NOI, I POPULISTI DELLA LINEA B (AGAIN)

Probabilmente vado ad infilarmi in un vespaio.
Probabilmente lo faccio perché sono reduce dal quotidiano viaggio in
metropolitana dove, da brava snob populista, non posso non annotare
l’umiliazione (sì, l’umiliazione) di masse di uomini, donne e bambini costretti
a viaggiare come deportati, senza lo spazio per tirare un respiro profondo, in
mezzo alla puzza e all’immondizia, accogliendo il guasto giornaliero con
rassegnata sopportazione.
Qualche tempo fa, devo averlo già raccontato, un’autrice
televisiva mi ha detto: “ma guarda che in metropolitana, ormai, viaggiano
soltanto i vecchi e gli immigrati”. Ovviamente, da brava snob populista, mi è venuto da risponderle: “E se
fosse?”.

Vengo al punto e, messe da parte le motivazioni, riprendo
per la coda un polemicone che ha attraversato alcuni blog negli ultimi giorni.
Per il riassunto bastano pochissime parole. Matteo Bordone fa un
servizio per Le invasioni barbariche sul tipico sabato italiano. Per chi
volesse vederlo, Gianluca Neri lo posta qui. Trattasi di
un’incursione, anche divertente, negli stereotipi di massa: centro commerciale,
cinema con film di stracassetta, ballo. Segue indignazione in studio di Alba
Parietti. Segue, appunto, discussione trasversale dove intervengono in parecchi
(Giulia, per esempio), con post finale dell’autore medesimo.

Ora. Probabilmente questa può anche considerarsi, come
dice Sofri, una “pigra polemica conformista”. Volendo, può anche essere
letta come l’ennesima dimostrazione di come negli ultimi tempi nella blogosfera
si chiacchieri di qualunque cosa (segnalo, e non è off topic, un notevole
intervento di Giuseppe Genna, qui).

Quello che interessa me, però, è che la discussione ha
preso una strada singolare: i difensori di Bordone (in maggioranza assoluta)
rivendicano infatti il diritto di sostenere che la cosiddetta cultura bassa, o
pop, o di massa, o “tamarra”, o quello che vi pare, è brutta. Uso le parole dell’autore:

Siamo a un punto in cui ti danno dello snob classista se
dici che Domenica In è una porcheria, che al Bagaglino ci sono le battute sulle
corna e sulle sottane, che Gigi d’Alessio non è molto originale e che non
proprio tutte le volte che Lino Banfi ha detto “porcaputtèna!” era un momento
di grande cinema. È tutto necessariamente bello. Tutto meraviglioso. Solo dei
ricchi, che non si sbaglia mai, si può parlare male. Di tutto ciò che è di
massa no, perché subito diventi il Visconte Aliprandi In Mezzo Al Mare che
deride la plebe dal castello.

Ecco. Io ho la sensazione che ci sia un equivoco, e anche
grosso. Dire che certi prodotti sdoganati come trash siano in realtà arte è una
fesseria. Ma sdoganare gli stereotipi della plebe che sgomita all’Ikea per
farsi due risate non mi sembra un capolavoro d’intelligenza. Perchè sono, appunto, stereotipi:  e personalmente comincio a pretendere qualcosa di più da chi arriva, con un bagaglio non indifferente alle spalle, a  scrivere per la televisione.

Invito per il secondo giorno consecutivo a leggere quanto
scrive Claudio Coletta su Carmilla. E’ vero, in quell’articolo si parla
soprattutto di provincia (ma la provincia è dentro le metropoli, ormai, avverte
Coletta). Ma leggete questo passo:

Quella tra provincia e cultura popolare è una
corrispondenza preziosa e complessa, soprattutto oggi che i materiali che la
provincia mette a disposizione sono aumentati a dismisura. Perché mentre la
cultura popolare crea recupera e riassembla, la scienza scopre, la tecnica
inventa, l’industria produce, la massa consuma. La velocità con cui queste attività
si sono mescolate, moltiplicate, riversate e accumulate nel territorio si è
accompagnata alla razionalizzazione delle pratiche e all’omologazione delle
differenze, come se la provincia fosse un grande franchising della macchina
moderna. E allora giù con parchi a tema, ipermercati e capannoni, giù a
edificare ogni sorta di cimiteri sociali, ricettacoli del qualunquismo e
dell’arrivismo. Laddove poi questo processo di riduzione e assorbimento non è
stato possibile, perché non era conveniente o perché andava bene così, le
qualità distintive della provincia sono state brutalizzate e derise,
restituendone un’immagine dislessica, goffa, inadeguata, dalla natura ostile o
ingenua a seconda del bisogno – proprio come nella disputa tra Las Casas e
Sepùlveda raccontata da Girolamo De Michele, solo che qui il selvaggio è
casa nostra, il "moderno occidente".

Per farla corta: è questione di gusti, ma mi piacerebbe che alla famigerata plebe ci si accostasse con lo sguardo di chi
analizza, di chi cerca di capire e quindi di narrare. Quello che ha usato, per
esempio, Niccolò Ammaniti nel suo ultimo romanzo: impietoso, ma profondamente
immerso in quel mondo. Perché, e questo è il punto che non si coglie nel
polemicone di cui sopra, in quel mondo siamo tutti dentro, anche se il sabato
pomeriggio ci teniamo lontani dai centri commerciali in favore del kendo e se
alla volgare metropolitana preferiamo il sobrio motorino.

Che poi: a me piacerebbe non poco vedere, prima o poi, un
servizio televisivo polticamente scorretto che riguardi non i ricchi, ma i
colti o i para-pseudo-meta letterati, con i relativi dopocena con tisana al
tiglio e il garrulo taglia-e-cuci sullo scrittore più venduto del momento .

Che poi: ieri sera, durante il viaggio di ritorno, hanno
fatto irruzione nel mio vagone tre suonatori zingari di mezza età. Per una
volta, non avevano il solito amplificatore che diffondeva il Rondò alla
turca
o Funicolì funicolà. Ma un sassofono, due tom, una chitarra.
Hanno suonato per dieci minuti di fila divertendosi vistosamente, e divertendo
noi. Alla fine c’è stato persino l’applauso, guarda un po’.

39 pensieri su “NOI, I POPULISTI DELLA LINEA B (AGAIN)

  1. Loredana, anzitutto desidero dirti che ti leggo sempre con interesse, cerchi di trovare fra le polemiche dei punti fermi e ciò mi consola in questo mondo di blog spesso irritati e irritanti all’inverosimile. Detto questo, voglio farti notare che cosa ieri, parlando con uno dei senza tetto che incontro non di rado, mi sono sentito dire: – Morgan, sai che cosa vorrei fare questo fine settimana? -, ed io con un viso d’attesa, – Mi piacerebbe andare in un grande centro commerciale di Roma a comperare l’intero giorno ciò che mi pare e poi dare tutto ai miei tanti amici che stanno con me sulla strada! -.
    In questi giorni, fra le altre cose, ho pensato alla polemica sul sabato della gente comune, ma dopo le parole del mio amico senza tetto mi sono detto che siamo solo borghesucci che amano parlare, polemizzare e ostentare le nostre convinzioni. Il sottoscritto compreso.

  2. Anche commentare sui blog è trash. Lo penso da quando ho cominciato a farlo. E’ il trash dei sedentari, il vantaggio rispetto al centro commerciale (non ci sono mai stata, salvo l’Ikea che però non credo sia un centro commerciale in senso stretto, ma ne ho visitati un paio degli USA e non penso siano molto diversi) è che se all’improvviso non ne puoi più chiudi il collegamento. Ma mi sono resa conto che commentare sui blog cambia la lingua, la posa, il rapporto con gli altri, non sono d’accordo con Genna. Da un lato sono diventata un po’ tamarra anch’io, dall’altro mi ha tolto quel po’ di elitismo che mi era rimasto. (E a cui forse Genna è approdato). Non chiudersi nei luoghi d’origine fa bene alla salute mentale. Viaggiare in metropolitana, per chi potrebbe evitarlo, permette di non perdere il contatto con la realtà. Quell’autrice televisiva che ti ha detto che nella metro viaggiano solo vecchi e immigrati deve fare dei servizi da schifo, anche perché non è vero, se sono tutti come lei capisco perché la televisione non si possa quasi più guardare.

  3. Commentare sui blog non è molto diverso dal praticare altre forme di relazioni sociali. C’è chi interagisce e chi si specchia nel proprio ego, chi esce dal proprio io per entrare in un noi e chi, invece, unisce la sua solitudine ad altre solitudini senza cambiare alcunché, c’è chi apprende (o crea) nuovi linguaggi e chi ripete parole altrui credendole proprie. Nei blog come dappertutto, la lingua batte se la mente vuole.

  4. Ci sono blog in cui, come ai cineforum degli anni Sessanta dopo la proiezione, si cerca di tenere alto il dibattito a suon di paroloni. E blog in cui ci si propone in maniera più dimessa, col ***cuore*** messo baudelairianamente a nudo.
    Come in “Cazzeggi letterari”, per esempio, dove oggi mi sono spogliato per voi:-/

  5. Io spezzerei una lancia in favore dell’Ikea, e non credo di andare in OT (l’Ikea come metafora?). Andava tanto di moda parlar male dell’Ikea: standardizzazione del gusto, ecc. (prendete Benjamin e Tocqueville, leggeteli male e digeriteli peggio: ecco, roba così). In realtà l’Ikea offre standard di qualità, a parità di prezzo, molto più alti dei mercatoni: chi non può permettersi di spendere 15.000 euro per arredarsi casa è su questo piano che ragiona. In secondo luogo l’Ikea offre ampie passibilità di variazione, e stimola la fantasia: se hai un buco libero e hai bisogno di qualcosa, non è necessario che trovi l’oggetto già pronto, in qualche modo puoi arrangiare qualcosa dislocandolo dalla sua funzione originale (defunzionalizzazione e rifunzionalizzazione dell’oggetto: Orlando ci ha costruito un capolavoro, su queste due categorie, col suo libro sugli scarti e i resti nella letteratura). In terzo luogo, l’Ikea stimola e incentiva il fai-da-te: se ti sbatti ad imparare come si monta un mobile, risparmi. E se impari a montarlo, la capacità acquisita ti resta per fare altro (compresa una riparazione). Difficile montare un mobile Ikea? Mia figlia lo sa fare dall’età di 7 anni, io stringo solo le viti (chi dice che le istruzioni sono complicate ha dimenticato quanto siano complicate quelle dei Lego, che vuoi che sia una credenza a due piani rispetto al Castello di Hogwarts?). Poi certo c’è chi si lamenta che nelle case Ikea s’è persa l’Aura, l’unicità del progettista, l’inimitabile, l’imprevedibile, l’imponderabile, l’implicabile, l’inclonabile e via dicendo. E anche la metro, vuoi mettere con la limusine con autista, vetro fumé e frigobar col Dom Perignon in fresco?

  6. Sono vecchie polemiche travestite da novità. Personalmente lo struscio del sabato pomeriggio nel Corso principale del paese me lo impongo come rito purificatore dalle mie frequenti tentazioni snobistico – intellettuali. Così imparo che c’è anche altro. Essendomi poi talvolta trovata in ambientazioni del genere che tu descrivi verso la fine del post, concordo con te e conseguentemente quoto: “Che poi: a me piacerebbe non poco vedere, prima o poi, un servizio televisivo polticamente scorretto che riguardi non i ricchi, ma i colti o i para-pseudo-meta letterati, con i relativi dopocena con tisana al tiglio e il garrulo taglia-e-cuci sullo scrittore più venduto del momento”.

  7. il post è il commento obbediscono all’indentica necessità e urgenza di scrittura, e godono di pari dignità.
    Il commento permette lo scambio materiale di ruolo tra chi scrive e chi legge, scambio che è sostanza e carne della scrittura in rete.
    Per nulla, per nulla d’accordo con Genna

  8. Be’, comunqe penso che a nessuno interessi un servizio, per quanto ironico, su come se la passano gli pseudo-intellettuali nei loro dopocena, se non agli intellettuali stessi. 😉

  9. @ Loredana
    Loredana, io probabilmente mi sono già infilato nel vespaio di cui parli.
    E’ che ho letto e riletto il tuo post. Telegraficamente, mi sembra che tu dica che la provincia bisogna viverla da dentro anziché parlarne per stereotipi.
    Ora, sarà ingenuo, ma mi arrischio a dire che secondo me c’è stato un equivoco. Altrimenti non mi spiegherei perché sono così d’accordo con quanto dici a proposito degli stereotipi, e anche quando parli dei “capolavori di intelligenza” delle Invasioni Barbariche.
    Cerco di fare un po’ di autoermeneutica.
    Se le mie parole che hai citato ti sono sembrate un polemicone sterile, vuol dire che hanno funzionato! Nel senso che quando attacco con “E allora giù con capannoni ecc. ecc. ecc.” io lì ragiono nei termini dell’*immaginario moderno* descrivendo il modo in cui ha liquidato sbrigativamente la questione provincia, pretendendo di sostituirsi in modo arrogante e superficiale a tutto quello che c’era prima senza dare apparentemente la possibilità di reagire.
    Insomma c’è differenza tra mettere in luce che la questione della provincia sia trattata banalmente con le etichette tipo quelle dei cimiteri sociali e del qualunquismo, e il dare per scontato che la provincia sia effettivamente così.
    Tant’è che tutto quello che ho scritto è per dire che sono convinto el contrario, e cioè che la provincia sia molto più complessa di quanto si pensi. Ma possiamo accorgerci di questa complessità solo stando “dalla parte della provincia”, che vuol dire dal suo interno, ovvero considerando il fatto che ne facciamo parte, se preferisci.
    Anche perché quello che segue subito dopo il passo che hai citato l’ho messo per non lasciare dubbi:
    “Ma rispetto a cosa questa provincia è selvaggia, inadeguata, fuori dal giro? Forse questi tratti che caratterizzano l’immaginario moderno della provincia possono essere rimodulati”
    E poi, più sotto:
    “L’assenza di identità e la narcosi postmoderne sono tali soltanto se si pensa che un centro commerciale o una zona industraile vengano da un altro pianeta, dando per scontata la velocità e l’inesorabilità del cambiamento e dell’accumulazione, trascurando il percorso che li ha resi possibili. E soprattutto dando per scontata l’incapacità di reagire. Un film come The Terminal mostra invece che persino in un luogo asettico come un aeroporto c’è la possibilità di appropriarsi degli spazi, di renderli significativi, resistenti. In altre parole, le argomentazioni figlie dei non luoghi cadono appieno nel trucco moderno, e non portano altro che ad una sterile e disincantata contemplazione. E il trucco moderno è quello di far passare l’accelerazione con cui si edificano questi macchinari come se fossero emblemi di svolte epocali dalle quali non si torna più indietro. L’altro trucco, altrettanto necessario, è quello di rimuovere altrove gli innumerevoli residui che le imprese moderne lasciano dietro di sé, allo stesso modo in cui si smaltiscono i rifuiti tossici in Africa o in Cina.”
    Che dire, se era questo l’equivoco, spero di essermi spiegato meglio. Altrimenti mi rituffo nel vespaio.

  10. appena ho letto l’intervento su Carmilla mi è subito venuto in mente il romanzo “Come dio comanda”, che non mi ha soddisfatto e di cui il ricordo più bello che ho sono proprio i pezzi che riguardano la vita sociale della periferia. A proposito vi invito a leggere il testo pubblicato da Christian Raimo su Nazione Indiana il 3 febbraio e quello di Roberto Varese dal titolo “Perché il mondo è pieno di stronzi?”, pubblicato su Ilprimoamore il 16 gennaio scorso.
    Un saluto
    GTesen

  11. Senza tornare a ripetere quello che ho già scritto, vorrei cominciare a pretendere di più anche io e chiarire solo tre cose.
    1-Ikea e un centro commerciale sono due cose diverse. Da Ikea ci ho passato pomeriggi interi e lo adoro. Ha un carattere. È un luogo (Marc Augé e i non luoghi non c’entrano). Sarà identico in tutto il mondo (a me piace) ma non è neutro per niente (cosa che invece il mall è per definizione). Tutta casa mia è arredata Ikea. Il legno di tanti mobili asiatici di gran moda è quello indonesiano che fa estinguere gli Orangutan. L’abete coltivato tipo mais in Svezia è molto più ecologico.
    2-Io non ha mai parlato delle persone che sgomitano. Io ho parlato della mia sensazione al centro commerciale dicendo che avevo la malinconia. Ero fuori luogo e si è visto, credo. Le persone qui non c’entrano. C’entrano dei prodotti culturali e sono quelli che io contesto.
    3-La provincia l’ho vissuta dal di dentro per trentuno anni. Vivo a Milano dal marzo dell’anno scorso. Sono di Varese e sono un proviciale fiero e consapevole.
    Solo che siccome faccio kendo (nessuno sa cosa sia ma non è pallone quindi deve essere da stronzi), per forza si presume che viva in un loft e beva le tisane.
    La tisana è un indicatore sociale. A questo siamo.
    Grazie per lo spazio.

  12. Mi tuffo anch’io nel vespaio.
    @Claudio Coletta: infatti, come ti è stato già detto, ti citavo per darti ragione. Anzi, di più.
    @Matteo Bordone. Come puoi vedere, gli stereotipi fanno male. Giustamente, tu ti risenti per la questione tisana, che io non ti ho peraltro attribuito direttamente. Semmai ho risposto ad un passo del tuo post, quando dicevi che si può parlar male solo dei ricchi. In realtà, per come la vedo io, i veri intoccabili non sono tanto i “tamarri”, i “burini”, le masse. Quanto gli intellettuali che pretendono di insegnare loro la retta via.
    Comunque, dal momento che chi di stereotipi ferisce eccetera.
    Non pensi che ci siano molti che possano, come te, risentirsi per l’associazione centro commerciale=B-movie=balli sudamericani?
    Intendiamoci: ho riflettuto diversi giorni sull’opportunità di intervenire nel polemicone. L’ho fatto non perchè voglia partecipare ad un tiro al bersaglio (dal quale, peraltro, mi sembri essere stato ampiamente protetto da più di un nobile blogger). E la polemica non è sulla tua persona, ma sul modo di osservare e raccontare quei prodotti culturali che contesti. Scusami, ma io il servizio l’ho visto: e non ho percepito nè contestazione nè malinconia. Problemi miei, probabilmente.

  13. Lippa,
    sei sempre una creatrice di splendidi casini, soprattutto perché utili. Sapessi che consolazione leggerti per uno che passa un’ora e mezzo al mattino e altrettanto alla sera dentro un treno pendolari, che li prendono i provinciali e gli immigrati, come me che son suburbano.
    Mi sa che la tua collega è una persona molto di sinistra: la sinistra è urbana (noi in provincia si vota massicicamente per il populismo eversivo delal destra.
    Infatti si prepara , al sinistra urbana, a mettere una tassa sull’ingresso in città delle nostre automobiline. Disturbiamo i loro lindi centri storici nei quali si dibatte di romanzi e film di Muccino.
    Quindi è giusto che paghiamo le estati metropolitane di canti e spettacoli con le nostre tasse.
    Ma c’è cultura anche sul GRA. Presto traboccherà fuori, come le nostre auto appestate in un giorno di pioggia. Saranno tutte sched eelettorali. E loro passeranno deici anni a chiedersi cos’è successo.

  14. Eh già… basta guardare Londra… lì, se suoni in metropolitana, è tutta un’altra musica 😉
    Questa, nel Bel Paese, sembra proprio l’era del provincialesimo comunitario!
    Saluti D

  15. Vorrei esprimere la mia solidarietà a Bordone. Anch’io ho la casa arredata ikea (più qualche mobile fatto da me).
    Anche a me pare paradossale quell’ordine del discorso per cui NON si deve dire nulla di critico verso la cultura che alcuni chiamano in modo impreciso “popolare” – e che sono organici ai paludati detrattori a priori di ciò che è umile o popolare o di massa, organici in quanto inscenano questa battaglia per la libertà che non producendo davvero idee critiche è soltanto intrattenimento, è la domenica in del mondo culturale, anzi di quella sfera ermetica e autoreferenziale che è il mondo letterario.
    Anche a me piacerebbe il kendo, e ci farei un pensierino, ma ho 38 anni e forse è un po’ tardi (ma ho fatto quattro anni di fioretto che potrebbe aiutare).
    Se a Bordone interessano anche le narrazioni disegnate che in italia sono pubblicate tra gli altri da coconino, gli mando la raccomandata dei Dico! 🙂

  16. Ciao.
    Concordo con Bordone sulla malinconia e sul disagio. Con la Lipperini sulla necessità di uno sguardo che sappia analizzare, comprendere e narrare.
    Sulla questione IKEA suggerisco la lettura di questo testo:
    IKEA: un modèle à démonter (IKEA: un modello da smontare) pubblicato dalle Editions Luc Pire sotto l’egida di Oxfam Belgio-Magasins du monde, non ancora tradotto in Italia.
    Un articolo riassuntivo pubblicato su VITA lo potete trovare qua: http://www.bivacco.net/irene/2006/11/13/se-ti-smonto-likea/

  17. Comunque, entrando nel vivo del problema… la linea B è storicamente messa meglio della A. Ok, ora sulla A ci sono i treni nuovi ma fino a un annetto fa ci stavano quelle diligenze fatiscenti che non solo puzzavano…ma traspiravano sporcizia. Per non parlare del fischio ultrasonico trapanacervello che ancora emettono alcuni treni della A! E poi a livello di suonatori voi della B avete il sudamericano che ti fa quella Comandante Che Guevara troppo struggente all’altezza di Garbatella, e quell’altro ragazzotto italiano che fa De Gregori e Battiato con la chitarra elettrica all’altezza dell’EUR e fa sospirare le signore. Noi della A abbiamo solo i bambini zingari che suonano le basi preprogrammate delle pianole e mandano in giro per i vagoni bambini zingari ancora più piccoli a chiede l’elemosina… Vabbè, tanto continueremo a sorbircela tutti i giorni stà sorfa… sennò come ci andiamo a lavoro e quindi: dove li leggiamo i libri?

  18. Non so, non so…
    Io vedo molta confusione (trasversale) tra “pop”, “di massa”, “popolare” e “nazional-popolare” (nell’accezione inaugurata dalla polemica Baudo-Manca, non in quella originaria, gramsciana).
    Vedo, percepisco questa confusione anche tra insospettabili.
    Tu ti sforzi di ragionare a mente aperta sulle potenzialità della popular culture, al cui interno ci troviamo tutti quanti, nessuno può chiamarsi fuori da questa mappa 1:1, da questa galassia vastissima, eterogenea, molteplice, differenziata, caotica, transmediale e per giunta in corso di radicale trasformazione…
    Risultato: ti accusano di difendere a spada tratta Mammuccari (?), di fare l’apologia del “commerciale” (!), di essere acritico nei confronti del trash (il… trash?!) etc.
    Tu manco ci avevi pensato, a Mammuccari (mai visto alcun suo programma) o alla De Filippi (figurarsi): parlavi di tutt’altro, di nuovi modelli di partecipazione, di fan fiction, di riutilizzo creativo, di reinterpretazione selvaggia della cultura, del fatto che la risposta sempre più attiva e creativa da parte di quello che un tempo era “il pubblico” si avvia a essere la regola, non l’eccezione, e questo è l’esito di processi orizzontali, comunitari, e su questo potrebbe, dovrebbe far leva chi vuole produrre e diffondere cultura critica… Cazzo, facevi pure un tot di esempi…
    …ma no, a loro viene in mente la De Filippi.
    Evidentemente sono loro, i bacati, i rovinati dal “commerciale”, quelli che non riescono a schiodarsi da un mondo di clichés, media unidirezionali e masse passive.
    Ad ogni modo, repetita iuvant:
    Per “cultura popolare”, in Italia, di norma si intende quella folk, pre-industriale o comunque sopravvissuta all’industrialismo, studiata dai vari De Martino etc. “Cultura popolare” sono i cantores sardi, per dire, o la tarantella.
    Chi usa l’espressione fuori da quel contesto, di solito si sta riferendo a quella che in inglese si chiama “popular culture”, che però è un’altra cosa. Inoltre, il più delle volte il dibattito riguarda la merda e la spazzatura che ci propina la tv generalista italiana, come se il “popular” fosse per forza quello là, mentre esistono distinzioni qualitative ed evoluzioni storiche, altrimenti dovremmo pensare che “Sandokan”, “Star Trek”, “Lost”, il TG4 e “La pupa e il secchione” sono tutti allo stesso livello, o che Springsteen, i REM, Frank Zappa e Shakira vanno tutti nello stesso calderone, o che non esistono distinzioni tra i libri di Ellroy e quelli delle barzellette su Totti, dato che entrambe le tipologie le ritrovi in classifica.
    Il problema è che la definizione di “popolare”, oggi in Italia, è tirata in ballo soprattutto da due schieramenti l’un contro l’altro armati, e dalle cui schermaglie dovremmo tenerci distanti:
    – da un lato della barricata ci sono quelli che usano il “popolare” come pretesto per giustificare che producono e spacciano merda;
    – dall’altra ci sono quelli che disprezzano qualunque cosa non venga consumata da un’élite.
    Sono due schieramenti speculari, l’uno sopravvive grazie all’altro.
    In Italia la “popular culture” eravamo soliti definirla “cultura di massa”, espressione che ha un omologo anche in inglese (“mass culture”), ma Henry Jenkins fa notare che il nome ingenera un equivoco, e inoltre c’è una sfumatura di significato tra “mass culture” e “popular culture”.
    L’equivoco è che, certo, “cultura di massa” è quella che viene veicolata dai media (cinema, tv, discografia, fumetti etc.); ma non necessariamente deve essere mainstream e consumata da tantissima gente: infatti rientra in quella definizione anche un disco che si rivolge a una minoranza di ascoltatori, o un particolare genere cinematografico apprezzato in una nicchia underground. Oggi, poi, è così la stragrande maggioranza dei prodotti culturali, viviamo sempre più in un mondo di infinite nicchie, di proliferazione di sotto-sotto-sottogeneri. Il mainstream generalista e (diremmo in Italia) “nazional-popolare” è meno importante di quanto fosse un tempo, e continuerà a ridimensionarsi.
    La sfumatura di significato, invece, consiste in questo:
    “mass culture” indica come viene trasmessa questa cultura, vale a dire attraverso i mass media;
    “popular culture” invece pone l’accento su chi la recepisce e se ne appropria. Di solito, quando si parla del posto che la tale canzone o il tale film ha nella vita di un singolo o di una coppia (“La senti? E’ la nostra canzone!”), o di come il tale libro o il tale fumetto ha influenzato la sua epoca, si usa l’espressione “popular culture”.
    E’ evidente, dunque, come la cultura partecipativa che vediamo sorgere oggi in rete rientri nella definizione di “popular culture”.
    Sarebbe bello tenerle in considerazione, queste sfumature, e cercare di evitarli, quegli equivoci, anziché investire le prime col falciaerba e coltivare i secondi come fossero le piante carnivore in grado di divorare l’Odiato Nemico.
    E’ un’utopia, lo so.

  19. Che succede se qualcuno ti obbliga a farti un giro per i negozi del centro senza avere niente da comprare, niente da fare realmente? Ti fai due palle così.
    Idem al centro commerciale. La gente va là perché ha da fare la spesa, comprare un abito, un servizio di bicchieri, un libro. Insomma, perché Bordone avrebbe dovuto divertirsi, provarci? Ma provare a far cosa?
    Il servizio era tendenzioso e provocatorio, il risultato già stabilito, prevedibile. Bordone forse non l’ha intuito, c’è cascato. Ai centri commerciali ho fai la spesa o t’annoi. Bordone non doveva comprar nulla, s’è annoiato. Lapalissiano, banale, ma a quanto pare provocatorio.

  20. Zetavu, prendi la metro o il tram o il treno, non ammorbarci con la tua macchinina.
    Io non ho neanche la patente, uso i mezzi pubblici e ancora non sono morta.

  21. Bordone però un timido tentativo di abbozzare qualche distinzione lo ha fatto quando, investito dalla dialettica della valchiria Parietti, ha detto: i Beatles e “trottolino amoroso” sono pop, però tra i 2 c’è una bella differenza.
    Poi i tempi televisivi sono quello che sono e a quel punto lo spazio per ulteriori distinzioni era già terminato.
    @ Ferrigno: dici “la gente va là perchè ha da fare la spesa”…mmmh…purtroppo non tutti. Un sacco di gente ( ne ho conosciuti ) ci va spesso solo per passare il sabato pomeriggio non avendo altri interessi e quindi altri modi per trascorrere il tempo libero.
    Ora vi lascio, ho appena rovesciato il the ( come i Bostoniani nel 1773 ) e devo correre ai ripari prima che il liquido raggiunga fogli e tastiera.
    Anna Luisa

  22. ferrigno, non è vero. Ai centri commerciali si va anche per il piacere di girare, guardar le vetrine, la gente che passa, darsi appuntamento lì con gli amici, progettare i futuri acquisti che farai non appena lo stipendio si materializzerà sul conto corrente. Non è che devi comprare per forza qualcosa. E’ un po’ come per me entrare in libreria: mi guardo attorno, sbircio le copertine, leggo quarte e risvolti vari, mi metto a leggere gl’incipit dei libri, li annuso. Poi, a volte compro, altre no.

  23. La tisana è un indicatore sociale. A questo siamo. (M.Bordone)
    Che sia o meno solo una battuta, mi ha fatto pensare.
    Forse in questo periodo storico in cui i confini e le differenze tendono a mescolarsi e le vecchie categorie con cui si divideva (e quindi si conosceva) il mondo sono ormai superate, il *bisogno di identificarsi* (in un gruppo piu’ o meno definito) genera pseudo-categorizzazioni, piccole bandierine da piantare in testa agli altri per poter capire dove stanno rispetto a noi – e quindi dove stiamo noi. Una specie di reazione allergica collettiva alla perdita dei vecchi punti di riferimento, e forse alla velocita’ stessa con cui sono spariti e stanno tuttora sparendo. Scomparse le vecchie tribu’, ci si crea tribu’ nuove (o remake delle tribu’ vecchie) in cui sentirsi a casa. Quindi anche il bere tisane o il praticare il kendo possono assumere una valenza “collocatoria”.
    Questo, a parte il fastidio di vedersi infilati a forza in questo o quel gruppo solo perche’ si esprimono pareri e gusti di per se’ neutrali, dice molto di piu’ su chi tende a ragionare nei termini di queste nuove/vecchie classificazioni, piuttosto che su chi beve tisane, prende la metropolitana o frequenta centri commerciali. E’ un indicatore di disagio e secondo me va preso in considerazione in quanto tale. Anche la risposta sempre più attiva e creativa da parte di quello che un tempo era “il pubblico” (WM1) tende – assieme alla fine delle “grandi narrazioni” – a frantumare sempre piu’ le categorie tradizionali. Che pero’ resuscitano, vestite di nuovo, dotate di nuovi indicatori, a sottolineare la solita divisione ricchi/poveri, massa/elite, ignoranti/”studiati” (e naturalmente destra/sinistra). Sembra che non si scappi.
    Non saprei se questo sia inevitabile, se si possa fare a meno di nuove forme di campanilismo o se nel modo umano di conoscere il mondo questa necessita’ sia radicata in profondita’ al punto da non poter essere rimossa, ma solo trasformata; ma qui mi perdo, perche’ non ne so abbastanza di come funzioniamo a livello di costruzione dell’Io.

  24. Credo che uno dei problemi del servizio in questione su “le invasioni” è che lì dentro è concentrato quello che persino la persona più media di tutte (la quale, appunto, non esiste) fa in almeno due giorni. Poi ci credo che uno è stressato o malinconico! Come fai ad andare all’ikea, al cinema e al corso di ballo in un sol giorno senza conseguenze psichiche? Ci può anche stare, ma se proprio è faticoso, allora scegline due, fai altro con altri tipi di conseguenze. E francamente, credo che le persone facciano proprio così. Fanno questo *e* altro, che lo so, è come scoprire l’acqua calda finché non si entra nel merito. Ma messo in quel modo, concentrando così tanta roba in 7 minuti, il servizio televisivo tende a generalizzare, a prescindere dalla volontà di chi lo fa. Forse i tempi della televisione sono brutali, ma se per assurdo fosse stato il racconto di “quel sabato italiano di tizio” o dell’autore, l’avrei apprezzato e ci avrei trovato parecchi spunti. Probabilmente. (che anche qui, a parlare di “storie” in tv è un altro vespaio…)
    @ Loredana Lipperini

  25. A me (che guardo Star Trek dopocena) del centro commerciale piace quel suo carattere di microcosmo che lo fa (appunto) somigliare ad una sorta di stazione spaziale 😉 Perciò, il difetto che ho visto in quel servizio tv è quello di aver rimarcato un artificiale rigido confine socio-culturale fra il (presunto) “popolo dei centri commerciali” e quello che “invece la sera legge o guarda dvd”, come se fossero due specie diverse e inconciliabili senza niente in comune, l’una di “tamarri decerebrati”, e l’altra di “malinconici secchioni” (due caratterizzazioni da cinepanettone) rappresentate dalla Parietti, che recitava il suo solito ruolo, e dal povero Bordone, che invece in buona fede s’è limitato a parlare dei suoi gusti e delle sue emozioni, senza rendersi conto che l’avevano incastrato lì per interpretare uno stereotipo. Infatti la guardava basito, come se sinceramente non si aspettasse quella sua aggressione verbale, che ai telespettatori dev’essere invece parsa scontata: perché questa è la tv italiana, banalizza e schematizza sempre tutto, riducendolo ad una puntata di “Ciao Darwin”, “Tamarri contro Secchioni”. Meglio spegnerla, e andare a ballare, o fare Kendo, o commentare su un blog, o leggere Ammanniti. O guardare Star Trek 😉

  26. Nella provincia da cui scrivo posso fare la spesa in diverse modalità: super sotto casa o al centro commerciale con orario continuato, al mercato rionale settimanale o al mercato generale il sabato mattina, verso le 7.30, quando so di trovare i banchi strapieni di verdure freschissime che il signor Eligio mi consiglia (o sconsiglia) personalmente.
    Talvolta mi è capitato più volte di prestare attenzione alle persone che sono arrivate insieme a me in uno dei parcheggi di questi luoghi e mi sono accorto di ritrovarle, puntualmente, al termine “del giro”, di più: se vado in certe giornate, incontro le stesse persone.
    Prima conclusione: MEDIAMENTE compiamo le stesse operazioni nello stesso tempo, negli stessi tempi.
    Seconda conclusione: le strutture di massa sono pensate su tempi generici ma hanno anche plasmato i nostri ritmi e perciò ormai replichiamo anche altrove i nostri comportamenti
    Terza conclusione: abbiamo sempre la possibilità di scelta e io mi diverto a mescolare le carte. Cambio le ore in cui faccio la spesa, vario i giorni, ricombino luoghi e orari ma che fatica, che stress.
    Non mi rimane che il tempo per prepararmi la bella tisana fumante che ho appena acquistato in pratici filtri dal momento che quella confezionatami dal mio amico erborista l’ho terminata!
    Gornergrat

  27. @ davide malesi:
    hai parzialmente ragione. Il fatto è che io vivo a Pavia, non nell’interland milanese. Dovrei prendere la macchina, uscire da Pavia, fare i 3 km e 5 semafori che mi separano dal centro commerciale, cercare un posto auto, SOLO per vedere un amico, guardare delle vetrine e progettare futuri acquisti?
    Per me (e per molti abitanti di città di provincia di medie dimensioni, ma, un momento, gli Italiani non vivono quasi tutti in città di medie dimensioni?) è esattamente l’opposto, le vetrine, gli amici, i progetti: tutte cose che faccio in centro. Pavia è piccola e il centro è raggiungibile a piedi.
    Al centro commerciale vado perché i prezzi sono più bassi. Non lo odio, anzi, lo trovo molto funzionale.

  28. Va benissimo, ferrigno, ma il tuo precedente discorso non era personale, ma generico, tant’è che si riferiva alla “gente” (“La gente va là perché ha da fare la spesa, comprare un abito, un servizio di bicchieri, un libro”). Io non so cosa faccia tu, e non posso saperlo, se tu non me lo dici. Ma so che un sacco di gente va al centro commerciale per il puro gusto di andarci, perché ci sta bene, per “guardar le vetrine, la gente che passa, darsi appuntamento lì con gli amici, progettare i futuri acquisti che farai non appena lo stipendio si materializzerà sul conto corrente”.

  29. Come Dio comanda non è impietoso ma semplicemente irreale: Ammaniti vuole descrivere situazioni che chiaramente non gli appartengono e, non essendo un osservatore sociale molto attento, riempie il suo romanzone di un luogo comune dopo l’altro. Il che significa esasperare alcuni tratti della cosiddetta cultura popolare, tramutandoli immediatamente in clichè o banalizzazioni. Pensare che per raccontare il reale basta raccontare ciò che si vede, senza aggiungere altro. Un po’ come ha fatto Bordone.

  30. davide, il primo intervento è generico. Nel secondo parto da una considerazione personale (io faccio così e cosà perché vivo qua e non là), ma poi generalizzo, infatti ho scritto: “ma, un momento, gli Italiani non vivono quasi tutti in città di medie dimensioni?”
    A scanso di equivoci: non rispondo per pignoleria o amor di polemica inutile 😉 ma perché credo veramente che il caso italiano sia diverso, che Roma e Milano siano vistose eccezioni.
    Però non dirmi che col primo intervento sembrava stessi parlando di tutto il mondo e col terzo invece mi limito all’italia 🙂

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