Ieri c’è stata un’ecatombe su Facebook, e probabilmente non avrà spiegazioni. Come detto nei commenti, il mio profilo e quello di Linda Rando di Writer’s Dream sono stati bloccati e ci è stato richiesto un documento d’identità per poter accedere di nuovo. Nessuna spiegazione, al momento, è stata fornita anche ad account riapparsi: c’è chi ipotizza che a essere oscurati siano stati i profili che avevano ricevuto una segnalazione, la quale non è stata verificata ed è stata automaticamente accolta, e chi pensa a un bug. Comunque sia, la lezione è una sola: lo spazio che crediamo “nostro” non ci appartiene. Né Facebook, né Twitter, e neanche questo blog, che è su piattaforma wordpress. C’è qualcuno che può decidere sulla nostra permanenza sul web (almeno quando si usano questi strumenti), e quel qualcuno non siamo noi.
Dunque, mi permetto di postare un piccolo passaggio, credo pertinente, da Morti di fama, scritto con Giovanni Arduino:
“Forse non lo sapete, ma c’è un rapporto molto stretto fra la vostra presenza su Facebook e il vostro detersivo. Lo racconta Farhad Manjoo su Slate: “Negli ultimi mesi Facebook e la Datalogix hanno trovato un modo per confrontare i rispettivi dati senza violare la privacy di nessuno: cancellano dai database le informazioni personali e le sostituiscono con dei codici cifrati. Il social network può collegare i suoi utenti – identificati solo da un codice – alle cose che comprano nei supermercati. Con queste informazioni, l’azienda ha svolto analisi sugli effetti delle campagne pubblicitarie lanciate sul suo sito. Se per esempio la Procter & Gamble pubblicava un’inserzione su Facebook per il detersivo Tide, Facebook poteva consultare i dati della Datalogix per capire se le persone che avevano visto il banner tendevano a comprare il Tide più spesso che nelle settimane precedenti”. Con quale risultato? Ottimo, per Tide e per Facebook: “Delle prime sessanta campagne che abbiamo esaminato, il 70 per cento aveva un ritorno sugli investimenti triplo o anche migliore. Questo significa che il 70 per cento degli inserzionisti ha raggiunto delle vendite tre volte superiori a quello che avevano speso per la pubblicità”, dice, sempre a Slate, Sean Bruich, che si occupa degli standard per i formati pubblicitari di Facebook. In poche parole, il problema non è nei click, dice Bruich: “In media, se si considerano le persone che hanno visto una pubblicità su Facebook e poi hanno acquistato un prodotto, meno dell’1 per cento aveva cliccato sull’inserzione”.
Qualcosa, dunque, che va ben oltre gli AdWords di Google, gli annunci che compaiono accanto ai risultati di ricerca (sempre più sincronizzati con quello che cerchi) e per i quali gli inserzionisti pagano a ogni click ricevuto. La tecnica di Facebook si chiama marketing mix modeling (c’è un acronimo anche qui: MMM) e anche se il termine è stato coniato nel 1949 trova oggi un’utilizzazione, a suo modo, impeccabile. In poche parole, Facebook mette a confronto le informazioni che gli utenti cedono (praticamente tutte) con quelle della distribuzione: non solo, calcola il numero di volte in cui un’inserzione deve apparire nel feed, nel flusso informativo di un utente, prima che il messaggio perda di efficacia. “Cercando di raggiungere quel punto, Facebook ha aumentato del 40 per cento il ritorno sugli investimenti di alcune campagne pubblicitarie”, racconta Manjoo. Non solo, di nuovo: attraverso un ulteriore algoritmo, se pubblichi la foto di un paio di scarpe rosse, ti raggiungerà il banner di un negozio di scarpe, con un testo generato automaticamente in base a quello che tu scrivi a commento della tua foto. Non è Philip K. Dick: è vero”.
C’è una cosa poco chiara del rapporto Facebook/detersivo. Ho capito l’incrociare i dati, ma quali sono questi dati? Facebook di certo sa chi sono e che scrivo o cosa clicco quando sono sulla sua piattaforma, ma la P&G come sa chi ha comprato cosa o cosa compro io? Diciamo che se pago con carta di credito si può sapere ma in contanti mai e poi una volta che abbiamo il me su FB e il me che ha comprato un qualsiasi prodotto come le due società fanno l’unione e stabiliscono che siamo la stessa persona? Cioè come fanno a dire che quell’acquisto fatto a roma (per dire) corrisponde a quel profilo Facebook, chi gli dà questa connessione?
Per il resto non mi sembra una cosa sorprendente la non proprietà di alcuni luoghi di internet. Quasi tutto quello che non paghiamo (anche nella vita reale) non ci appartiene realmente e può esserci sottratto, di contro ciò che paghiamo (anche online, ad esempio uno spazio su cui erigere un blog e/o sito) non lo tocca nessuno, a meno che non vengano violate delle regole, come quelle del contratto a cui hai detto “Accetto”. Ma quello pure è un altro campo da gioco e riguarda il “contravvenire ai patti”.
Si chiama filtro editoriale, cosa che sta a monte di tutte le parole scritte digitali o cartacee della storia o di internet. Resta il lavorare nell’ambito del frattempo: non ha ancora perso di validità il principio secondo il quale l’avido ti venderebbe la corda che servirà ad impiccarlo. Non so se mi spiego.
Mi viene da pensare una cosa però, Facebook offre un servizio gratuito. Un servizio che necessità di strutture, personale, energie che vanno pagate. In cambio offre visibilità ai contenuti, la possibilità di tenerti in contatto, ecc. A me non sembra un crimine che ci propongano le pubblicità in base a criteri come amici, preferenze, commenti ecc. E’ più facile che mi propongano cose che mi interessano. L’importante è che poi quando segnalo una pubblicità perché inadeguata, non me la ripropongano.
Poi mi sarebbe sembrato molto strano che Facebook dicesse ‘No, guarda, le mie pubblicità non servono a niente. Risparmiate vostro soldi’ Avrebbero potuto non dire nulla, certo. In ogni caso dubito che triplichino le vendite come diceva qualcuno.
la mia preoccupazione non è per gli adulti, la maggior parte dei quali riesce a difendersi, leggi la possibilità di verificare da quale IP vengono le segnalazioni, il mio blog ad esempio è stato più volte visitato dalla Polizia, ma è per i giovani che sono allo scuro di queste dinamiche. Educhiamo.
ps credo che per i vostri account sia partito tutto dalla segnalazione di B&C.
Gabriele:
devi considerare la quantità di informazioni che viene dalle “carte fedeltà” della grande distribuzione, tanto per fare un esempio (e tener conto che negli Stati Uniti il database marketing é una disciplina attestata dagli anni ’60, che nessuno paga in contanti se non é un personaggio di Pulp Fiction, ecc).
–> http://www.datalogix.com/measurement-and-insights/
Quanto alla “proprietà” e a pacta-sunt-servanda, anche se scarichi il pacchetto WordPress, ti fai un mazzo con i privilegi di sistema, MySQL e PHP e lo installi su un server “tuo” – magari perfino una macchina fisica che tieni in cantina, basta che qualcuno stacchi la chiave a un backbone e ti trovi a guardarlo solo tu, il tuo server
Giorgio: conosco bene il discorso che fai per wordpress ma nessuno stacca una chiave, nel senso che semplicemente non avviene o se avviene è questione di malfunzionamento e a questo punto non è diverso da quando va via la luce a casa, nel senso che è un servizio e come tutte le cose può avere un problema.
Sulla questione FB/prodotti mi sembra che comunque tu non mi abbia risposto. Nel senso che anche postulando l’uso sempre e comunque di carte di credito, dunque il fatto che possano sapere che io, nel giorno X ho comprato X, chi fa l’associazione tra quell’ “io” e l'”io” di FB, non mi è chiaro il meccanismo con il quale venga associata l’identità estratta dalla carta e quella estratta da FB, tanto più poi se (come è) i dati che FB tratta sono criptati e immagino anche quelli delle carte e non credo nella stessa maniera non essendo la stessa società.
Vabbé, la chiave la può staccare un gestore “strategico” (Telecom?), un governo, un ente a piacere; se pensi che “nessuno stacca la chiave” pillola rossa e vedrai quant’é profonda la tana del bianconiglio…
I dati di FB e di altri sono criptati, ma decrittabili dai proprietari; il libro di Loredana & Giovanni spiega bene che sono stati sterilizzati prima di incrociarli, cioé le identità reali sono statemascherate da ID univoci.
Tieni anche conto che per aprire un account FB – o altrove – ti occorre un indirizzo email valido. Anche se ne usi uno gmail, per aprire quello hai dovuto comunque darne un altro, che viene da un gestore (alice per es.) o da un dominio registrato. Alla fine la tua identità é chiara, con tanto di codice fiscale.
Sicuramente FB cripta e può decriptare e di certo ti dà un codice univoco, questo è chiaro. Ma lo stesso non sanno chi sono, nel senso che a parte il fatto che potrei usare tutti dati fasulli e nessuno controlla (contrariamente alla apple che ti chiede una carta di credito e la verifica), lo stesso non c’è nulla che consenta a FB di capire che questo Gabriele è lo stesso Gabriele che ha usato quella carta, o quantomeno per essere più precisi forse potrebbe anche esserci ma richiede una quantità di dati che decisamente non tutti immettono perchè non sono i dati “base” e nessuno va oltre i settaggi base su nulla (tipo usare la carta di credito su FB).
Quando dico nessuno stacca la chiave lo intendo come nessuno ti stacca la luce o ti leva l’acqua. E’ chiaro che magari accade pure ma non solo sono casi rari, soprattutto sono parte del sistema. Il mio commento era partito dicendo che non mi stupisce di “non essere proprietario” della pagina Facebook tanto quanto non sono proprietario del mio contratto con l’Acea
E infatti dovresti preoccupartene di più; del sistema, intendo. Ciao e in bocca al lupo. 🙂
ok quel che tu dici è giusto ma proprio perchè mi preoccupo che voglio capire e ancora non ho capito come accada la connessinoe che viene descritta.
Io, sinceramente, non credo sia possibile e penso sia tecnofobia generica, tuttavia so bene che ci sono parecchie cose che non conosco e sono disposto a comprendere ma ancora non ho capito e finchè non capisco (o finchè non mi viene spiegato per bene con delle prove, dove per prove intendo qualcosa di più di “te lo giuro”, anche poco) mi sento autorizzato a pensarla così.
Per favore, tecnofobia no. 😀 Non può scattare in automatico l’accusa di tecnofobia ogni volta che si prova a smontare un meccanismo.
@ carlotta
Ti scrivi: «Facebook offre un servizio gratuito. Un servizio che necessità di strutture, personale, energie che vanno pagate. In cambio offre visibilità ai contenuti, la possibilità di tenerti in contatto, ecc.». No: questa è la favola che ti viene venduta. Fb è una struttura vuota che viene riempita da contenuti che TU, e TUTTI GLI UTENTI DI FB, cedete a titolo gratuito a Mark Zuckerberg: non solo dati biografici, ma informazioni note e info che si generano nella discussione; affetti e sentimenti; stili di vita, consigli, lavoro intellettuale, cooperazione sociale, ecc. Mark Zukerberg fa fruttare ciò che voi gli cedete e ne ricava un profitto: quei 16.800.000.000 $ che costituiscono il suo valore di mercato li ha presi da voi, e non vi ha dato né la percentuale, né gli interessi. La differenza tra Zukerberg e il gatto e la volpe di Pinocchio è che Zukerberg ha davvero trovato l’orto dei miracoli in cui moltiplicare le vostre monete d’oro: ma, come il gatto e la volpe, vi ha derubati non solo della rendita, ma anche dei vostri denari che ha sepolto nell’orto. Se hai visto “The Social Network”, dovresti porti una domanda: perché un regista che ha raccontato nei precedenti film 3 serial killer, 1 mostro alieno che si nutre dei propri ospiti prima di ucciderli, 2 psicopatici (uno dei quali decisamente stronzo) incapaci di distinguere la realtà dalle proprie proiezioni paranoiche, ha fatto un film su Mark Zuckerberg (e Sean Parker)? Se trovi la risposta, ti accorgerai che tutto il resto (compreso ciò che è accaduto a Lipperini e può accadere a chiunque, in barba alla libera connessione di ogni punto del globo) segue da qui.
“Over the past few months, Facebook and Datalogix figured out a way to match their respective data sets in a manner that maintains people’s privacy (more on that below). In other words, Facebook can now tie its users to the stuff they buy at supermarkets. Armed with this data, Facebook began running a series of analyses into the effects of advertising campaigns on its site. If, say, Procter & Gamble ran a Facebook ad for Tide, Facebook could look at Datalogix’s data to see whether people who were exposed to the ad tended to purchase more Tide in the weeks after the campaign. (Tide is just an example here; Facebook has conducted more than 60 such studies for major advertisers, and while it was willing to give me general insights about its findings, it wouldn’t discuss specific advertisers.)”
http://www.slate.com/articles/technology/technology/2013/03/facebook_advertisement_studies_their_ads_are_more_like_tv_ads_than_google.html
Ora, basterebbe sapere che Datalogix (che non é proprio un’aziendina piccolissima) vende con successo questi dati a multinazionali della grande distribuzione. Per quanto FB, come Google e compagnia, tenga rigorosamente e ovviamente segreti i suoi algoritmi, tutti noi – e soprattutto chi é “del mestiere” sappiamo che i dati esistono e sono continuamente oggetto di commercio (del resto, come fa la Nsa a usare le informazioni che “raccoglie” da FB, Apple, Google ecc. se non é possibile tracciare gli account?).
Delllo schema account –> email valida –> utente identificato da un gestore telefonico o un’autority di registrazione domini (che funziona in Italia) ti ho già detto. Possiamo parlare anche degli IP, o delle connessioni mobili che passaano da una Sim identificata.
@ massimiliano
Hai ragione, il principio che citi non ha perso validità. Ma è cambiato qualcosa: l’avidità del venditore di corda è stata talmente interiorizzata nel senso comune, nelle relazioni sociali, nelle gerarchie di valore, che il solo pensare che meriti (il venditore avido) di essere impiccato ti fa passare per terrorista.
è preoccupante che la gente si metta sulla difensiva quando si indagano i meccanismi dietro le cose. Se odiate i dubbi non leggete questi articoli, ma non dovete pretendere che tutti si uniformino al vostro pensiero per calmarvi.
Se invece amate dubbio e l’inquietudine (detta anche tecnofobia), leggete anche questo articolo su come stanno semplificando sempre più i sistemi e i dispositivi in modo che non possiate guardarci dentro. Stay hungry…Stay hacker.
http://www.agendadigitale.eu/competenze-digitali/550_per-favore-non-chiamateli-nativi-digitali.htm
Per rispondere a Gabriele,
http://www.internazionale.it/opinioni/farhad-manjoo/2013/04/02/al-supermercato-con-facebook/
A quanto ho capito leggeno questo articolo (da una rivista USA) i dati di chi compra cosa vengono forniti a Datalogix dai supermercati. Lo strumento che lo permette è la carta fedeltà.
Anche in Italia se non ricordo male quando firmi i moduli per la carta fedeltà del super puoi autorizzare certi tipi di uso dei tuoi dati.
Ma penso che se non hai una carta fedeltà in nessun modo il supermercato possa legalmente comunicare a chicchessia che tu Gabriele Pincopallo nel tal giorno hai usato la carta di credito per comprare questo e quello. Sbaglio, Loredana?
Francesca, sì. L’articolo di Internazionale ripete il contenuto dell’articolo su Slate linkato più sopra. Ovvio che se paghi in contanti non esiste dato. se paghi con carta di credito, il dato esiste, ma é più complesso da ricostruire. Infine, il concetto di “comunicare legalmente” é molto labile e elastico. Negli USA é diverso che in Italia, per cominciare, e comunque, basta capire chi se ne * …
Giorgio: gli ip non sono sempre tracciabili perchè moltissimi si connettono dall’ufficio, molti ne usano di dinamici e anche volendo risalire a quelli domestici ormai tutti abbiamo il WiFi in casa e questo fa sì che sia impossibile stabilire chi stia usando la connessione in quel momento, inoltre chi usa prevalentemente internet da mobile (che invece si è più tracciabile) oggi non è la medesima tipologia umana che interessa agli investitori (minorenni più che altro con poco potere d’acquisto). Inoltre io conosco moltissime persone (molto poco avvezze alle tecnologie) che sono in grado di fare casini pazzeschi con gli account e, in famiglia, usare gli uni quelli degli altri e anche gli uni le carte di credito degli altri (nel caso di account come quelli apple o android).
Ad ogni buon conto anche leggendo tutto il pezzo che linki comunque non è chiaro come FB sia sicuro della mia identità, tu dici attraverso la mail ma a me non sembra uno strumento affidabile. Io uso una mail con nome e cognome ma anche nell’account google non ci sono tutti i miei dati e non certo perchè io sono un malato della privacy quanto perchè non mi va di metterceli, chi me lo fa fare? E come sai la maggior parte delle persone fa anche meno di così. Ho capito che tu sostieni che per registrarmi io ho dato un altro indirizzo mail (non so se ti è capitato di aprire mail ad altre persone che non lo sanno fare, io l’avrò fatto mille volte negli ultimi 10 anni, ma la mail che dai di garanzia alle volte è tra le più disparate e meno coerenti con l’identità del soggetto) ma innanzitutto questo presuppone (e ho capito che tu lo presupponi) che Fastweb, telecom, infostrada ecc. ecc. diano dati personali dei loro iscritti a Facebook, cosa per credere alla quale capirai mi servono più garanzie, cioè non posso crederci perchè me lo dici tu (con tutto il rispetto eh, ma non so nemmeno chi sei…) o perchè “l’ho letto su un articolo su internet”. E’ una questione di proporzioni: più l’illazione è grossa più ho bisogno di basi e fonti certe per crederci.
Ad ogni buon conto io credo che il problema di questo ragionamento è che sebbene Io su FB sono con nome e cognome e città e la carta di credito sa nome e cognome mio e mia città (dico solo tre dati, per dire) a mancare è la certezza. Si può anche fare la connessione ma come hai visto quando cerchi una persona su Facbeook le omonimie sono pazzesche e spesso se non hai amici in comune non ce la fai a capire chi è quello che cerchi sul serio. Dunque che aziende investano molto su una cosa del genere che non ha margini di certezza (per come mi è stata spiegata fino ad ora) cioè che non mi assicura al 100% che quel Mario Rossi è lo stesso Mario Rossi che ha comprato quella cosa o che quell’account FB sia davvero usato dal proprietario di quella carta, mi sembra decisamente assurdo. O quantomeno (di nuovo) una cosa per credere alla quale ho bisogno di più basi e dimostrazioni di un articolo online senza fonti certe.
Te la giro in un’altra maniera ancora (e poi basta giuro): a me tutto questo pare molto improbabile per tutte le motivazioni che ti ho elencato, tuttavia sono disposto a farmi spiegare e cambiare idea, non mi metto di traverso, però perchè quell’articolo che linki dovrebbe convincermi? Perchè dovrei fidarmi?
Giobix, non mi metto sulla difensiva chiedo solo di sapere come avviene qualcosa che a me (per quanto ne so oggi, e sono conscio di non essere il più sapiente del pianeta) non sembra fattibile. Nessuno ha detto che sono tutte cretinate, ho chiesto come si possa colmare un gap che non mi sembra colmabile.
Loredana: non ti accuso di tecnofobia, leggo spesso quel che scrivi e so che non sei una tecnofobica ma senza spiegazioni più dettagliate non posso che archiviare questa teoria nell’alveo della tecnofobia. Il che non significa che io stia dicendo che tu sia una tecnofobica ma che questa cosa gira da quelle parti per me (ripeto: al momento e senza prove maggiori). La stessa differenza che esiste tra “sei una stronza” e “stai facendo la stronza”.
Infine, il commento mio era nato per dire che non penso che internet sia diverso dal resto dei media e non mi viene da stupirmi se scopro che un giorno mi salta il blog o simili (semmai da incazzarmi). E in questo senso quantunque tutta la strategia datalogix+FB fosse effettiva, lo stesso è qualcosa che si può fare ugualmente con la tv via satellite (che ha un contratto) o gli abbonamenti alle riviste di carta.
@Gabriele: linkare i dati e ricostruire la tua storia è un gioco da ragazzi, fidati. L’ho fatto per mestiere per anni e ti assicuro che oggi ci sono mezzi molto più potenti di quelli che avevo a disposizione io. Certo, un margine d’errore (piccolo) c’è, ma non è questo il punto: se l’errore è contenuto, inciderà minimamente sulla capacità dell’algortimo di generare dati corretti, e quindi soldi. Si lavora su base probabilistica, massimizzando la probabilità di ottenere incroci corretti. E tanto basta.
Al di là delle tecnicalità, del perché e del percome sia potuto succedere quanto è successo, mi pare che il dato da sottolineare sia quello illustrato con gran copia di argomentazioni da Loredana e Giovanni Arduino in “Morti di fama”: questi spazi in rete non sono nostri. Sono messi a disposizione, regolamentati e gestiti come la stalla di un allevatore che la rende accogliente perché i soggetti lì ospitati – le mucche – gli danno il latte di cui vive. Noi vieniamo munti dei nostri dati, che consentono di progettare campagne di marketing che ci mungeranno poi dei nostri soldi.
Tengo a dire che io non trovo nulla di disonesto in questo: finché i miei dati vengono usati per propormi un paio di scarpe da trecking, non ho problemi. Il pericolo vero, secondo me, sta nella storicizzazione di quei dati, nella loro permanenza a tempo indefinito sulla rete. Dati che non sono solo utili a vendermi un paio di scarpe, ma anche – eventualmente, se ne varrà la pena – ad accusarmi, in futuro, per opinioni politiche maldestramente espresse magari in un flame (e sappiamo tutti quanto i SN radicalizzino le nostre espressioni), per un fatto incautamente raccontato, da me o da altri. O magari usati da un’assicurazione che per questa via (illegale) viene a conoscenza di una mia patologia e mi rifiuta una polizza. Questo è ciò che mi fa davvero paura.
Fa bene Loredana a ricordarcelo: questo spazio non ci appartiene. E’ la stalla in cui veniamo munti. Il che non vuol dire che lo dobbiamo abbandonare in massa: è però bene essere consapevoli della sua vera natura.
Be’, basta aver seguito senza neanche tanta attenzione la questione “Snowden” e “Datagate” per capire cos’è la rete oggi.
E’ di ieri la notizia, per esempio, che la NSA ha chiesto a Linus Torvalds di mettere una “backdoor” dentro il codice del kernel Linux.
Ma è solo l’ultima.
C’è modo di non essere controllati – o di non esserlo del tutto, se si vuole – ma è faticoso 🙂
Si parte da qui:
https://prism-break.org/
Ci si informa su cosa siano gli strumenti informatici e come funzionano (almeno a livello di base: si chiama “consapevolezza”) e si agisce di conseguenza.
Anche da noi, in Italia, c’è un progetto – che ormai ha più di 10 anni – che cerca di offrire strumenti liberi e – nei limiti del possibile – “sicuri”:
http://www.autistici.org
Anche se il primo responsabile della tua sicurezza sei tu, gli altri possono solo aiutarti.
Ciao 🙂
Maurizio: ok ma me lo puoi spiegare? Vorrei capire come è possibile per te sapere (con un sufficiente grado di certezza) che io che uso quest’account FB sono lo stesso che ha usato quella carta di credito. Come si procede e usando quali tipi di dati?
Dimenticavo, per @Loredana, che dice:
“lo spazio che crediamo “nostro” non ci appartiene. Né Facebook, né Twitter, e neanche questo blog, che è su piattaforma wordpress”.
1) WordPress è un software (libero, tra l’altro: http://www.gnu.org/philosophy/free-sw.it.html), non è “uno spazio”. Kataweb usa WordPress, come tanti altri fornitori di spazio web;
2) ti puoi comprare uno spazio tuo – su un qualsiasi ISP (vi consiglio di evitare Aruba, per tristi trascorsi proprio sul fronte “sicurezza e privacy”: http://www.autistici.org/ai/crackdown/aruba.html), su cui installare il TUO WordPress, da cui nessuno (o quasi, in realtà) può cacciarti o censurarti;
3) ci sono fornitori di spazio web / blog “etici”, che cercano di tutelare la privacy dei propri utenti. Autistici è uno di questi (http://www.autistici.org), che offre anche un servizio di bloggin:
http://noblogs.org
Ciao 🙂
@girolamo
In che senso mi ha derubato del mio denaro?
io so solo che un amico ha scattato una foto col suo smartphone salvandola nella galleria dello stesso.E dopo 50 secondi ha avuto un contatto su fb di una persona di un’altra regione che per avrebbe potuto conoscere che aveva a che fare con l’associazione il cui logo compariva nello sfondo della foto nello scatto privato dell’amico, L’anima è in rete, nolenti o volenti(e so anche quanto posso essere stato poco chiaro)
@Gabriele: mi scuserai, spero, se sono sintetico, ma ho due ostacoli: la materia è complessa e sono anche molto occupato. Dunque, tanto per cominciare l’indirizzo e-mail non è – probabilisticamente parlando – un’informazione così inattendibile: indirizzi duplicati non ci sono e, anche se è vero che ognuno di noi tende a usarne più di uno, incrociando dati supplementari (non standard: dipende da ciò che si conosce, come età, sesso, ma anche preferenze di prodotto, ecc.) è possibile raffinare l’algoritmo fino a raggiungere il livello di precisione desiderato. Non ci sarà mai la perfezione, questo è chiaro; ma – ripeto – non ci interessa, ci è sufficiente una probabilità di errore minima, in modo da minimizzare anche i mancati guadagni. Senza contare che molto spesso l’operatore dispone di chiavi ben più affidabili per ricostruire le identità: Amazon, che se vuoi ti fa la fattura, può avere il tuo codice fiscale e quasi certamente ha il tuo indirizzo (dato non semplicissimo da trattare, ma si può utilizzare). La statistica, la matematica e la teoria dell’informazione ti mettono a disposizione modelli e algoritmi sofisticatissimi per gestire questi dati e costruire i pattern che ti interessano. Alla fine, dipende solo da quanto sei bravo. Io, quando facevo questo mestiere, ero abbastanza fortunato, potendo spesso contare su dati di fatturazione (e quindi praticamente certi, a cominciare da codice fiscale/partita IVA); ma anche quando i dati erano meno affidabili si riusciva a fare molto, davvero molto. Spero di esserti stato d’aiuto, ora ti devo salutare. Se mi viene in mente, ti do qualche testo di riferimento (ma se usi la chiave “data mining” te li puoi trovare anche da solo).
Gabriele, Maurizio ha ragione. E comunque, l’intero mercato della pubblicità televisiva italiana (hai presente le cifre?) si basa sui dati Auditel, cioé sulle informazioni fornite da pochissime “famiglie campione” (circa 5000) che con un telecomando speciale dcono a un apparecchio (meter) quanti sono in ogni momento davanti alla tv, chi sono (quale membro-i della famiglia) ecc. Il tutto con un’approssimazione pazzesca. Eppure per accordo comune si finge che siano dati “veri” e si fanno i contratti su quelli.
Cosa importa se qualche utente FB su milioni viene “scambiato” per un’altro?
Credo che vadano, almeno la prima volta, a caso. Per esempio dichiaro che ho 60 anni? mi arrivano una serie di proposte di vario tipo o genere. L’errore, ammetto che l’ho fatto, è di dichiarare che comunque la cosa non mi interessa.Per loro è già una risposta. Allora tentano e provano, insinuano che, per esempio, se sono Bibliotecario, mi piaccia Amazon e Mondadori. Buttano un’esca e aspettano che io, ahimé, abbocchi comunque anche solo per dire che Amazon è una ciofeca e che io preferisco le Librerie, quelle dove le persone si interessano di me perciò le Librerie piccole o medie e quasi personalizzate. C’è sempre qualche bella eccezione. Tranquillo Massimo 🙂 Nelle Librerie trovo anche Mondadori. Ma non solo quello. Così anche adesso loro potrebbero chiedermi se la Libreria di via Nazionale mi piaccia di più di quella di via dei Banchi Vecchi. insomma fornisco sempre e comunque dei dati. Questo è l’aspetto commerciale. Altro è invece la persona. A loro interessano le grandi cifre, i blog con numeri significativi di seguaci e di seguitori. Dopo un certo numero scatta il grande fratello… Ma non è che altrove e con altri abbiamo “scampo”. è come essere in un grande…. “zoo di vetro”. L’unico modo, ma neanche più ormai, è non partecipare, essere invisibili. Ma… se sei invisibile allora è solo una storia tua…
Ah, dimenticavo: esistono in tutto il mondo, e non da ieri, società che campano di commercio di dati. Lo scoprì anche Grillo, insieme all’acqua calda, in epoca addirittura pre-euro (“Geometri a duecento lire!”, andava berciando). Hai bisogno di un database di avvocati per cercare di vendergli una versione annotata del codice pincopallo? Alzi il telefono e contratti, poi ti arriva il flusso. Quando non c’erano i SN le fonti erano essenzialmente l’elenco telefonico, quello dei dati automobilistici e pochi altri, e infatti le informazioni erano molto scarne: sapevi che il tizio faceva l’avvocato, che aveva lo studio in via xy con quel numero di telefono e poco altro; oggi, che il suddetto avvocato confessa sua sponte a FB financo le proprie preferenze sessuali, non riesco nemmeno a immaginare quanto ben di dio (si fa per dire) si possa stoccare in certi archivi.
Non è possibile cancellarsi da Facebook? Se uno strumento, una tecnologia, si inizia a capire che fa più male che bene, la si abbandona a meno che non ci siano interessi di convenienza per continuare ad usarla, o a divulgarla.
Io distinguerei il piano della critica alle connotazioni economiche del sistema, alle critiche al funzionamento amministrativo del sistema, fermo restando che, non ho mai condiviso l’ideologia per cui internet sia uno spazio vuoto, e libero, e la sorpresa per cui su questa o quella piattaforma si è oggetto di regole amministrative e non solo soggetto che le pone. La critica alle connotazioni economiche, con lo spaventoso gap di guadagno che le sponsorizzazioni implicano mi sembra condividisibile, o almeno condivisibile in buona parte. Invece, per come la vedo io, io il problema delle logiche di amministrazione è vasto e corposo in fb non perchè esse ci siano, perchè io per esempio apprezzo che ci siano, anche se sono contro il mio interesse – io sono stata bannata da Fb e manco per un giorno ma per un mese, ma per le modalità in cui sono applicate, modalità che le rendono inique ipsofacto, perchè legate alla logica della delazione, dell’accorgimento casuale. Si denunciano i contenuti violenti per esempio razzisti o omofobi solo se vengono segnalati se no campano allegramente, alle volte anche se segnalati non vengono bannati. il problema è anche la mole assurda delgi iscritti che rende un’attuazione più equa delle regole, praticamente difficile credo.
Alla fine, però, mi rendo anche conto, pensando alla mia reazione quando sono stata bannata, dell’inquietante dipendenza che circola da Fb, come se esserne bannati possa voler dire davvero, perdere uno spazio di libertà, ecco – trovo questo un tantino inquietante.
Maurizio: ok, visto che facevi questo lavoro tu mi confermi che Amazon o Google o Telecom o Infostrada si passano i dati? Cioè (la metto lì brutale ma sto ipotizzando un livello di comunicazione più raffinato di quello che esprimo) se a Facebook o chi per lui servono dei dati di diversi Mario Rossi per incrociarli le altre società glieli danno così? Sinceramente trovo difficile crederlo ma se tu facevi questo lavoro (che poi che lavoro è? Raccoglievi dati su persone o incrociavi database diversi per capire se mrossi@gmail.com è quel Mario Rossi di Facebook?) me lo puoi dare per certo?
Giorgio: certo so come funziona l’auditel e se è per questo l’audiradio (che muove meno soldi di auditel ma comunque li muove) è ancora più vago e impreciso, per non dire degli strumenti di rilevazione e distribuzione dei compensi SIAE. Però dicendo questo confermi la mia tesi primigenia, questa roba non è realmente affidabile e non per difetti tecnologici (che un domani potrebbero essere risolti) ma umani, cioè per la maniera leggera e vaga con cui immettiamo dati online, dunque perchè questo allarmismo?
E’ uno strumento di rilevazione impreciso e suscettibile di mille variabili che lo falsano. Se le grandi società se lo fanno andare bene (come gli investitori si fanno andare bene l’auditel pur sapendo che è vaghissimo) per giustificare investimenti, studi e via dicendo, ok per loro ma non mi sembra una cosa preoccupante.
Beh, Gabriele, questo come faccio a confermartelo? Non lavoro per nessuna delle aziende che hai citato… Quello che posso dirti è che, nel caso tu dia il consenso alla trasmissione dei tuoi dati a soggetti terzi, allora la società a cui li hai conferiti li può passare ad altre società, gratis o a titolo oneroso. Nel gruppo Telecom, per esempio, una volta c’era Seat Pagine Gialle che faceva (anche) questo lavoro: prelevava (legalmente) dagli elenchi telefonici i dati individuali, li “arricchiva” di informazioni incrociandoli con altre fonti e poi li rivendeva. Quanto a che lavoro è, la risposta è facile: marketing.
ok
quindi non abbiamo prove serie che le grosse società di telecomunicazione o le grosse .com si passino i dati tra di loro e siamo solo nel campo delle supposizioni e del sentito dire? Suona provocatoria come domanda ma è sincera.
e comunque anche tu maurizio mi confermi che (qualora fosse) non è nulla di nuovo, si faceva (e si fa) anche al di fuori di internet
Gabriele, ho la sensazione che anche se potessimo pubblicare i tabulati (e magari ci fosse un Datagate del marketing) ci diresti che li abbiamo taroccati. Ti assicuro che nessuno qui è tecnofobico: ugualmente, non si vede perché invitare all’attenzione debba essere sinonimo di luddismo, no?
io non nascondo di essere molto scettico tuttavia siamo ben lontani dai tabulati.
Come dicevo a Giorgio più è grande la notizia più mi sento in dovere di avere delle prove serie. Sono certo che c’è chi già pensa che le cose vadano così dunque non trova molto difficile crederlo se lo dicono altri. Io, che non penso che le cose vadano così, avrò bisogno di certo di qualcosa di più sostanziale di opinioni per quanto qualificate.
Non credo sia questione di luddismo, credo sia questione del fatto che tendiamo a dubitare più delle internet company di quanto facciamo del resto. Accettiamo tutte le storie di advertising e pubblicità collegate al nostro nome per la tv satellitare ma meno quelle su Facebook (ed è ovviamente solo un esempio). Accettiamo nome e numero di telefono sull’elenco telefonico ma non online e via dicendo, e nonostante sembri non credo sia sempre per motivi di luddismo (a farlo è anche gente per nulla luddista) quanto di una generale diffidenza verso internet, diffidenza che ha delle basi intendiamoci visto che io non ho mai visto un luogo con più alta concentrazione di truffe, imbrogli e dataleak di internet.
Lo stesso penso che per un’informazione così grossa come (semplifico) Facebook è in grado di vendere (e lo fa) i nostri dati a chi è in grado di incrociarli con le abitudini di consumo e sanno quel che facciamo, servano delle evidenze concrete.
Poi sullo stare attenti va bene, non c’è nulla di male e nessuno è contro lo “stare attenti”, anzi è per quello che letto un post come questo ti viene da chiedere: ma scusate non mi sembra possibile, come fanno?
@ Gabriele
io avevo un contratto con Telecom che dopo un anno aumentava di prezzo, e qualche settimana prima mi telefona Vodafone per ricordarmi che stava per arrivare questo momento dopo il quale avrei pagato di più e quindi mi proposero un contratto altrernativo. Su di un vecchio account mail che non uso più mi arrivano regolarmente annunci di incontri, cosa assurda sia perché non lo farei mai e sia perché è un account che non uso più, dunque è del tutto inutile. Sono diversi gradi di riuscita del marketing. Direi che per chi è preoccupante il tutto, non conta tanto ( o almeno non solo ) la precisione degli strumenti usati, ma qual sia il limite che le società possono o non possono superare nell’acquisire informazioni e poi il grado di consapevolezza delle persone. Oltre al fatto che il marketing tende ad occupare tutti gli spazi.
Gabriele, la differenza tra allora e oggi (dove l’allora indica qualche anno fa, non un secolo fa) è che prima si tentava di fare certe cose con mezzi limitati e più in là di tanto non si poteva andare, mentre oggi la tecnologia ha superato ampiamente le difficoltà che derivavano, per esempio, dalla necessità di stoccare grandi masse di dati e storicizzarle; ma, soprattutto, i dati disponibili sono diventati un oceano grazie ai SN, laddove prima di FB e compagnia erano solo un rigagnolo. Ti basta questo per parlare di un cambio di paradigma? Sì, poi se vogliamo procedere con la logica di un tribunale diremo che non ci sono prove di abusi, che non è detto che quello che si può fare venga effettivamente posto in essere e quello che vogliamo. Ma una società umana dovrebbe adottare opportuni strumenti di tutela prima che gli abusi si verifichino, se ricorrono condizioni atte a incentivarli. E qui, in tanti, stiamo rilevando che queste condizioni ci sono tutte. Poi, certo, se vogliamo a tutti i costi conservare la nostra tranquillità, possiamo anche dire che “non abbiamo prove”, che “non si possono fare i processi alle intenzioni” e quello che vogliamo, in attesa di un (auspicabile, a questo punto) scandalo che ci costringa ad aprire gli occhi. Io non la penso così. E tieni anche conto che in tutto questo ci siamo fermati alla sfera dei diritti personali, senza nemmeno sfiorare le implicazioni economiche enormi che l’oligopolio sui dati genera per l’economia e il commercio, in termini di costituzione di posizioni dominanti.
Maurizio: vedo che confondi la mia posizione. Io non sono per “tranquilli, basta agitarsi” ma per “questa cosa che ho letto è davvero così come l’ho letta?” e poi per il fatto che, stando come sono ora le tecnologie, non credo sia possibile e il motivo (lo ripeto) non è tecnologico ma umano, perchè credo che il grado imprecisione, mendacità, inaffidabilità degli utenti è tale che non si possono misurare per bene le cose. Tra persone che aprono indirizzi fasulli, non usano il proprio nome, non compilano i campi, si fanno fare le cose da altri, usano indirizzi non propri, account non propri, connessioni non proprie e via dicendo è tale che è difficilissimo capire chi fa cosa quando.
E’ il problema della pirateria del resto, il fatto che non puoi sapere a) chi ha scaricato davvero quel file b) cosa contenesse quel file davvero a fronte del suo nome (a meno che non lo abbia scaricato anche tu)
Per cui non dico di non preoccuparsi o che il mondo è un posto pieno di gente colma di buone intenzioni ma che questa cosa non mi sembra seria e affidabile, visto l’atteggiamento delle persone e comunque avevo chiesto a voi se c’erano prove che andassero oltre le intuizioni/deduzioni. Siamo daccordo tutti che un conto è supporre (come del resto faccio io, che suppongo che molte cose non si possano fare) e un conto è “E’ accaduto e ci sono le prove”, sono due livelli molto diversi e il pezzo di Slate vuole fare la seconda cosa non la prima ma non mi dà nessuna prova addirittura nemmeno mi spiega in via teorica come sarebbe possibile.
Dunque torno a chiedere: Ma perchè dovrei crederci così?
“il marketing tende ad occupare tutti gli spazi”, dice giustamente **. E infatti qualcuno parla di “marketing interstiziale”, definendo come tale quel sistema di informazioni commerciali che ti raggiunge in quelli che sarebbero altrimenti momenti morti della giornata. Momenti interstiziali, per l’apppunto. Sei in fila alla cassa del supermercato? Invece di lasciarti libero di spegnere momentaneamente l’attenzione vigile – operazione estremamente salutare di tanto in tanto – ecco che lo smartphone ti chiama con il bip per l’arrivo di una mail, un sms pubblicitario, un commento su FB; sei stravaccato a casa sul divano con la TV spenta? Ma avrai a portata di mano il tablet che prontamente ti richiamerà al tuo dovere di consumatore. Ecco, la saturazione di questi spazi ha tutta l’aria di essere perniciosa in termini di stress, di perdita di capacità di concentrazione, di impoverimento relazionale, di autismo sociale indotto. Sono esternalità negative di attività economiche lecite, non stiamo parlando di niente di illegale. Tutto questo è possibile perché i tuoi dati sono in rete, ce li hanno in tanti e tutti hanno qualcosa da dirti. E sanno anche come e dove trovarti.
E il motivo per cui lo chiedo è perchè ci tengo e penso che se una cosa è importante anzi, se una cosa è grave, mi servono prove serie per crederci
Gabriele, stai confondendo i piani. La pirateria è un reato e richiede di identificare con certezza chi lo commette, cosa difficilissima per tutte le cose che dici tu; il marketing se ne può fregare se ci prende “solo” nell’80 o 90% dei casi. In tribunale uno strumento con un tasso di fallacia del 10% non verrebbe mai accettato; per vendere borsette e scarpe va più che bene, invece.
E poi, ripeto, non è che ci devi credere: devi valutare il rischio. Personalmente, preferisco farlo ex ante piuttosto che aspettare la fuga dei buoi.
@ punto_fra
Leggi il commento di @maurizio delle 2:32, e sostituisci a “soggetti terzi” fb
Secondo me il margine d’errore è decisamente superiore al 10% e più vicino al 50% ma come dicevo prima sono tutte cose così, a spanna, “a mio modo di vedere” e senza dati precisi.
Ho capito il tuo discorso ed è chiaro che se la metti così sono daccordo (chi non lo sarebbe?). Ma ti ripeto che l’articolo su Slate non ha questo tono, afferma con certezza cose serie e gravi senza prove, non valuta un rischio ma lo dà per certezza, ed è in questo momento (passando da rischio a certezza) che io chiedo le prove.
Slate dice: “: “Negli ultimi mesi Facebook e la Datalogix hanno trovato un modo per confrontare i rispettivi dati senza violare la privacy di nessuno: cancellano dai database le informazioni personali e le sostituiscono con dei codici cifrati. Il social network può collegare i suoi utenti […]”.
Non c’è nulla di serio e grave, si tratta di trattamenti perfettamente legali se svolti su clienti consenzienti, come la maggior parte sono. Io le facevo queste cose e mi fa davvero ridere il fraseggio: “hanno trovato un modo…”. L’accqua calda, hanno trovato. Sensazionalismo, ingenuotto anche. Ti assicuro che se ti leggi la normativa sui dati personali non la troverai violata in nessun punto da pratiche di questo tipo. Quanto alle percentuali di successo… ma davvero credi che un’azienda pagherebbe team di statistici, matematici, informatici per risultati scadenti come quelli che immagini tu? Sulla base di cosa, poi, fai di queste ipotesi? Congetture, se capisco bene. Se, anche quindici anni fa, con i mezzi limitati di allora, mi fossi presentato con un lavoro così, mi avrebbero cacciato a calci. E con ragione. Ma siamo seri, dai…
Ma è quello che dico io! Sono tutte illazioni (le mie, le loro) per questo chiedo dei dati!
Ma i dati, Gabriele, chi mai te li potrà dare? Non stiamo parlando di informazioni pubbliche elaborate da enti come l’ISTAT! in un campo simile è ovvio che le aziende mantengano il riserbo. Perché dovrebbero diffondersi a spiegare i successi e/o i fiaschi della loro strumentazione interna, beneficiando i concorrenti o esponendosi a figuracce? Ma è così che funziona la vita pubblica. Anzi, la vita. Il più delle volte siamo chiamati a prendere decisioni sulla base di dati parziali o addirittura inesistenti, e non possiamo farci niente. Non si può approcciare la vita collettiva con la pretesa di apporre il Quod Erat Demonstrandum a qualsiasi questione, sarebbe la paralisi civile! E specularmente il paradiso di ogni furbetto, ovviamente.
Ma questo non ti autorizza a fare complottismo senza basi.
Fino ad un anno fa se tu mi avessi detto “Il governo americano ascolta le conversazioni telefoniche di mezzo mondo compresa la Merkel” ti avrei risposto con le medesime argomentazioni che uso ora, andando da “Ma te pare!” a “E quindi tutte le telecom gli danno queste info secondo te?!?” chiudendo con “Questa cosa è troppo grossa per credere a te o altra gente senza avere prove” poi le prove le abbiamo avute ed è cambiato tutto. E non mi vergogno del fatto che prima avrei detto “non ci credo senza prove” penso che facevo bene, perchè altrimenti sei preda di qualsiasi leggenda metropolitana, come puoi discernere la fobia dal complottismo dalla probabile verità?
Ho capito e già me l’hai detto che te sei per il preoccuparsi prima, non dopo averlo scoperto, e anche io sono per l’essere informati e sapere cose, poi però c’è quel passo fondamentale che è la scoperta effettiva dell’esistenza della cosa in sè, e non puoi anticiparlo tu prima dei fatti.
Vabbè, rinuncio.