NON E' LA MANO, NON E' IL PIEDE, NON E' IL BRACCIO

Gianluca Rivolta su nicknames e identità dell’autore, via I Miserabili. Stralci:

Nella seconda scena del secondo atto di Romeo and Juliet, Giulietta Capuleti invita Romeo Montecchi ad abbandonare il proprio nome e a prenderne un altro, e questo perché Romeo ha il cognome della famiglia in aspra e continua lite con quella dell’amata. “Cosa c’è in un nome?” gli dice Juliet, “Non è la mano, non è il piede, non è il braccio, non è il volto né qualsiasi altra parte del corpo di un uomo.” (…)
Il caso più straordinario è certamente quello del portoghese Fernando Pessoa, nato nel 1888 e vissuto fino al 1935. Ha scritto una gran moltitudine di opere letterarie firmandole con diversi nomi, creando persone fittizie con vere e proprie biografie e stili di scrittura. Il bello è che solo dopo la sua morte è cominciato a venire alla luce qualcosa di quel mondo di persone che vivevano dentro di lui. In vita aveva pubblicato col suo nome solo una raccolta di poesie e forse qualche altra cosa. Per molti anni i critici si erano fatti l’idea di una letteratura portoghese ricca e variegata, con personaggi quali Alvaro De Campos, Bernardo Soares, Ricardo Reis insieme al padre letterario di tutti: Alberto Caeiro; ebbene, erano tutti nomi creati dalla sua felicissima fantasia – straordinario. Molti scrittori in effetti credono davvero di avere moltitudini dentro di sé, anche in aspra contraddizione a volte. E’ una condizione comune; mi viene in mente il poeta americano della beat generation Allen Ginsberg, che spesso riceveva per queste sue “moltiplicazioni” critiche del tipo: “Ma tu ti contraddici!” Non so se Gingsberg avesse mai letto Pessoa, ma in una poesia [citando Walt Whitman] scrisse per risposta a quei mediocri: “Mi contraddico? Bene, allora vuol dire che contengo moltitudini.” (…)
Scriveva l’agitatore e scrittore politico russo Michail Bakunin negli ultimi anni del 1800: “Gli uomini ci appaiono come esseri assolutamente e fatalmente determinati. Determinati prima di tutto dalla natura circostante, dalla configurazione del suolo e da tutte le condizioni materiali della loro esistenza; determinati da innumerevoli rapporti politici, religiosi e sociali, dai costumi, dagli usi, dalle leggi, da tutto un insieme di pregiudizi o pensieri elaborati pian piano nei secoli e che essi nascendo trovano già pronti in quella società di cui non sono affatto i creatori, ma dapprima i prodotti e poi, più tardi, gli strumenti.” Ecco: con un semplice cambiamento di nome alcuni autori riescono ad assumere un punto di vista nuovo e enormemente più libero da cui guardare l’intero mondo, come se per magia si scrollassero di dosso tutto quello che Bakunin ha individuato così chiaramente. Richiudiamo la porta che dà sul nulla: l’Autore in questo modo non si nasconde; la scelta della pseudonimia non è pavida – è un semplice meccanismo, banale ma utilissimo nell’arte, come lo è un cacciavite per liberare una vite dal legno. O per ficcarcela.

32 pensieri su “NON E' LA MANO, NON E' IL PIEDE, NON E' IL BRACCIO

  1. lo si disse già dagli inizi, che Pessoa e l’Herzog di Bellow sono stati i proto-blogger.
    Tra l’altro, un’osservazione su Pessoa:
    una parte non preponderante della critica ipotizza come possibile che la sua biografia dimessa, fatta di stanze ammobiliate, retrobottega, lavorucci di traduzione per una ditta commerciale, bauli trascinati, amori mai davvero vissuti e forse mai voluti, non sia altro che un’invenzione ulteriore – la più riuscita -di Pessoa stesso.
    Pessoa eteronimo di se stesso.
    Forse non è così, però l’idea sarebbe piaciuta moltissimo al Poeta.

  2. adesso la butto sul patetico:
    a me pare che i nomi più grandi, in letteratura, abbiano riversato sui libri la loro insoddisfazione, la loro incompletezza, la loro rabbia e frustrazione di uomini.
    La letteratura (quella alta) è la mancata resa di fronte alla plausibilità del reale.
    La letteratura (restando con Pessoa) è la dimostrazione che una vita sola non basta.
    Si può essere felici e appagati nel mondo, e al contempo Grandi Scrittori?
    Io dico di no.
    (per oggi credo di aver terminato le definizioni)

  3. Iannox, io ti stimo, e per me sei il vincitore morale (oggi, materiale domani) di Streghe e Campielli, però non dare, ti prego, del “mezzo genietto” a Pessoa.
    Fallo per me.
    Pessoa era un’intera letteratura.

  4. Pessoa era un mezzo genietto ma anche uno che la sfiga se l’è costruita con le sue proprie mani, mattoncino su mattoncino, eteronimo su eteronimo, in pratica quello che comunemente verrebbe detto un misantropo – ma con l’aggravante d’esser pure un misogino completo.
    Kisses
    Iannox

  5. @ EFFE
    Mah, non direi che una vita non basta. Ci sono intellettuali e scrittori che una vita gl’è bastata e sono stati pure felici e famosi, tant’è che ancora oggi sono. Ma non crediamo che gli scrittori siano divini, più perfetti del resto dell’umanità. Guarda J.R.R. Tolkien, B. Russell, H. Hesse (sì, con tanti problemi, ma alla fine è arrivato alla fine quasi felice), ecc. ecc. Insomma mi pare che di scrittori che vissero felici e contenti ce ne siano e parecchi: in una realtà reale, umana, non favolistica ci sono. Poi ci sono i maledetti a tutti i costi, ma i maledetti sono loro stessi per primi a dirsi tali, e poi il popolino a dirli maledetti. Insomma la vita è bella, basta crederlo, basta viverla.
    Kisses
    Iannox

  6. @ EFFE
    Mi fai troppo onore, anche solo pensare che domani lo Strega e il Campiello pure. Però chissà, può darsi che sì: con l’egotismo che mi ritrovo. 😉
    Scherzi a parte – be’, non è che scherzassi troppo circa lo Strega, anzi si può dire che sono ben più che serio nonostante lo smile.
    Dico genietto solo perché fu un uomo solo, molto solo, così tanto solo. Per Pessoa grande rispetto, certamente: genietto era in tono affettuoso, una carezza, perché così solo nonostante i tanti eteronimi. Solo mi chiedo come la sua vita, anche artistica, se solo fosse stato più con gli uomini reali e non solo con quelli delle sue pagine attraverso le lenti degli occhiali.
    Kisses
    Iannox

  7. “Moltitudine di nomi verità e falsità si giustappongono all’identità. :)”
    Prego? Ne vogliamo discutere? (sicuro di non aver firmato in nome o memoria di un Camus che non avrebbe sottoscritto una sola parola?)

  8. ogni tanto mi faccio un giro di blog e ogni volta che capito su questo ci trovo sempre gli stessi nomi. ma questo poveraccio di iannox, ma chi è? uno che scrive libri, per caso? e dove lo trova il tempo visto che sta sempre a ingorgare la rete con le sue acute riflessioni. sì, lo strega gli spetterebbe per quanto è scemo. ancora non glielo hanno dato. ma come si fa? ragazzi ma fatevi una passeggiata, ogni tanto!

  9. Sarà pure in piedi da molto tempo, ma mi pare che ultimamente se ne parli moltissimo (o forse mi sbaglio?).
    Chiedo scusa se sono ingenua: ma cambia qualcosa se io mi chiamo veramente Camilla?

  10. Sono d’accordissimo, Tyttina. Mi stupivo proprio del fatto che una cosa così evidente venisse messa ancora in discussione, non qui.

  11. Camilla non cambia nulla, credo. Io, per esempio, mi chiamo Tiziana, tutti mi hanno sempre chiamata Titty, e sul web son Tittyna perché di Titty ce ne sono anche troppe. Ma quel che più conta credo sia ciò che si è e si scrive, a prescindere dal nome che si usa.

  12. Camilla, la questione dei nick è in piedi da tempo, molto tempo, non credo c’entri l’importanza della rete.
    Sulla discussione sottoscrivo l’ultimo commento di Effe, che ha spiegato le mie idee e me le ha fatte pure capire 🙂
    Una vita sola non può bastare, proprio no.

  13. spiegatemi una cosa: perchè proprio adesso la questione del nickname viene discussa con tanto calore?
    Azzardo: forse la rete sta acquistando valore e peso e qualcuno cerca di neutralizzarla dicendo che i nick non hanno senso?

  14. Ivan, diciamo la stessa cosa, credo, solo che io mi ero espressa male. E’ chiaro che se Internet permette la prevalenza dell’idea sul nome di chi la porta, questo azzera le gerarchie, almeno in teoria.

  15. Be’, a me il falso cognome Loren ha portato bene. Vedo, però, che alla Cucinotta l’orrendo cognome non ha creato grossi danni. Insomma, se c’è sostanza, l’etichetta conta relativamente, se non c’è… hai voglia tu a chiamarti Roquentin:-)

  16. @ Camilla, che scrive: “spiegatemi una cosa: perchè proprio adesso la questione del nickname viene discussa con tanto calore?
    Azzardo: forse la rete sta acquistando valore e peso e qualcuno cerca di neutralizzarla dicendo che i nick non hanno senso? ”
    Non si sostiene che i nick non abbiano senso, ma (a mio modo di vedere) si lega la responsabilità alla carta d’identità, per dirla sfottendo. Credo che tu abbia ragione, una ragione parziale ma “forte”: cosa ne viene in tasca a chi ha sudato dalla prima alla settima camicia per “farsi un nome”, se l’autorità legata a quel nome si trova “gettata” in un mondo in cui l’autorità stessa può essere associata al concetto espresso e non all’etichetta o al potere di chi la esprime?
    (innanzitutto, avviene che il mondo, fatalmente, si svuota dei tronfi e si riempie di idee, che non è male; quanto, poi, al legame tra nome e responsabilità, il discorso è piuttosto lungo)

  17. Veramente nel pezzo di Rivolta c’è un piccolo errore: “Anche il caso di Agatha Christie sembra appartenere a questo ambito; anagraficamente era Agatha Mary Clarissa Miller. Agatha Miller poteva anche andare bene, ma scelse uno pseudocognome totalmente nuovo. ”
    Christie non è inventato; era il cognome del primo marito, Arcibal Christie. Quando divorziò da lui nel ’28 era già molto famosa, e il suo editore le impedì di firmare col suo cognome da ragazza perché ormai i lettori la conoscevano così.
    Solo una puntualizzazione, niente di importante eh? 😉

  18. @ Camilla. Infatti non ti stavo correggendo. Ho aggiunto qualche parola di troppo, e ne aggiungerò qualche altra. Avevo messo da parte la questione tempo fa, per evitare ingiusti linciaggi (un disaccordo che si trasformi in guerra non è un disaccordo: si discute per cercare di capire, non per annichilire l’altro – ogni riferimento verrà reso esplicito)

  19. Posso farti notare una cosa senza che tu te la prenda a male? Si scrive “negli ultimi anni dell’Ottocento” o “dell’800”, e non “del 1800” (che già di per sé è un anno). Saluti.

  20. Giusto, e andrebbe anche aggiunto “dopo Cristo”. Son questioni importanti, eh, metti che uno si confonde…

  21. Ringrazio Rivolta per la chiarezza e alcuni di voi per le precisazioni. Quando la questione , qualche mese fa, imperversava soprattutto su NI avevo iniziato a sentirmi a disagio. Una specie di eczema nelle zone della volontà. Gli strali della Benedetti e di altri mi stavano portando a un outing miserando e senza senso. Se anche vi rivelassi il mio nome anagrafico per voi non cambierebbe nulla: come spettatrice sono un’emerita sconosciuta e con il mio nome anagrafico pure. Però ammetto che stavano riuscendo a mettermi in difficoltà. Per fortuna istintivamente sentivo che avevano torto perchè, per quanto mi riguarda, credo di essere ‘responsabile’ (o ‘irresponsabile’) in entrambe le versioni e, piu’ o meno in uguale misura.
    L’articolo mi ha reso consapevole di aspetti che avevo considerato solo marginalmente.
    L’intervento di Rivolta è presente e commentato anche su vibrisse e condivido le osservazioni di Garufi anche riguardo a Benedetti e Scarpa che aborrivano l’uso dei nick. Non riesco a condividere pienamente le ragioni di B. di Monaco (che si scaglia soprattutto contro le persone che usano piu’ nick soprattutto per offendere) perchè non credo che la cosa si possa addebitare ai nickn. visto che esistono umani che riescono benissimo a essere molesti, aggressivi e offensivi anche con nome, cognome e numero di matricola.
    A Camilla e a chi non avesse seguito tutto l’ambaradan sui nick consiglio anche una visita da Roquentin (dove oltre a questo articolo c’è anche il link a una discussione precedente) e agli archivi di NI.
    Besos e ‘notte

  22. @ spettatrice.
    “Non riesco a condividere pienamente le ragioni di B. di Monaco (che si scaglia soprattutto contro le persone che usano piu’ nick soprattutto per offendere) perchè non credo che la cosa si possa addebitare ai nickn. visto che esistono umani che riescono benissimo a essere molesti, aggressivi e offensivi anche con nome, cognome e numero di matricola. ”
    Ho anche scritto:
    “L’uso distorto del nickname, infatti, invoglia ad insistere in tale uso e ad aggravarne via via la portata.”
    Il nickname, in tempi come i nostri in cui internet ha aperto spazi incommensurabili e incontrollabili, può risultare strumento ambiguo e pericolosissimo nell’ambito proprio dell’educazione dell’individuo a convivere con gli altri.
    Non so se ancora si usi, ma sapevo che quando scrivevi qualcosa ad un giornale, che doveva restare anonimo per qualche motivo o figurare con uno pseudonimo, era sempre richiesta la vera identità del mittente.
    Ora un nickname, se usato da un abile conoscitore del sistema internet, può rendere assai difficoltoso, se non impossibile, risalire all’identità del mittente.
    Anche questa possibilità scatena negli individui, dotati, diciamo, di una moralità discutibile, il loro lato peggiore.
    Sono d’accordo con te, quando dici che queste caratteristiche discutibili vengono fuori anche in chi si firma con nome e cognome autentici. Ma in questo caso il suo rapporto con gli altri è trasparente; egli, malato o corrotto, arrabbiato o asociale, misantropo, non si nasconde dietro la maschera del bandito che va ad aggredire il prossimo, ma lo affronta a viso aperto, pronto a sostenerne il confronto.
    E’ migliore (si fa per dire) dell’altro che compia esattamente le stesse cose, ma servendosi di un nickname, e specialmente di nickname differenti.
    Se posso criticare l’intervento scorretto di uno che si firma con nome e cognome autentici, all’altro che dica le stesse cose, devo aggiungere che, in più, non ha il coraggio di mostrarsi.
    Ti pare cosa lodevole aiutare a costruire una società in cui al posto dei perversi che si firmano con nome e cognome autentici, si sostituiscano a poco a poco (perché tollerati se non addirittura incoraggiati da tesi ambigue di libertà) i “senzafaccia” fantasmi, anziché uomini?
    E’ una specie di cancro quello che si inserisce nella società (già malata di per sé e difficile sempre da governare) incoraggiando il mascheramento di sé.
    Vedi, io parto dal presupposto che il nome che mi è stato dato non solo mi lega al passato e non mi fa sentire come i figli nati negli asili tedeschi, i lebensborn (c’è un bel servizio su Carmilla) ma mi consente di portare quella ricca eredità nel presente, coinvolgerla e non rendere inutile, così facendo, la vita di chi me l’ha donata.
    Il nome è una mera combinazione di lettere dell’alfabeto, un fiato, un niente, ma lo si riempie con l’amore per il passato, per chi ci ha generato e con la propria individuale orgogliosa dignità.
    Insomma, invece di chiamarmi Bartolomeo Di Monaco, potrei certamente chiamarmi Matusalemme, ma quel nome che appare vuoto nel momento della nascita (ma è già carico del passato) comincio a riempirlo di una mia personale sostanza sin dal prrincipio della mia vita. Esso non è più vuoto, ora, ma ha sviluppato sempre di più l’altro embrione che si è formato al momento della nascita ed è cresciuto per consentire di identificarmi con me stesso e con gli altri.
    Il nome non è più voto, ma sono io.
    Gettarlo via significa non solo disconoscerlo, ma dichiarare il fallimento, la non esistenza, e soprattutto, nei rapporti sociali, essere sleali con gli altri, ingannarli all’improvviso con un nuovo io che sta crescendo, fare perfino il doppio gioco, quando occorra.
    L’inganno, la slealtà, il corrotto desiderio, si moltiplicano quanto più numerosi sono i nickname che si adoperano per mascherarsi, così che avremo tanti io interrotti o un io così complesso da portare allo smarrimento l’individuo.
    Al Dottor Jekill è bastato un solo Mr. Hyde per smarrirsi e desiderare la morte.
    Insomma, gettare via il proprio nome è gettare via quella parte di sé che è cresciuta dentro il nome e ci ha resi visibili agli altri, ha creato i rapporti con loro, anche con chi non ci conosce fisicamente.
    Perché disfarsene? Non riuscirò mai a capirlo, e ne chiedo perdono.
    Bart

  23. x Spettatrice. Ho seguito i tuoi consigli e ho letto dove mi dicevi. In particolare mi è piaciuta la risposta di Ivan Roquentin a Carla Benedetti in questo punto:
    “In certi casi, lo pseudonimo ha il potere indiscutibile di alleviare l’opinione dallo stomachevole peso dell’autorità del personaggio: conta il parere e non la voce che lo predica. Un altro esempio più immediato: se le stesse domande che ponevi allora sui nicknames, firmandoti Carla Benedetti, fossero state poste da te stessa a firma Carla Verderame, con ogni probabilità, dopo un effimero tamtam di rete, sarebbero state completamente ignorate (è mia presunzione – ma la sto motivando – che fossero domande mal poste). Non tutte le etichette hanno pari prestigio e non tutte godono del medesimo credito presso quell’industria culturale di cui rifiuti le regole. Siamo sicuri, a questo punto, che rifiuti davvero le suddette regole? Perché tutta la diatriba sulla restaurazione ha l’aria di una messinscena teatrale in cui l’autore abbia dimenticato di associare ai personaggi la dignità di un nome: mi bastano gli pseudonimi, è sufficiente che siano riconoscibili.”

  24. Pessoa, il mio omonimo Bob Dylan, McBain, Erle Stanley Gardner,Ellery queen. Non devo andare avanti per spiegare che potevano chiamarsi pure pincopallo ma le cose non cambiavano.

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