“Mamma, perché vai a lavorare?”. Mi capita fra le mani un libro per bambini che si chiama proprio così, lo ha scritto Cristina Petit, che è una blogger e una maestra. E di certo lo ha scritto con le migliori e più generose intenzioni. Però. La mamma che dialoga sul bambino, e che gli spiega perché va a lavorare (perché il suo lavoro le piace, e perché i soldi servono) si impegna infine in questa conversazione:
“Ok mamma! Ma…se va già a lavorare il babbo non bastano i suoi soldi?”
“No, amore, non bastano…e poi alla mamma piace lavorare…”
“E allora? A me mi piace stare con la mamma! Almeno puoi chiedere al tuo capo se puoi lavorare un po’ meno!”
“Gliel’ho già chiesto…”
“E cos’ha detto lui?”
“Ha detto che adesso ci pensa?”
“Mamma, incrocia le dita e speriamo che ci pensi bene”
Ripeto, sono sicura che le intenzioni siano ottime. Ma è difficile, difficilissimo trovare le parole giuste per parlare ai bambini senza incappare in un modello o nell’altro. E allora mi chiedo anche se non sarebbe necessario un momento di ripensamento da parte dell’editoria che si rivolge ai ragazzi (e che, a quanto sembra, è in procinto di sfornare nuove mirabolanti serie-ombrello-con-ghostwriter e un sacco di gadget, sull’altro versante) e ai bambini più piccoli. Perché è un pubblico delicatissimo e fin troppo sfruttato, negli ultimi dieci-quindici anni.
Non è certo il caso dei libri di Petit, che sono piccole e delicate conversazioni. Eppure, questa mamma che sogna il part-time va a delineare una realtà che appare desiderabile, quando, per molte, moltissime madri, il part-time è una scelta obbligata. Così come il rimanere a casa.
Il destinatario di questo libro è un bambino, come giustamente lei ricorda. Il quale, leggendo tale testo, potrà identificarsi con il bimbo del racconto solo se la propria madre ha un lavoro a tempo pieno (ipotesi sempre più difficile da verificarsi). In caso contrario non saprà che farsene dell’intero dialogo, o forse dell’intero libro.
Difatti la domanda che mi faccio da un po’ di tempo a questa parte è: chi fruisce realmente di questo genere letterario che affolla gli scaffali delle librerie? Non si tratterà forse del tentativo delle case editrici di intercettare la categoria in espansione dei genitori fragili e insicuri di sé?
Nei suoi primi anni di vita (perché adesso che ha sei anni siamo passati tranquillamente ai Tre Moschettieri e ai fumetti dei Peanuts),
ho tentato di leggere al mio piccolo libretti simili. Si annoiava moltissimo.
Sì, davvero un sentiero minato. E come sappiamo le buone intenzioni possono portare in luoghi spiacevoli. Ho dato una scorsa ai titoli dell’autrice e mi sono reso conto che purtroppo non ha visto “Full metal jacket”.
Non ho letto il libro e pertanto mi baso sulle pochissime informazioni qui presenti (quanti anni ha il bambino? perché sta a casa?).
Ma qual è l’opinione della scrittrice e maestra?
Io mi interrogo molto su questa faccenda. Ho frequentato scienze della formazione a Torino. E il docente di “Psicologia dello sviluppo”, che oltre a fare il pastore evangelico è anche una delle figure più ingombranti del corso di laurea, diceva a circa trecento ventenni: “E’ bene che la madre resti accanto al figlio per tre anni dalla nascita, non andate a lavorare, non lasciatelo, è il momento più bello della sua vita, lo perderete per sempre”.
Io purtroppo non avevo bombe a mano a portata (l’ho sempre odiato, oltre al fatto che c’erano velate minacce antiabortiste nei suoi testi).
Ma chi l’ha detto che il genitore deve stare appiccicato al figlio per tre anni? Per poi far cosa? Mollarlo? E cosa fa in quei tre anni?
Capisco l’importanza di stargli vicino. Ma non è necessario diventare la sua ombra, per così tanto tempo. E poi esistono anche altre figure che possono benissimo prendersi cura del neonato\bambino.
ammesso che abbia un senso impegnarsi in una perenne e impossibile gincana mentale che magari eviterà modelli e stereotipi, ma produce mostri di correttezza politica – linguistica, politica e giuridica.
Cosa ci sia di politicamente scorretto in questo che giustamente definisci “delicato dialogo” – anche piuttosto realistico – non lo capisco.
Si può parlare di cibo e cucina anche se nel mondo c’è chi muore di fame. E lo stesso vale per questa mamma che sogna il part-time, quando c’è chi purtroppo sogna il lavoro.
Vuol dire, Ekerot, che quando avrai un figlio, sulla tua scheda ci sarà scritto Genitore 3.
Come Daitarn3?
Perspicace.
Certo, cominceremmo forse a fare qualche progresso se una conversazione del genere avvenisse tra un padre e il figlio, o la figlia. Perché se è indubbio che di cura i figli hanno bisogno, e che quella cura dovrebbe e potrebbe essere ottimamente fornita anche da servizi o figure terze, è altrettanto vero che quella da parte dei genitori è fondamentale, ma non è necessariamente la madre l’unica a poterla offrire. Il problema è che oggi troppo spesso deve, e non ha scelta. Libri che offrissero stimoli diversi potrebbero aiutare, e forse rifletterebbero un po’ meglio la realtà, in cui anche ai padri piacerebbe avere (e veder rappresentato) un ruolo diverso.
Quanto alle parole da usare con i bambini, condivido in pieno l’invito a pensare molto bene, in generale, alla responsabilità di come ci rivolgiamo a loro.
Sinceramente do ragione a Ekerot. Se io sto per tre anni interi con lui, nel momento in cui inizia ad andare all’asilo, non sarà abituato a stare tutto il giorno con gli altri, con bambini come lui, in un ambiente diverso rispetto a casa sua. L’unico modello di riferimento costante sarà stato sempre e solo la madre, adulto per di più. E poi non pensiamo che, una volta lasciato il bambino all’asilo, improvvisamente si possa trovare un lavoro, soprattutto dopo essere stati tre anni fuori dal circuito lavorativo. E il part-time, non prendiamo in giro, non serve assolutamente a nulla. 4 ore in ufficio, al bar, in negozio (se si è ingegneri o avvocati, per esempio, il part-time non è proprio possibile svolgerlo), a cosa servono? Guadagni a malapena per fare la spesa, non hai neanche iniziato a lavorare che già te ne devi andare, serve solo per tenersi occupate 4 ore. Non l’ho mai reputato un orario lavorativo, ma uno pseudo tale. Bisogna prendere atto che se vogliamo questa benedetta emancipazione, dobbiamo anche noi darci da fare.
A diana corsini, non è questione di correttezza, ma ecco io da questo dialogo capisco che per i papà è scontato, normale e giusto lavorare, senza dubbi e sensi di colpa perché vedono poco i figli; che da loro non ci si aspetta che pietiscano dal “capo” penalizzanti e malvisti orari ridotti; mentre le madri, sì anche loro devono/vogliono lavorare, ma anche poi farsi carico, loro sole, dei disagi, delle penalità professionali, dei sensi di colpa.
Ma io voglio stare con la mamma, si fa dire alla bimba.
Ma il papà? Non pervenuto.
che sconforto, siamo nel 2013 e dobbiamo ancora vedere questa colpevolizzazione di una donna che va a lavorare, e deve giustificare perchè lo fa, e perchè il suo orario è quello che è. del padre, giustamente, non si parla, è scontato che vada e la sua presenza non è necessaria. peccato che non guadagni abbastanza da mantenere tutti, questo sì. che poi, quando quest’uomo magari a cinquant’anni, come tanti, troverà un’altra, e se ne andrà, chi darà un lavoro alla mamma? (nessuno, a 50 anni, figuriamoci).
comunque sono purtroppo problemi immaginari, quando rimani incinta in Italia, paese che difende la vita, in genere ti licenziano.
Che brutta una società nella quale non ci si aspetta dal padre che passi con i figli tanto tempo quanto la madre…
Magari sbaglio, ma concordo poi con chi suggerisce di non aspettare tre anni per allenare i bambini ad essere animali sociali. Tre anni quasi esclusivi con un genitore sono un imprinting quasi indelebile.
Poi, chiaro, una situazione standard non c’è. L’ideale sarebbe una società che permettesse alla coppia di strutturarsi come vogliono, ricordandosi che forse è meglio parlare di diritto del bambino a una famiglia che non viceversa. I figli non sono accessori. Se entrambi vogliono lavorare 24/7 con ambizioni di carriera executive, sempre in viaggio e magari spesso stressati, ecco, magari non sono le condizioni ideali per crescere dei figli. Ma forse è la società di oggi in a nutshell, lavorare di più per permettersi tre smartphone e quattro iPad così il bambino può giocare tranquillo e non disturbare mentre noi ci rilassiamo su facebook…
Magari l’autrice ha intenzione di rappresentare una situazione reale e consueta, senza usare filtri pedagogici.
In questo caso avrebbe il merito di lasciare ai lettori la piena libertà interpretativa, dimostrando così fiducia verso questi. Non si porrebbe cioè ad un livello di superiorità rispetto a questi.
Non so, propongo questa prospettiva, che credo si inserisca nella riflessione più ampia sul ruolo delle persone che scrivono.
È plausibile la mia prospettiva?
Mi affido a te, Loredana, che conosci il libro.
Mi affiderò naturalmente al mio giudizio, dopo la lettura del libro, appena avrò risolto qualche questione personale.
Premesso che sono completamente d’accordo sul fatto che il nido e la socializzazione sono importantissimi (e di conseguenza mi sono regolata con i miei figli, e lo specifico a scanso di possibili equivoci), credo che gli ultimi commenti riportino al nodo. Perché se non pensiamo in primo luogo a riequilibrare i ruoli e ristrutturare il sistema, rischiamo di veder solo peggiorare la situazione presente, a mio avviso. Con le classi più abbienti che si possono permettere la tata dopo il nido (o asilo, o scuola di vario grado), perché l’orario di lavoro magari di entrambi (più la spesa e la cura della casa con tutto quel che comporta, non dimentichiamolo) supera quello offerto dai servizi (ma la tata è anche domestica, in molti di questi casi), oppure un genitore – di solito la madre – che sta a casa perché i soldi bastano, e comunque il nido c’è quasi sempre, se si vuole, perché si può pagare. Classi che in genere poco lottano perché qualcosa cambi, perché spesso ne sentono meno il bisogno. E con le classi meno abbienti costrette a barcamenarsi, a utilizzare magari la nonna (molto meno il nonno) perché la madre possa permettersi di lavorare – con tutto quello che in quel “permettersi” è contenuto. E sappiamo che è quasi sempre la madre a dover “scegliere”, e sappiamo che spesso i servizi non ci sono o non bastano, e sappiamo che la colpevolizzazione è costantemente in agguato, grazie anche a stereotipi che non riusciamo a intaccare. Per questo sarebbe davvero importante parlare in modo diverso. Chiaro che per chi ha più disponibilità economica, spesso anche se non sempre, il problema si pone meno. Dunque è qui che l’intreccio tra questione di genere e questione di classe a me dice che lavorare sull’immaginario è tutt’altro che insignificante. Avere tempo per figli e nipoti, oltre che soldi per mantenerli, è bello per i genitori e per i figli, per i padri come per le madri. Direi che è bello poter scegliere davvero, e libri diversi sono una delle strade per arrivarci.
Infatti Ilaria, concordo molto con la questione “classe”. Vedo molte persone impermeabili alla questione della disparità di genere (“con tutti i problemi che ha la scuola/la società oggi ti preoccupi di questo?” “io non ho paura che mia figlia diventi una velina, in famiglia le diamo il buon esempio…”): come se il conto più salato di questa disparità non la pagasse proprio chi ha meno possibilità.
Viene la crisi, e il gatto affamato si morde la coda.
http://www.oggitreviso.it/pi%C3%B9-di-3mila-bambini-non-andranno-allasilo-69408
Immagino che il fenomeno non riguarderà i figli delle persone abbienti, che troveranno le risorse per pagare i buoni mensa sempre più cari, hanno due auto per portare i figli a scuola se lo scuolabus non c’è più, per le gite, per le attività ecc., e certo non mancheranno di fornire ai loro figli i preziosi stimoli e educazione e socializzazione dei tre anni di scuola materna (che oggi per molti figli di stranieri è ad esempio il posto dove imparano l’italiano prima di arrivare alle elementari).
Chi non potrà permetterselo, i bambini a casa; e le madri, le nonne, ancor più inchiodate al ruolo di cura.
Ho frequentato nido e materna ma non ho figli, dunque intervengo in punta di piedi 🙂 secondo me non ci sono stimoli, soldi o educazione che possano sostituire la frequenza della scuola dell’infanzia con altri bambini, adulti diversi da genitori/parenti/tate. Oggi poi l’insegnamento in quel grado di istruzione è molto cambiato, più stimolante. Un vero peccato perderlo. Che poi i piccoli vogliano la mamma 24/7 e facciano un po’ di capricci è normale, ci siamo passati tutti e si viene su bene lo stesso, una madre che lavora alla fine è un ottimo esempio. Rifletterei poi su quanto questo modello irraggiungibile di perfezione che società/pediatri/pedagoghi impongono alle madri forse intimidisca le più insicure che nemmeno ci provano a “buttare” una discussione con il compagno/marito latitante o il datore di lavoro per condizioni più eque. Sul lavoro delle donne, le ricadute miracolose sull’economia e sulla civiltà italiana se si arrivasse almeno al 50% della forza lavoro ha detto delle cose fantastiche Chiara Saraceno. Mi piacerebbe molto vederla e sentirla di più nei media, sarebbe stata un’ eccellente ministra al Welfare
A proposito di società e parità: come la cosa a volte si veda da piccoli particolari come i cartelli stradali.
http://congedoparentale.blogspot.se/2013/09/paese-che-vai.html
(Germania vs. Svezia)
Il lavoro serve (a tutti) per avere uno stipendio per campare e realizzare gli altri progetti di vita. Punto e basta. Qualcun* riesce a fare qualcosa che gradisce o che l* fa sentire utile. Ma non è sempre così. Gli uffici sono pieni di impiegat* annoiat* e depress*.
Va bene piantarla con la retorica delle madri (sempre e solo loro) che “devono” stare a casa o fare il part time, ma anche con ‘sta storia di “uh quanto è bello lavorare, sbattersi per 9-10 ore al giorno sputando sangue (e bile) sotto il Marchionne di turno etc etc” Il nostro obiettivo (di uomini e donne) dovrebbe essere l’autodeterminazione, non un generico “lavorare”. E’chiedere troppo?
Anche nelle storie più belle, in fondo, c’è sempre un “capo” che decide…