pietro a Catania.
“In Italia la mortalità per parto è alta. Nel giugno 2012, l’Istituto superiore di Sanità studia cinque regioni, rappresentative del 32% delle donne italiane in età fertile, usando le schede di dimissione ospedaliere e scoprendo che il valore non è più di 4 morti ogni 100mila nati vivi, ma di 11,8, il 63% in più, contro una media dell’Europa occidentale di 7-8. Lo studio, condotto dal Reparto salute della donna e dell’età evolutiva del Cnesps-Iss, ha raccolto i dati dal 2000 al 2007 di Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Sicilia. Tra il 2000 e il 2007 in queste Regioni sono stati registrati 1.001.292 nati vivi e 260 morti materne con un’età media di 33 anni. La mortalità materna è 3 volte più alta in Sicilia (24,1) rispetto a Toscana ed Emilia Romagna (7,6), ma influiscono anche fattori come l’età e il taglio cesareo. Per le donne con gravidanza oltre i 35 anni il pericolo di morire è doppio, mentre è triplo per chi fa il taglio cesareo. Anche il basso livello di istruzione e la cittadinanza straniera sono associati a un maggior rischio di mortalità.
Andando a leggere il rapporto 2011 Osservatorio civico sul federalismo in sanità, si trovano conferme e si scopre quel che è già noto per molti altri aspetti della vita sociale. Che il sistema sanitario funziona in modo estremamente diseguale e che, in altre parole, esistono due Italie. Quella delle madri del Nord con la fascia marsupiale ecologica. E quella delle madri del Sud, che muoiono di parto sette volte più che nel resto del paese e dove la mortalità nei primi mesi di vita è del 40% superiore alla media nazionale.
Già nel 2009, nel rapporto Osservasalute, si nota che se il tasso nazionale di mortalità nel primo mese di vita è basso (il 2,5 per mille nati vivi), le differenze tra Nord e Sud sono notevolissime: si va dai valori minimi di Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana (1,8, 1,8 e 2,2) a quelli di Campania e Calabria, dove si schizza a 3.1 e 3,7. Nel 2010 il tasso scende ancora: la mortalità infantile è del 3,3 per mille, quella neonatale del 2,4 per mille (è il 5,3% in Gran Bretagna, 6,7% negli USA).
Nel rapporto 2010, curato dall’’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, le cose si fanno più chiare. Se andiamo a esaminare la Sicilia, si nota che i punti nascita sono per lo più presenti in case di cura private accreditate. I cesarei sono stati il 53,27% (a Palermo il 58). La mortalità neonatale è più alta che nel resto del paese: 3 casi per 1.000 nati vivi (valore medio italiano 2,4, ricordate).
La Sicilia, peraltro, registra uno dei casi mediatici più noti degli ultimi anni: nell’agosto di quello stesso 2010 due medici vengono alle mani in sala parto a Messina, causando un ritardo nell’intervento che finisce col portare gravi conseguenze a madre e figlio. Sempre a Messina, poche settimane dopo, il primario si rifiuta di far nascere un bambino di oltre quattro chili col cesareo. Undici ore di travaglio per la madre e tre ischemie per il neonato. Per molti, è l’effetto della circolare dell’assessore Massimo Russo che invita ad abbattere del 20% il numero dei cesarei dopo la diffusione dei dati sull’eccesso di interventi chirurgici in Sicilia. “Eravamo tutti d’ accordo per il taglio cesareo- ha raccontato la madre del bambino – e proprio nessuno aveva pensato al parto naturale. Del resto le dimensioni del bambino lo sconsigliavano assolutamente. Non capisco perché l’ unico ad insistere sia stato il primario Abate. Pensi che tutti i suoi colleghi erano favorevoli al cesareo ma quando lui lo ha vietato non hanno potuto far niente. Il primario addirittura ha tolto di mano a mio marito i moduli con i quali ci assumevamo la responsabilità di far praticare il cesareo”.
In Sicilia i bambini finiscono spesso in cronaca: nel reparto di Ostetricia di Partinico sono morti otto neonati in due anni; a Catania, all’ospedale Santo Bambino, due neonati nello stesso giorno, un giorno di settembre del 2009. In cifre, e di nuovo: contro una media nazionale (e dunque non su sole cinque regioni) di tre donne morte ogni 100 mila bambini nati, quella siciliana è di 22. Fra i motivi più importanti l’ età della donna, superiore ai 35 anni, il taglio cesareo che è associato a una morte materna tre volte più che nel parto naturale, emorragie, trombo-embolie. Inoltre. In tre mesi, sempre nel 2010, sono arrivate le denunce di sette donne che hanno perso i figli al momento del parto, soprattutto in piccoli reparti. Perché il problema della Sicilia è che sono molti i punti nascita con meno di 500 parti l’anno, collocati spesso in sedi disagiate e con poco personale. Nelle cliniche private convenzionate con la Regione, infine, il dato sui cesarei è altissimo: l’81,9% dei casi nel 2009, mentre nelle strutture pubbliche si scende al 45,5.
Ma nel resto del Meridione non va meglio. Mentre, al Nord, il virtuosissimo Friuli presenta la miglior percentuale italiana con il 23,64 dei cesarei, i medesimi sono il 48,15% in Calabria, con il peggior tasso di mortalità infantile: 5,1 casi per 1.000 nati vivi, mentre la mortalità neonatale è di 4,9, anche qui il peggior dato a pari demerito con l’Abruzzo. Ancora. I cesarei sono il 50,18% in Puglia (a Foggia, nel gennaio 2010, due bambini, Giorgia e Samuele, muoiono a poche ore dal parto. Forse per setticemia). Sono il 47,76% in Molise, il 48,8% in Basilicata. Per i cesarei, il primato va alla Campania: il 61,96% , e anche in questo caso la mortalità infantile e neonatale è superiore alla media nazionale. Anche qui c’è un motivo: nella regione esistono 82 punti nascita, tra pubblici e privati, di cui 24 con meno di 500 parti l’ anno, centri troppo piccoli che non possono fornire le cure necessarie a madre e figlio. La conseguenza è che, nel 2009, 1690 neonati hanno dovuto essere trasportati in altre province e talvolta anche in altre regioni. Il 9 maggio 2010 una madre di 37 anni, con taglio cesareo programmato, è protagonista di una tragedia dell’assurdo: il piccolo nasce agli Incurabili. Parametri negativi, rianimazione. Dopo dieci minuti viene intubato. Arrivano i medici della Terapia intensiva neonatale con l’incubatrice portatile. La mettono in ascensore. L’ascensore si rompe. Salgono a piedi mentre i tecnici cercano di riparare il guasto. Si perdono quindici minuti. Altri trenta per le operazioni di preparazione. Il neonato muore due ore dopo il trasferimento al Monaldi.
Le prime ore di vita sono determinanti: coloro che hanno avuto un figlio o una figlia nati dopo un parto difficoltoso, o prematuro, lo sanno. Conoscono ogni variazione dei monitor, soppesano il tono di voce e lo sguardo anche del neonatologo più allenato a mentire: ventiquattro ore, quarantotto, l’importante è che il tempo passi, l’importante è mettere minuti, poi ore, poi giorni fra quella nascita così sottile, così fragile, e il futuro, l’importante è guadagnare possibilità di vita. I dati Istat del 2008 dicono che un terzo dei duemila bambini che non superano l’anno di vita muore nel giro di un giorno, e il 40% entro un mese. Dunque, i bambini del Sud hanno più possibilità di non farcela solo perché nascono nel luogo sbagliato, dove i punti nascita non sono attrezzati e dove si ricorre a quei trasferimenti che costituiscono un momento di enorme criticità. In Campania la percentuale di mortalità per i bimbi sottopeso è del 21 per cento, in Friuli è del 12 e nel Nord Italia del 14.
Inoltre, nella stessa Campania dove i trasferimenti si rendono indispensabili, le madri sanno di non poter contare sull’assistenza sanitaria: oltre il 60 per cento delle donne si rivolge a un ginecologo privato e solo l’11 frequenta un consultorio pubblico. Non solo: per fare esami di laboratorio o ecografie, le partorienti campane si rivolgono a un centro pubblico nella misura del 40,1 per cento contro il 70,9 a livello nazionale (l’88,7 in Toscana). In altre parole, dall’inizio della gravidanza al parto, la quota di spesa sanitaria che in Campania finisce in mano ai privati è dell’85-90 per cento del totale”.

3 pensieri su “LUOGHI DOVE VENIRE AL MONDO E' PIU' RISCHIOSO

  1. spesso sono gli stessi luoghi dove c’è una predisposizione genetica a vincere i concorsi pubblici da parte di persone con lo stesso cognome o affini. Ma non è una congiura dei cromosomi

  2. Non conosco i tempi di attesa medi per visite, esami e altre prestazioni in strutture pubbliche al Sud rispetto al Nord, ma mi aspetto che siano più alti. Però non credo affatto che questo sia il motivo principale del maggior ricorso al privato: sono convinto che si tratti di una questione culturale, della convinzione diffusa che il privato sia migliore, e tanto migliore quanto più caro.
    Ho anche l’impressione che questa convinzione (unita all’inclinazione a farsi operare in una clinica privata senza terapia intensiva) sia maggiore fra le persone meno istruite; non ho dati, se non tanti aneddoti.
    Certo, il fatto che ci siano così tante strutture (pubbliche e private) a più di un’ora di distanza dal più vicino centro di terapia intensiva neonatale non aiuta.

  3. Rispondo al commento di Pietro con qualche informazione, del tutto individuale, non fa scienza ma magari è esperienza.
    I tempi di attesa per gli esami prenatali nel pubblico a Catania, nella mia esperienza, sono improponibili. Di solito le future mamme prenotano appena scoprono di aspettare un bambino. Io non conoscevo l’uso, quindi non l’ho fatto e per quei pochi esami necessari sono stata costretta a rivolgermi a strutture private.
    Per la cronaca, ho poi partorito nel pubblico, e subito un giustificato cesareo.

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