QUEL CHE SULLE DONNE NON DICONO: PARTE PRIMA

Questo è un post in due parti. Anche ingannevole, perché quel che scrivo nella prima parte sembra non problematizzare, cosa che invece ho intenzione di fare. L’idea è di provare a capire quanto, nel profondo, sono cambiate le cose nell’immaginario (come al solito) per quanto riguarda le donne e quali sono i rischi che si corrono oggi, quando pensiamo di aver trovato la chiave per cambiare le cose.
Primo passo.
Nel 2013 Mariano Tomatis, illusionista e studioso di illusionismo e letteratura e attivista e molte altre cose, pubblica un lungo articolo sul vecchio numero del segare le donne a metà. Dove dice fra l’altro:
“Sono gli anni del Grand Guignol, il teatro che mette in scena violenze e torture sempre più audaci. Nato a Parigi, tocca il suo apice a Londra negli anni Venti. Ed è qui che nel 1921 Percy Selbit (1881–1938) presenta per la prima volta una delle performance più scioccanti di tutti i tempi. L’illusionista immobilizza una donna, legandola con delle corde. La chiude in una bara, che sega in due da parte a parte. Quando la cassa è riaperta, la donna ne esce incolume
La “donna tagliata in due” consolida, anche nel nome, lo stereotipo sessista, e ispira centinaia di trucide varianti. Ma perché nessuno confonda i ruoli, sui cataloghi per i prestigiatori la vittima designata è sempre e chiaramente una donna.
Siamo all’inizio del XX secolo. Lo stereotipo fotografa una società patriarcale, dove il suffragio femminile è stato appena concesso. In quegli anni le sostenitrici del voto alle donne vengono trattate come pericolose terroriste. Come provocazione, Selbit offre 20 sterline alla loro leader Sylvia Pankhurst perché si faccia tagliare in due.
La donna rifiuta sdegnata, ma i giornali non perdono l’occasione per fare dell’ironia:
“Che occasione sarebbe per Selbit poter dire di aver segato in due la formidabile Sylvia, non una ma molte volte!”
Per Selbit e il suo pubblico, segare in due una donna è un messaggio politico. Infierire su di lei significa tenere a bada una figura che pretenderebbe gli stessi diritti di un uomo.
Andiamo indietro, all’inizio dell’Ottocento. Così scrive Paolo Mauri su Repubblica nel 2007:
“Quando comparve il Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere firmato da Sylvain Maréchal nell’anno di grazia 1801, ci fu chi disse che l’ autore era ormai maturo per il manicomio. In particolare Marie-Armand Gacon-Dufour, che doveva diventare sua amica e biografa, scrisse che bisognava affidarlo a un Comitato sanitario «finché non gli torni la ragione». Personaggio dimenticato, Maréchal fu poeta, polemista, autore con Babeuf del Manifesto degli Eguali, illuminista ateo e compilatore di un dizionario degli atei antichi e moderni. L’operetta farà sorridere oggi soprattutto le lettrici, prova vivente del suo fallimento. La proposta (che sembra a tratti un’ invenzione satirica) prima di arrivare alla proibizione della lettura, enumera una serie di considerazioni preliminari sui guasti che la lettura stessa provoca nelle signore: «Quanto è contagiosa la lettura: non appena una donna apre un libro, già si crede in condizione di scriverne uno anche lei», per non parlare delle «devastazioni che causano nel tenero cervello delle donne i romanzi e le opere di devozione» (e Maréchal naturalmente non aveva letto Madame Bovary). E poi, via, argomenta ancora il dotto illuminista, le Sabine non sapevano leggere, alle antiche ebree era vietato leggere la Bibbia e la Madonna, quando ricevette la visita dell’arcangelo Gabriele, mica stava leggendo: rammendava le brache del suo sposo. Nell’esporre la legge Maréchal invoca continuamente la Ragione: «La Ragione dichiara che una madre di famiglia non ha bisogno di saper leggere per educare bene le sue figlie» ed è sempre la Ragione a sovrintendere ai matrimoni corretti: «L’ uomo più fortunato è il marito di una donna illetterata». Chissà se Maréchal, che come tutti gli atei sarà certamente in Paradiso, ha saputo che oggi leggono soprattutto le donne”.
Bene, quanto è rimasto nel fondo di quell’immaginario? Un bel po’, nonostante tutto e anche se non si dice a voce alta, almeno in non pochi casi. Cosa occorrerebbe fare per contrastarlo? Proviamo a ragionarci domani.

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