Qualche giorno fa mi sono fermata davanti alla vetrina di uno di quei negozi non definibili, che vendono quaderni, penne ma soprattutto gadget: cuori gonfiabili rossi o rosa, tovagliolini di carta multicolori per le feste di compleanno, cose piuttosto inutili ma decisamente vistose. Il giorno dopo era la festa della mamma. Dunque, fra le cose inutili e vistose c’erano grembiuli, calamite, tazze per la colazione, targhe di riconoscimento dedicate alla mamma. Tutte incorniciate da cuori. Tutte con un solo messaggio: sei la regina della casa, sei paziente, sei dolce, sei amorosa, come cucini tu non cucina nessuno, sei l’ultima a sederti a tavola mentre gli altri mangiano e per questo grazie, mamma.
Ma dai, mi sono detta: possibile? Sembravano, in effetti, parole prese a prestito da un galateo degli anni Sessanta. Eppure erano là, davanti ai miei occhi, e c’erano non poche persone che le compravano.
Ecco, ogni tanto ho l’impressione che molte di noi tappino una falla e che, come nei vecchi fumetti, l’acqua schizzi via da un altro buco, pochi centimetri più in là. E che mani e piedi non bastino. Non quelli di una sola persona, almeno.
Faccio un esempio – e, per favore, fuor di polemica – che riguarda un libro che leggerò. Si chiama “10 grandi donne dietro 10 grandi uomini”, esce per Laurana e lo ha scritto una donna, una giornalista, Isabella Marchiolo. Questa la presentazione:
“Questo libro vuole dunque riportare le signore dove è più giusto che stiano: un passo in avanti, ad affiancare non solo i mariti ma anche i figli, i fratelli e i padri. Michelle Obama che si presenta a un colloquio di lavoro con il passeggino, Antonietta Vendola che impasta i cavatelli con suo figlio Nichi, Rita Borsellino che marcia con in mano l’agenda rossa, Hillary Clinton che sa perdonare pubblicamente Bill che l’ha tradita, Mina Welby che mette al centro del suo amore il desiderio di morire del marito. E ancora Harper Lee, Pilar Saramago, Anna De Grazia, Tahereh Saeedi, Yoko Ono. Eccole le dieci donne che ci vengono incontro da queste pagine”.
Lo leggerò, ripeto. Perchè le parole dell’incipit mi danno da pensare. Molto.
“Se mi chiedessero di stilare un decalogo di cose, persone o categorie da salvare, un ipotetico bagaglio utile del mondo di oggi da portare con noi nel futuro, io non potrei fare a meno di pensare alle donne.
E non è per una sorellanza di genere, perché anch’io sono una donna. No, questa sarebbe semplicemente un’associazione logica: le donne generano vita, e senza di loro a un certo punto dell’umanità non rimarrebbe comunque nient’altro da salvare. Insomma, questo significa che non potete estinguerci o decidere di cancellarci da un elenco ideale delle cose importanti. Inoltre credo poco alle possibilità della scienza di procreare al di fuori di un grembo femminile. Dunque, almeno nel futuro che fino ad adesso riusciamo a immaginare, siamo ancora indispensabili”.
Aggiungo (così ci capiamo meglio)
L’altra sera un mio giovane amico mi chiedeva: quali sono le cose che ti hanno fatto crescere di più nella vita (ovviamente si parlava non di statura ma di umanità)?
Ho risposto: dire “per sempre” a una donna e sentirmi chiamare “papà” da un bambino.
Molti uomini ti diranno la stessa cosa.
Perchè per un uomo la paternità può essere un motivo di orgoglio e per molte donne oggi dev’essere materia d’imbarazzo in società e comunque di mille distinguo?
@ Valter Binaghi,
perché ci sono donne che non vogliono, non possono, non riescono a diventare madri, ma non per questo sono meno donne;
perché ci sono uomini che non vogliono, non possono, non riescono a dventare padri, ma non per questo sono meno uomini.
Non è la “natura” che mi fa diventare madre: i miei figli non nascono per partenogenesi…
Perché siamo inchiodate da millenni a quella rappresentazione, caro Valter, e lo sai benissimo. Basta, ok? Del libro si riparla più avanti, grazie.
@Danae
E’ la logica del minimo comun denominatore.
Qui non è questione di meno o di più, è questione che a furia di togliere opzioni creative quello che resta è, appunto, l’attaccapanni vuoto.
La base puramente giuridica di una società ridotta all’osso.
Solo le piante restano ontologicamente uguali a se stesse, dal seme al frutto. Uomini e donne si diventa. A furia di volere e potere.
seguo il consiglio di Loredana, e sospendo per il momento il confronto
Ma Valter, anche per me diventare madre è stata l’esperienza che più mi ha fatto crescere e cambiare. Ma se io posso dire che la maternità è stata l’esperienza più preziosa PER ME, è diverso se il mondo mi dice che io sono preziosa solo, o principalmente, in virtù della mia potenziale (o effettiva) maternità.
Francesca, nessuno credo abbia detto questo (non io comunque).
Mi limito a constatare che quello che mi appare una ricchezza e un compimento genera un imbarazzo a mio avviso ingiustificato.
Se la donna è stata ingiustamente confinata al ruolo riproduttivo, non è rimuovendo l’identità di genere che si risolve il problema.
Il discorso è lungo, annoso, impraticabile in poche righe, lo ammetto.
Oggi, come sempre ultimamente, sono felice ma aggressiva e inca@@osa.
Amo alla follia mio figlio e “ahimè” di più mio marito.
Ho lasciato, temporaneamente, il mio caro lavoro per accudire ( :-8 )meglio entrambi, consapevole del guazzabuglio emotivo nel quale mi stavo cacciando.
Non rimuovo nessuna identità, ma posso dire con una certa sicurezza che per me l’unica crescita vera è stata quella relativa alla mia persona.
Guardarmi dentro, giorno per giorno, accettando anche i cosiddetti lati oscuri. Mio figlio ha certamente contribuito, come mio marito e le altre mille esperienze che mi trovo e troverò ad affrontare. Con o senza figlio avrei volontariamente iniziato questo percorso.
Adesso basta, davvero.
ho problemi al pc e non so se il commento è già apparso, lo reinvio…
Francesca dice: dice: “…anche per me diventare madre è stata l’esperienza che più mi ha fatto crescere e cambiare. Ma se io posso dire che la maternità è stata l’esperienza più preziosa PER ME, è diverso se il mondo mi dice che io sono preziosa solo, o principalmente, in virtù della mia potenziale (o effettiva) maternità”.
Io non ho mai sostenuto che noi donne siamo preziose solo o principalmente per la maternità, e tra l’altro le donne del mio libro non sono tutte madri. Anzi, io considero la maternità come una condizione non standardizzata (ad esempio non credo affatto nel sacrale “istinto matermo” che ogni donna dovrebbe replicare automaticamente e in ugual maniera). Una condizione che comunque cambia per sempre la vita di una donna, a qualcuna nel bene, a qualcuna nel male. Nel mio primo romanzo parlai di una donna che abbandona due figli piccoli per sparire nel nulla insieme al suo amante, e che proprio al figlio poco più che neonato raccontava di questo amore, nel tentativo di spiegare ciò che provava.
PER ME la maternità è l’esperienza più importante e piena che abbia mai fatto, così come la paternità lo è per un padre. Eppure per una donna s’innescano subito meccanismi più complicati, che implicano sensi di colpa, inadeguatezze e frustrazioni, tutti imposti dall’esterno. Io non mi sento sminuita nè offesa da questo mio sentire una forza primordiale nella maternità, un sentire che mi accomuna a tante donne senza per questo omologarmi o spersonalizzarmi. La circostanza unica delle donne di contenere fisicamente la vita – circostanza che per concretizzarsi presuppone comunque una libera scelta – non mi fa sentire degradata ma speciale. La maternità ci ha storicamente “inchiodate a una rappresentazione” parziale di noi stesse? Verissimo. Cara Loredana, io ancora mi sento dire che se volevo fare la tal cosa (ad esempio cose come scrivere un libro, o magari pure perdere due ore dal parrucchiere), be’ “allora non dovevo fare figli”. Ma questo non basta a farmi demonizzare ciò che per me rimane un dono meraviglioso della natura, così come tanta cattiva opera dell’umanità non basta a distruggere valori di per sè buoni ma mal applicati in modelli sociali errati.
A Francesca preciso che si tratta di mie opinioni: quando scrivo sono libera di esprimere le mie idee senza volerne fare un’indicazione collettiva di pensiero. Dunque io non sono il “mondo” ma una singola donna che dice ciò che pensa. Nè credo che le mie parole possano ferire chi non può o non riesce ad essere madre. Non lo credo perchè so che questa non è la mia intenzione, e tanto mi occorre per non ritenere di giustificarmi da una simile supposizione di meschineria.
Loredana non pensi che basandoti su un pregiudizio, perché di pregiudizio si tratta visto che il tuo pensiero si basa sulle prime righe del testo, ti comporti nello stesso modo di chi condanni essere vittima di stereotipi?
Ti consiglio di leggerlo, vedrai che l’INTERO libro va oltre i preconcetti e fornisce un quadro completo di cosa voglia dire essere donna e, come dice Isabella, per questo motivo “grande”.
Buona lettura
Rossella
Sfatiamo un preconcetto: non è vero che un libro non si possa giudicare dalle prime righe. Perchè se le affermazioni sono quelle che ho letto io, le contesto. Non penso che l’autrice si autosmentisca successivamente.
Isabella non si autosmentisce, ma sicuramente rifinisce il concetto (per chi abbia frainteso), lo rende completo e non parziale come è stato invece recepito fino a ora.
Mi sembra poi che ci sia un accanimento vero e proprio sull'”antico” quando è proprio guardando al passato ai suoi problemi e ai suoi pregi che si può migliorare il presente.
Detto questo Isabella ha già puntualizzato più volte che le sue parole non sono state capite e ha spiegato anche il perché, poi ognuno è libero di fare quello che vuole e di pensare quello che vuole.
Giudicare una persona dalla prima impressione o un libro dalle prime righe si può eccome, ma rimane sempre e comunque un pre-giudizio e non un giudizio vero e proprio. Con una conoscenza più approfondita siamo in grado di dare un parere “libero” nel vero senso della parola e non condizionato da schemi precostituiti.
La stessa cosa accade quando si pensa alla donna unicamente come madre: millenni di storia l’hanno raffigurata in questo modo e quindi il collegamento donna-mamma è presto fatto. E’ un pregiudizio. E’ la stessa cosa che state facendo voi.
Per cui vi state contraddicendo in un certo qual modo.
Leggete prima, il dibattito sarà sicuramente più interessante e soprattutto meno sterile.
“PER ME la maternità è l’esperienza più importante e piena che abbia mai fatto, così come la paternità lo è per un padre. Eppure per una donna s’innescano subito meccanismi più complicati, che implicano sensi di colpa, inadeguatezze e frustrazioni, tutti imposti dall’esterno.”
Non mi sembra che in Italia si tenda a demonizzare la maternità, soprattutto come esperienza soggettiva: mai sentito una mamma dire che essere madre sul piano emotivo, personale ecc. è una schifezza. Ma è chiaro che nel nostro paese una donna non può vivere la maternità in modo più o meno auto-conflittuale, mentre così non è per il padre: non esiste per lui, dopo anni di studio, di fare il mammo e casalingo; nessuno gli chiede di mettere in pericolo il suo posto di lavoro stando a casa per un anno; nessuno lo giudica se sottrae tempo alla famiglia per dedicarlo al lavoro o gli dice che siccome ha voluto avere dei figli, ora che vuole, pure un lavoro? E questo non è dovuto al “mamma è brutto”, bensì al “mamma prima di tutto, mamma nonstante tutto” con cui anche tu personalmente ti scontri.
Di recente ho letto su Internazionale un articolo sul welfare in svezia. L’articolo dice tra l’altro che le aziende fanno pressione sui padri perchè prendano il congedo di paternità, perchè il contrario darebbe una cattiva immagina dell’azienda, politicamente scorretta e maschilista. E c’era una frase, che forse aveva un tono anche ironico, che cito a braccio: i padri prendono il congedo parentale tanto quanto le madri, ma non c’è parità: infatti le madri hanno il diritto di ammettere che si annoiano in questo periodo lontane dal lavoro, mentre i padri devono mostrarsi entusiasti di cambiare pannolini.
Ecco, quasi mi veniva da piangere d’invidia mentre leggevo…
Francesca, anche io, come te, combatto questa mentalità secondo cui se siamo madri dobbiamo essere relegate in questo ambito e sacrificate in ogni altro aspetto della nostra vita. Non mi piace però il corollario che spesso accompagna questa necessaria battaglia culturale: infatti se da una parte la società, facendo torto alla nostra completezza di persone, ci “glorifica” con esaltazione quando siamo mamme orgogliose e prese dal nostro ruolo, dall’altra però quando noi contrastiamo questa visione parziale tendiamo a vergognarci se l’essere madri ci appaga. Come se fosse un delitto dire (parlo qui a titolo personale): sì, sono una giornalista e una scrittrice, amo il mio lavoro, ma essermi assentata un anno per la maternità non mi è pesato. Sì, non mi sono annoiata, non mi sono mancati i ritmi sfiancanti della redazione e sono stata felice di occuparmi dei bambini, portarli alla villetta o a teatro, preparare tutti i dolci che non potevo (e non potrò più) cucinare quando ero in servizio. Sì, non ho trovato riduttivo essere una mamma a tempo pieno. Certo qualcuno potrebbe giustamente obiettare: tu parli così perché questa pausa è temporanea, presto tornerai al lavoro e riavrai la tua vita fuori dal contesto materno. Ebbene, io rispondo che mi sentirei appagata anche se (avendone la possibilità economica) non lavorassi, e il motivo è semplice: mi sento appagata non come giornalista nè come madre ma come PERSONA; anche facendo esclusivamente la mamma continuo ad essere quella persona, quella donna, quella scrittrice.
E ugualmente libere siano le donne di dire il contrario, ovvero: se devo stare trenta sere al mese a casa con i bimbi e non posso concedermi i miei spazi mi annoio; se non lavoro, il lavoro mi manca; oppure, non allatto perché è troppo stressante e non ce la faccio.
Ribadisco: non ho mai sostenuto che donna uguale madre. Ma voglio dire che non dobbiamo cadere nell’estremo opposto e considerare la maternità (che, sottolineo ancora, è una scelta e dunque per fortuna oggi non può imporcela più nessuno) come un’esperienza che ci toglie qualcosa perché pensarla così ci rende “militanti” o “moderne”.
Isabella, ma chi ha mai svilito la maternità (e la paternità)? A me non sembra di aver letto commenti in questo senso, nè di aver sostenuto che la maternità toglie qualcosa alla persona. Poi ci sarebbe un bel discorsetto da fare su quanto vivere in Italia e voler essere madri tolga DAVVERO alla persona: ottocentomila donne licenziate perchè incinte, per esempio. O costrette alle dimissioni. E la gran parte, dopo il parto, non torna nel mondo del lavoro perchè non ce la vogliono, perchè non ci sono servizi, ecc. ecc.
Insomma, essere madri in Italia è tutt’altro che facile, in un paese che non demonizza ma anzi ESALTA la maternità a parole, salvo poi negare la possibilità di essere sia madri sia lavoratrici.
Come vedi, l’equivalenza idilliaca è molto pericolosa, se non si tiene conto di tutte queste sfumature. Ed è su questo che io ho espresso le mie perplessità. Che, sia detto per chi arriva qua incazzata nera, mi sento di ribadire avendo quasi terminato il libro. Se posso, naturalmente. Perchè se tu consideri modernità e militanza elementi negativi o peggio modaioli- e, credimi, questo nel libro si percepisce – il grosso rischio è di partecipare a questa mistica del materno che di fatto impedisce alle donne di poter essere anche altro. Perchè viviamo in un paese – e il Rapporto Annuale Istat lo ha drammaticamente denunciato – che butta le future madri a calci fuori dal mondo del lavoro.
Ho visto solo ora il post. Bene, rispondo. Loredana, io non pretendo che nessuno esprima perplessità sul mio libro, semplicemente ho replicato come è mio diritto. I temi trattati sottendono a un dibattito importante e controverso, dunque è chiaro che le opinioni siano tante e diverse. Credo però che tu (come altre persone che si sono espresse nei post) veda in me una divergenza di idee su concetti che invece mi trovano assolutamente d’accordo con te. Ti assicuro che nessuna meglio di me sa come essere madre penalizzi nel lavoro. Io – per dirtene solo una – ho subìto un declassamento di funzioni per aver “osato” prendere un lungo periodo di congedo. Io conosco bene le sottili intimidazioni attorno alle esigenze di una madre lavoratrice. Ciononostante ho difeso la mia scelta: il congedo è un diritto, e ne usufruisco.
Non considero militanza e modernità come elementi negativi, qualora però non siano spinti all’eccesso con atteggiamenti snobistici verso ciò che è diverso. Scusami, ma non capisco. Avere come aspirazione, oltre che il lavoro, i figli o dire – come ho sostenuto (apriti cielo) nel mio precedente post – che mi è piaciuto fare i dolci per mia figlia, significa essere “antica” in un senso dispregiativo del termine? Ma io l’ho detto e lo ribadisco. E nello stesso tempo sono una che legge e scrive romanzi all’una di notte e faccio mille altre cose magari considerate più “moderne” dei dolci. Dunque, all’estremo opposto, una casalinga secondo te vale meno di una giornalista?
Esaltare la maternità (e non maternità di un solo tipo ma differente per ciascuna donna) non significa dire che essere madre sia facile (almeno in Italia) e non mi sembra di averlo mai scritto. Quello che tu chiami, riferendoti al mio libro, “mistica del materno” è piuttosto – almeno nelle mie intenzioni – un sottolineare la forte impronta lasciata dall’esperienza di dare la vita, impressa a livello profondo nelle madri e che mi pare nessuna delle donne che hanno scritto questi post abbia negato. E’ cosa molto diversa (e io non lo faccio) sostenere che a livello sociale la vita di una madre e lavoratrice italiana sia un paradiso o affermare “fate figli e siate liete”. Ma se per denunciare le discriminazioni alle donne nel mondo del lavoro si dovesse stendere un velo di tabù su ciò che di prezioso e unico risiede nella maternità credo sarebbe pure questa una auto-discriminazione. E credo anche, se posso dirlo, che non siano poche le donne che la pensano così e che nel nostro paese vorrebbero una cultura e un sistema di servizi che permetta di essere lavoratrici e di avere una famiglia senza dover ogni volta entrare in lotta per difendere l’una ma anche l’altra aspirazione.
Isabella. Ti prego, è tardi. Ma quando mai ho detto che fare i dolci è più antico e meno importante rispetto allo scrivere? Quando mai mi sono sognata di dire che una casalinga è meno importante di una giornalista? Ma che è, l’ufficio stampa di Striscia fa scuola? Facciamo a capirci, ti prego. Altrimenti, se continui a mettermi in bocca cose che non ho mai scritto, chiudiamola qui. Abbracci e buona notte. E santo cielo.
e.c.: volevo dire “nel nostro paese una donna non può NON vivere la maternità in modo più o meno auto-conflittuale”
Scusate per i miei orari di ieri, spesso mi collego a internet nei momenti meno opportuni… Comunque non volevo attribuire a Loredana l’inciso sui dolci, le casalinghe ecc. La mia era una provocazione giacché tu avevi scritto (a proposito di Antonietta Vendola che prepara i cavatelli insieme a Nichi) che: “la maternità cavatelliana mi turba non poco”.
Sì, è bene capirci. Visto che la discussione è partita non da me ma da qui (con toni piuttosto critici), mi piacerebbe capire in cosa, a tuo avviso, nel mio libro si percepirebbe una connotazione negativa della modernità delle donne. Se non è dato chiarirlo posso basarmi solo su quello che ho capito io e che magari è una mia interpretazione scorretta.
Isabella – per esempio dal mio punto di vista: se parlo della signora Clinton mi interessa il fatto che è segretaria di stato, non che perdona i pompini al signor Clinton. Il privato è il fondamentale di tutti, non è un’alternativa possibile di tutti, quando qualcuno toglie dalla sua identità le forme del privato si arreca un danno enorme. Quando qualcuno invece si proietta solo sul privato fa un danno altrettanto enorme. Alle donne questa alternativa psicopatogena è suggerita continuamente, e tu la reiteri. Tu dici la mamma di Nichi è da ricordare per il suo modo di essere madre di Nichi. Ecco cosa ti si contesta – a me la mamma di Nichi mi interessa paro paro come le altre mamme, come lo sono io. Non mi frega dei suoi cavatelli non perchè disprezzi i cavatelli ma perchè sono un piano dell’esistere non alternativo ma differente e non rientra nelle cose importanti della valutazione pubblica. Perchè c’è anche il corollario per cui, siccome il materno sarebbe atto identitario e pubblico come il modo di fare il postino, ogni tanto arriva uno stronzo per strada e si permette di giudicare come dovrei educare mio figlio.
Spero di aver chiarito dove almeno io vedo attrito tra le tue e le mie posizioni.
Zauberei, sì, sei stata chiarissima fuori da ogni atteggiamento polemico. Il fatto che due pensieri siano differenti non significa che non si possa attuare un confronto. Capisco quello che intendi riguardo la dimensione del privato, però qui si tratta di una scelta di scrittura. L’impostazione che ho avuto in mente io quando mi hanno proposto il libro era quella di sottolineare il lato umano delle protagoniste, soprattutto perché sono tutte donne molto note, di cui si è detto di tutto. Ribadire le biografie di Hillary Clinton eccetera sarebbe stato ripetitivo e superfluo. Io ho scelto di fare quello che faccio di solito, ovvero un tipo di scrittura narrativa. Il mio libro non è un trattato sociologico sulle donne, né un testo di denuncia né un saggio. Ho scritto dieci racconti, e della Clinton, ad esempio, mi ha interessato l’introspezione rispetto all’episodio del tradimento o meglio di ciò che accade in un matrimonio quando ci entra un tradimento – e questo interesse verso un aspetto intimo della vita non mi appare psicopatogeno né esclusivamente di appannaggio femminile. Cosa – la reazione al tradimento – che non identifica Hillary, ovviamente. E’ chiaro che la Clinton è un avvocato, un segretario di stato e quant’altro.
Riguardo la Vendola poi, preciso che il racconto non è incentrato sul quadretto familiare dei cavatelli ma il sofferto rapporto tra Nichi e la madre (e il padre) legato all’omosessualità di Nichi. Nel caso della Vendola l’equivoco sui cavatelli deriva dal comunicato stampa, in cui si cita la signora come una massaia.
Credo che entrambi questi episodi – la Clinton e la Vendola – possano rientrare in un piano di valutazione pubblica, nel senso di situazioni comuni di umanità. Non per tutti, ovviamente, ma a me, ad esempio, colpisce che due anziani sentano il figlio che parla al Gay Pride e poi gli telefonino per scusarsi di non averlo accettato come omosessuale. Sono psicopatogena? No, e se qualcuno lo pensa pazienza… il pensiero è libero.
Non sto contestando quello che dici tu, ma soltanto esponendo la mia posizione, senza che questo voglia dire che tu o io dobbiamo convincerci a vicenda.