Sono arrivata quasi alla fine di questo anno col fiato corto, e so di non essere la sola. Ne ho scritto, ne ho parlato con le persone che incontro, e la sensazione è identica: un’accelerazione mai vista fin qui, una moltiplicazione di impegni, eventi, libri, manifestazioni, e per di più in un tempo ulteriormente accelerato per quanto riguarda notizie, avvenimenti grandi e piccoli, indignazioni grandi e piccole, scandali e glorificazioni, tutto sempre più in fretta, tutto affastellato.
E insieme immobile.
Dunque, mi regalo uno spazio lento: anche se dal 26 dicembre al 13 gennaio sarò di nuovo in conduzione a Fahrenheit, sfrondo per qualche giorno (non troppi: fino al 2) gli altri impegni, compreso il blog. Mai scrivere per obbligo, credo. Per rispettare un impegno con se stessi sì. Per rispettare una scadenza, anche. Ma questo è il momento di conservare le parole e di affinarle e di trovarne di nuove.
Dunque, vi lascio con una poesia di Diane Lockward. Sembra malinconica ma non lo è, a mio parere: le voci nelle conchiglie sono la nostra storia, privata e no. Lasciamo che sussurrino. E rigeneriamoci, questo è l’augurio.
Buone feste, caro commentarium: ci si ritrova nel nuovo anno.
Per anni credi che l’oceano sia dentro la conchiglia,
Giuri di aver udito l’acqua mormorare e gemere,
come se la conchiglia ricordasse,
finché qualche scienziato guastafeste spiega
la struttura dell’orecchio, e come forma e compressione
creino una cassa di risonanza dentro la tua testa.
Il suono che senti – è il pulsare del tuo sangue, dice.
Anni dopo anche questo si rivela sbagliato. Non l’acqua, non il sangue,
ma rumori d’ambiente, lunghezze d’onda, un miscuglio di frequenze,
sollecitano l’aria che canta e risuona nel guscio.
La prima conchiglia galleggia in una pozza salata ai tuoi piedi,
la timida lumaca di mare ormai lontana, la casa lasciata libera.
Pesciolini disegnano ghirigori dentro e fuori.
Ogni desiderio formulato guardando una stella,
ogni miracolo per cui hai pregato disperatamente,
ogni volta che sei caduta sulle ginocchia implorando Dio,
ogni sogno che non è divenuto realtà,
ogni usuraio, azzeccagarbugli, ogni imbroglione
ogni artista parolaio che ti ha risucchiato nei suoi inganni
Tutti illusioni del mare.
Dentro quella conchiglia, il suono del rimpianto, implacabile come qualsiasi oceano.
Batte sulla riva, sale e scende, si agita e ti attrae,
gira e scivola e ricade e ritorna ancora e ancora.
Il guscio a forma di cuore riposa nella tua mano,
duro al tocco delle unghie e delle dita,
fragile se lo fai cadere.
Rosa perla dove si apre, come la pelle bruciata, come una cicatrice.
Ne raccogli una, poi un’altra e un’altra ancora, le collezioni
sui davanzali finché la casa è piena.
A volte, di notte, le senti cantare in coro
attraverso il duro guscio del tuo dolore, cantano in coro la loro canzone,
così amara e così dolce