QUESTIONI DI CLASSE

La parola è “classe”. Pronunciarla sembrava faccenda d’altri tempi (le classi non esistono più). Luciano Gallino l’usata due volte nel titolo del saggio-intervista uscito per Laterza (La lotta di classe dopo la lotta di classe). Ieri ne abbiamo parlato a Fahrenheit (qui il podcast). Domenica scorsa Gallino ha scritto questo articolo per Repubblica. Leggete, ascoltate.
Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale.
Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali” o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

47 pensieri su “QUESTIONI DI CLASSE

  1. gallino è un grandissimo, è veramente l’unico (in italia) che mette in dubbio seriamente il modello dominante – e non lo si può neanche bollare come notavestremistaterrorista.
    ma l’altro giorno leggendo questo pezzo (grazie lipperini per averlo pubblicato dando l’opportunità di discuterlo) sono rimasto un po’ con un senso di incompletezza. perché fino a metà è perfetto, perfettamente tragico, nella sua lucida analisi delle cause dello sfascio. però gallino, come direbbe camilleri, conta solo la mezza messa, perché poi discute dei motivi in base ai quali le misure del governo non vanno bene, non incidono sulle cause strutturali. però: non indica quali potrebbero essere delle misure efficaci. e soprattutto, non indica SE possano esserci misure efficaci: dato il tragico scenario, appunto strutturale, da lui disegnato, il dubbio che mi viene, e che mi è rimasto, è che non ci sia niente da fare. o no?

  2. @Lipperini/Dario
    Io ho avuto la pazienza di ascoltare l’intervista.
    L’analisi di Gallino della globalizzazione e dell’ingegneria del lavoro è inattaccabile. Proprio per questo si può dedurre apoditticamente che non c’è niente da fare per via ordinaria e Gallino infatti non ci pensa proprio a propone qualcosa. Qualora si costruiscano sistemi complessi senza vincoli di progetto top-down essi saranno caotici e non potrai averne il controllo permanente. Insomma, come sanno addirittura gli satistici, o sistemi complessi che emergono per effetto di processi spontanei a basso livello (bottom up) – come sono le economie in un sistema economicamente globalizzato – ma senza vincoli di progetto ad alto livello (top-down) – come sono le legislazioni diverse tra Stati – non possono che essere instabili e incontrollabili.
    C’è una domanda interessante che lei pone a Gallino circa la responsabilità degli accademici sull’abbandono del pensiero critico e del come il neoliberismo abbia finito per considerare la cultura umanistica come subalterna alle scienze economiche.
    Vorrei farle presente che se è con gli argomenti umanistici che si dovrebbe/potrebbecambiare qualcosa per contrastare il dogma capitalistico, allora la responsabilità maggiore ricade sulla mancata persuasione da parte loro nel convincere i cittadini ad abbandonare l’ideologia dominante.
    In ogni caso vorrei suggerirle, qualora invitasse altri economisti o pensatori del calibro di Gallino, di porre altre domande che denuncino i veri mandanti morali dello stato attuale: ovvero noi di Sinistra, dal leader di partito all’ultimo dei gauche caviar. Tutti noi che negli ultimi trent’anni non abbiamo avvertito alcuna incoerenza tra la nostra indignazione movimentista e il nostro idealismo socialista da una parte e il nostro personale perseguimento di carriere, redditi e consumi e più in genereale il nostro pragmatismo capitalista dall’altra. Nessuna incoerenza, anzi convinzione di possibile coabitazione.

  3. Io la fiutavo da mesi nell’aria questa subdola possibilità, sottintesa nella riforma, di garantire alle aziende un bel ricambio generazionale giustificandolo con “motivi economici”.
    Ho litigato sul web e “dal vivo” con molti che mi davano dell’allarmista e dell’estremista, eppure almeno nel mio settore (il commercio) questo pericolo mi pareva lampante.
    Se la riforma rimarrà tale sono curiosa di sapere quale sarà l’età e il sesso della maggior parte di coloro che saranno licenziati per motivi economici, non mi vengano a dire che hanno fatto anche la legge contro i licenziamenti discriminatori perché a questi ultimi basterà mettere una bella maschera e via!

  4. Per rispondere a Hommequirit.
    Il problema della sinistra non è tanto predicar bene e razzolar male. Questo succede un po’ dappertutto. Il problema è predicare anche male. Non può contrastare gli effetti perversi della globalizzazione chi si è consegnato mani e piedi alla medesima, non mettendo mai in discussione l’ipotesi della planetarizzazione del modello industriale, che Marx avrebbe semplicemente cambiato di segno, consegnandone la gestione al collettivo anzichè alla proprietà privata. Il concetto di autonomia produttiva è troppo legato alla valorizzazione della comunità territoriale, per non portare con sè la negazione del modello medesimo e delle sue superfetazioni politiche (dal governo mondiale all’impero al populismo planetario di Toni Negri). Infatti chi lo abbraccia smette di essere marxista e diventa magari proudhoniano. Cosa che altrove è anche successa, ma in Italia no, perchè si è continuato a vivere delle rendite della guerra fredda, a destra e a sinistra.

  5. A prescindere da destra, sinistra, centro, sopra e sotto, mi sembra chiara almeno una cosa: nell’Ottocento esistevano le fabbriche che sembravano dover durare in eterno (ferriere, cotonifici, auto, chimica, ecc.), oggi queste realtà non esistono più. Credo che la mia esperienza lavorativa sia abbastanza emblematica: in vent’anni ho lavorato per quattro aziende, tutte piuttosto grandi. Di queste quattro ne rimane solo una. Le altre hanno chiuso. Cosa voglio dire? Non ha senso abbarbicarsi al posto in una azienda che sta per fallire: molto meglio gestire il transito da un’azienda all’altra. Chi può lo fa da solo. Per chi non può, o non sa, deve pensarci lo Stato. Naturalmente, è facile dirlo; attuarlo è un problema.

  6. @Valter Binaghi
    D’accordo con lei. Io intendevo proprio contraddizioni a livello teorico e forse non mi sono spiegato a dovere.

  7. Ma tra Marx e “la sinistra” ce ne corre!
    Gallino principalmente fa notare due cose: per primo la completa privazione della conoscenza di tutto il processo produttivo da parte di coloro che vi concorrono ( in altri termini: l’ alienazione per tutti, anche per gli imprenditori che non sono neanche più davvero padroni della propria attività ), per secondo che questo modello di processo produttivo sarebbe impossibile senza il libero scambio globale ( a cui nessun umanesimo occidentale o orientale che sia sembra poter opporre la benchè minima resistenza). Queste due osservazioni potrebbero già essere due battaglie: la prima del mondo del lavoro opposto ai percettori di rendita, la seconda quella per un protezionismo ragionato.

  8. scusate se magari sembro troppo azzeccoso
    eppure Gallino (sociologo che stimo, specifico) sbaglia a chiamare in causa “coloro -partiti, movimenti- che hanno un’idea progressistica della società”
    sul piano del progresso il capitalismo assoluto è imbattibile

  9. sì, certo, sul piano del progresso il capitalismo assoluto è imbattibile perché intende per progresso una crescita economica (e tecnologica) concepita come una totemica erezione perenne a cui vanno sacrificati, solo per citarne alcuni, i diritti di chi lavora e la sostenibilità ambientale. Non credo che Gallino si riferisse a quest’idea progressistica di società.

  10. credo si riferisse, come è diventato comune, ad un’idea illuminista di progresso: stare sempre meglio. idea confluita da tempo nella narrazione della valorizzazione infinita

  11. @Sir Robin/Lipperini
    Finale di Luciano Gallino
    “[…]La via d’uscita sarebbe un movimento intellettuale di critica in senso forte, nel senso che aveva quando esisteva la “teoria critica della società” [eccola] che metta a nudo le patenti insufficienze, i patenti rischi e le patenti devastazioni che l’ordine liberale, sia pratico, sia ideologico, ha prodotto e rischia di produrre.
    Il fatto è che si tratta di una ideologia (e di una pratica) che al momento è vincente, anche perché i partiti politici, compresa una parte notevole dei partiti di sinistra, dinanzi a questa vicenda si sono rivelati seriamente impreparati.
    Bisognerebbe far sì che i movimenti di protesta nei confronti del disordine neo-liberale e i partiti che in qualche modo si rifanno al lavoro, ad un’idea progressista della società (non oso dire social-democratica) si componessero finalmente rivitalizzandosi a vicenda, per costruire per intanto degli schemi interpretativi che non siano quelli triti proposti ogni giorno dai media e per costruire, attraverso una diversa comprensione del reale, la possibilità che si allarghino le classi sociali o la classe sociale che ha subito il peggio da questa crisi e che avrebbe forse qualche diritto di non essere condannata a continuare a pagare i costi di essa.”
    Scusate ma a voi queste righe danno conforto, identificano soluzioni, ipotizzano strategie? No, perché sia chiaro: queste sono righe d’impotenza pura, dell’ottimismo pessimista di chi sa già che tutto ciò comporterà diverse generazioni. Qualunque volto abbia questa nuova narrazione, sarà in libreria quando l’ultimo di noi lettori sarà già al cimitero.

  12. il tema è molto interessante e il problema di un trasferimento asimmetrico delle insicurezze della globalizzazione dalle imprese (anch’esse fragili e disorientate) ai lavoratori è un problema enorme.
    centra il punto secondo me il commento di riccardo ferrazzi più sopra: se anche le imprese sono disorientate e fragili, la tutela del lavoro dovrebbe essere ripensata non come tutela di quello specifico posto di lavoro (cosa che si fa oggi con la cassa integrazione) ma del lavoratore in transito in un mercato che, volenti o nolenti, è dinamico per tutti: imprenditori e lavoratori.
    nel bene o nel male, questo è quello che i riformisti molto biasimati a sinistra vorrebbero proporre (v. Ichino). Si può discutere della bontà di queste o di altre proposte ma se ne dovrebbe discutere del merito.
    manca secondo me la pars costruens e a casa mia, appurata questa piccola mancanza, si passa oltre – perchè altrimenti si tratta di lamentele giustissime ma incredibilmente sterili – che evidentemente si curano solo parzialmente degli interessi urgenti di chi invece è in quella dinamica incertezza.
    quando leggo:
    “Bisognerebbe far sì che i movimenti di protesta nei confronti del disordine neo-liberale e i partiti che in qualche modo si rifanno al lavoro, ad un’idea progressista della società (non oso dire social-democratica) si componessero finalmente rivitalizzandosi a vicenda, per costruire per intanto degli schemi interpretativi che non siano quelli triti proposti ogni giorno dai media e per costruire, attraverso una diversa comprensione del reale, la possibilità che si allarghino le classi sociali o la classe sociale che ha subito il peggio da questa crisi e che avrebbe forse qualche diritto di non essere condannata a continuare a pagare i costi di essa”
    la mia povera mente semplice traduce in “bisognerebbe che qualcuno proponesse una soluzione organica e sistematica”. Ben detto. Chiamateci quando arriva quel qualcuno. Fino ad allora speriamo che qualcuno meno sistematico e meno organico attui qualche soluzione subottimale ma quantomeno concreta.

  13. scusate se dopo la lunghezza precedente torno ad aggiungere qualche riga. c’è un altro nodo del discorso critico nostrano al cosiddetto neoliberismo che mi lascia ognivolta confuso. questo paese non ha mai conosciuto l’egemonia culturale liberale o liberista. questo paese ha tanti mali nella struttura economico-istituzionali, perlopiù legali al corporativismo, al consociativismo tra potere imprenditoriale e potere politico, alla opacità dei traffici, alla corruzione, allo scarso investimento in formazione, all’impari opportunità di genere e di ceto, al familismo e al nepotismo, all’enorme arretratezza socio-economica del sud eccetera eccetera. ma dire che in Italia (in Italia!) domini la teoria e la prassi del liberismo è una cosa che andrebbe sostanziata di fatti e dati e interpretazioni, altrimenti rimane un enigma d’importazione.

  14. @Roberto scrive: “[…]che in Italia domini la teoria e la prassi del liberismo è una cosa che andrebbe sostanziata di fatti e dati e interpretazioni, altrimenti rimane un enigma d’importazione.”
    Giusta considerazione la tua. Tuttavia Ichino ha ragione perché per verificare l’assimilazione midollare del liberismo nella maggioranza degli italiani non occore ipotizzare che essi ne conoscano autori ed equazioni: basta constatare il pantheon dei loro desideri e la pratica dei loro consumi.

  15. Temo che mentre si sta alla finestra ad aspettare che il mercato globale produca da sè i suoi correttivi (perchè è questo che si sta facendo, limitandosi a tamponare le falle del welfare), le cose marcino a un ritmo sostenuto. Non è difficile prevedere che tra qualche anno i prezzi delle derrate alimentari subiranno una crescita simile a quella che oggi tocca a quelli del petrolio. Reinvestire sulla terra, puntare all’autosufficienza alimentare, imporre a chi intende vendere sul mercato interno di utilizzare forze priduttive autoctone e nazionalizzare le banche, spiegando a chi ci ha creduto che quel che si è raccontato da Clinton in poi sulle meraviglie della globalizzazione è una marea di sciocchezze e alle cicale dell’individualismo gaio che non c’è welfare che tenga se saltano i legami familiari. Lasciare il nordeuropa alla mitomania tedesca e tornare a essere i terroni che siamo, coi cugini Greci e Spagnoli.
    Prima o poi qualcuno lo farà: se non una sinistra democratica, sbarazzatasi dal delirio globalista e restituita a una identità nazionale, lo farà il duce di turno, osannato da folle di disperati come quelli che si sono visti ieri sera da Santoro.

  16. Il passaggio nell’intervento di Valter, ” tornare a essere i terroni che siamo, coi cugini Greci e Spagnoli” ha richiamato alla mia memoria un articolo di Guido Viale apparso sul Manifesto del 21/11/2011 dal titolo “Fronte dei porci” (i Paesi definiti PIGS, o meglio PIIGS, perché in quella doppia I c’è l’Irlanda, ma ci siamo anche noi), di cui riporto uno stralcio e il link. Viale qualche risposta alla domanda “che fare?” la dà, ma in quella risposta siamo invitat* a impegnarci tutt*,.
    “Il terreno su cui ciascuno di noi[…]si dovrà misurare con questo governo nei prossimi mesi e anni è dunque innanzitutto il confronto tra la cultura espressa da Monti e una cultura totalmente altra e tra le conseguenze e le iniziative che derivano da queste opposte visioni. Loro possono contare sulla forza del denaro […] e sulla forza delle armi – quelle impiegate in Iraq, in Libia e in Afganistan, tutti “episodi” di cui Monti nemmeno fa cenno – ma anche quelle della militarizzazione della Val di Susa e dell’inceneritore di Napoli: per imporre a una popolazione renitente quelle Grandi opere che uccidono territorio, socialità e salute. Noi invece possiamo contare su un moto di indignazione che ribolle in tutto il mondo, sulla consapevolezza di dover salvare la Terra e le nostre vite dal disastro – e sulla volontà di farlo – ma anche su mille e mille esperienze e pratiche di lotta, di organizzazione, di modi di lavorare, di stare insieme, di consumare e di produrre, dentro cui sono cresciuti i nostri saperi e la nostra cultura. Tutte cose poco appariscenti che oggi possono sembrare piccole e insignificanti, ma che sono il sale della Terra e una bussola per navigare verso il futuro. Questi saperi dobbiamo valorizzarli e diffonderli; fare di tutti coloro che ci circondano e con cui entriamo in rapporto degli “esperti” di fonti rinnovabili, di efficienza energetica, di agricoltura sostenibile, di alimentazione sana, di gestione dei suoli, di riconversione dell’edilizia, di mobilità flessibile, di cultura dell’anima; perché è con queste conoscenze che si costruiscono le piattaforme rivendicative condivise; che si può proporre la riconversione della fabbriche in crisi; e la riforma della scuola, dell’università e della ricerca in un legame diretto con i problemi di una comunità e non con gli interessi di un consiglio di amministrazione; e l’autogoverno di un territorio; e una piattaforma di governo veramente alternativa. Ma dobbiamo diventare tutti anche “esperti” di finanza, promuovendo un grande audit pubblico sul debito; perché tutti devono sapere come si è formato quel debito, chi lo detiene, e come si può evitare di pagarlo, o di pagarne almeno una parte, o di non esserne comunque schiacciati.”
    http://italy.indymedia.org/node/2195

  17. @hommequirt: ma davvero immaginario e pratiche degli italiani sono liberisti? consumistici, senza dubbio. ma il dominio della merce non è necessariamente liberismo. anche il capitalismo di stato o relazionale o l’industrialismo protezionistico e persino lo pseudocollettivismo contemporaneo market-friendly hanno spazio per tollerare o incoraggiare il consumismo.
    e oltre al consumismo? c’è in italia una forte cultura di mercato, mani invisibili, separazione dello stato dall’economia? a me non sembra. forse è un bene, forse è un male. ma dire “liberismo” per significare “strapotere dei ricchi e degli ammanicati” è una cosa errata. spesso si associa anche “liberismo” a “berlusconi” (lo faceva in realtà anche lui stesso). che è abbastanza ridicolo, visto che berlusconi prospera su licenze pubbliche, in quasi assenza di concorrenza e grazie a indirette (prima) o dirette (dopo) connessione politiche.
    insomma, il liberismo è un’altra roba che noi, nel bene e nel male, non abbiamo visto molto nella nostra storia repubblicana. anche gli eccessi della finanza sono un’altra roba e non sono certo il problema delle banche italiane (che sono invece molto caute e conservatrici da quel punto di vista).

  18. @antonellaf: io credo che purtroppo la marginalità di certa critica sistemica da sinistra deriva da un’automarginalizzazione. marx era l’avanguardia del pensiero economico del suo tempo e un lucidissimo analizzatore dei pregi e dei meriti della borghesia e della formidabile rivoluzione che questa classe aveva portato nella struttura economica e sociale dell’occidente, portando sviluppo e benessere. oggi mi sembra che ci sia uno scollamento, che non si conosca bene il nemico e che ci si rifugi in una sorta di intimismo che – paradossalmente – suona come un distillato di pensiero arcaico-tradizionalista più che di lucida visione progressista. leggo “reinvestire sulla terra”, “restitui[re la sinistra] a un’identità nazionale” (sic), “tornare a essere i terroni che siamo” (che mi sembrano tutti temi da conservatorismo tradizionalista, cantore di un’epoca pre-capitalista i cui trionfavano i valori della famiglia, dell’agricoltura e dei saperi oggidì perduti) oppure leggo “indignazione” che è un sentimento dell’animo (leggo infatti anche “cultura dell’anima”) e non certo una teoria né tantomeno una prassi costruttrice di cambiamento.
    a volte mi sembra, per riprendere quello che dicevo prima, che importiamo indignazione USA per i problemi sbagliati. davvero il problema delle nostre scuole e università è che hanno un legame diretto “con gli interessi di un consiglio di amministrazione”? E’ quello il problema dell’università italiana?

  19. Perdonami Roberto, ma se dobbiamo discutere perché alcuni temi ci stanno a cuore (e quello della ripresa di una lotta di classe a me sta a “cuorissimo”) evitiamo di fare volutamente confusione. Io non ho parlato di identità nazionale, né ho usato l’espressione “reinvestire sulla terra” e, se è per questo, non ho nemmeno citato pedissequamente Marx. Fatte queste precisazioni, mi preme sottolineare che se ho postato l’articolo di Guido Viale non è perché credo che lui sia il Verbo incarnato, ma perché penso che alcune considerazioni siano meritevoli di approfondimento. Altre possono essere tranquillamente respinte ( “la cultura dell’anima” lascia perplessa anche me ), ma se dobbiamo farlo, se dobbiamo appunto parlarne e trovare un terreno comune di discussione, allora evitiamo una confusione di posizioni e parole indistintamente attribuite a tizio e a caia, perché mi sembrano un po’ un tentativo gratuito di confondere le acque e mandare in vacca il discorso. Poi, scusa, Gallino non va bene, Viale neanche..insomma, stai insistendo anche tu un po’ troppo nella parte destruens, mi pare. Quanto al legame diretto dei problemi della scuola con gli interessi di un consiglio d’amministrazione, mi pare evidente che, sarcasticamente, Viale alludesse alla adozione, nella scuola, di una logica aziendalistica, che, aggiungo io, traspare anche dall’odierno linguaggio didattichese (competenze, produttività, efficienza ed efficacia,prestazioni…e ora non me ne vengono altre). Ebbene sì, ritengo che uno dei mali maggiori che affliggono la scuola sia questo suo scimmiottare la logica aziendalistica e, per dirla con Viale, perseguire obiettivi da consiglio d’amministrazione.

  20. Caro Roberto, se la preoccupazione principale è ancora evitare lo spettro del “tradizionalismo” per tenerci stretta la patente di “una lucida visione progressista” direi che il problema non sono ancora le cose (purtroppo) ma la raccolta di figurine Panini del campionato ideologico del Ventesimo secolo. Io del giochino progresso-reazione e Destra -Sinistra ho provveduto a sbarazzarmente, per cercare modi di sopravvivenza per le prossime, non dico tamto, tre generazioni. Lei faccia un po’ come crede.
    Poi quando ha trovato la casellina in cui infilare Lasch, Illich e Latouche, mi faccia un fischio che sono curioso.

  21. @antonellaf. scusa antonella, non volevo fare confusione né mandare in vacca ecc. le citazioni era quelle che leggevo tra i commenti più sopra, non le tue. mi rivolgevo a te, ma non stavo criticando tue parole. forse non so usare bene l’@.
    ciò detto, hai ragione sul fatto che sto insistendo sulla pars destruens. ma sono un paio di commenti di blog, non m’intervisteranno certo alla radio per questo né mi faranno scrivere editoriali. da analisi di più ampio respiro mi aspetto qualcosa di più che dai miei commentini stringati.
    poi, mi sembra, che si stava commentando gallino. e mi sembra opportuno chiedere a chi evidentemente lo conosce quali siano le sue proposte. perchè l’analisi riportata mi sembrava interessante, mentre le proposte mi sembrano fumisterie.
    quanto al tuo disappunto sul fatto che esprimo riserve sui brani citati sia di gallino sia di viale, be’, spero che vi sia qualcun altro nel mondo che abbia fatto riflessioni sull’argomento!
    mi scuso se ho dato l’impressione di portare avanti “un tentativo gratuito di confondere le acque e mandare in vacca il discorso” e tutto il resto che mi attribuisci. mi ritiro in silenzio.

  22. @valter binaghi: sicuramente mi sono espresso male. non credo che una tesi debba preoccuparsi di come possa essere etichettata, né credo che il tradizionalismo sia uno spettro da evitare o bisogna usare le categorie Destra-Sinistra. Dopotutto sono questioni definitorie. Possiamo quindi metterci d’accordo su cambiare le definizioni o non usare etichette eccetera.
    credo soltanto che la storia dell’economia non abbia mai conosciuto regressi così radicali a forme di produzione superate nel frattempo da due o tre secoli di cambiamenti immensi. c’è sempre una prima volta, nelle cose, per carità. senza chiamare in causa la destra, la reazione o la tradizione, tuttavia, sono convinto (sbaglierò) che l’invocazione della nostalgia davanti all’enorme complessità della struttura socio-economica contemporanea sia una reazione (nel senso di risposta) sentimentale e irrazionale.
    da materialista (in senso atecnico) ritengo che il problema di classe sia in primo luogo un problema di benessere economico. e francamente non credo che se guardiamo al passato (quando la terra, la famiglia, il PIL ridotto e l’aria genuina dei campi) troviamo un momento in cui le classi medie e basse stavano messe “relativamente” meglio. anzi: un periodo c’è stato (ma solo come raffronto intergenerazionale e di prospettiva) – quello degli anni 50 e 60, in pieno boom capitalistico.

  23. Roberto.
    In effetti sei tu che hai riportato al passato certe considerazioni che facevo. So benissimo che vita dura facevano i nostri avi, e non ho nessuna idea di ripristino. Quello che allora non esisteva era innanzitutto la coscienza dei diritti che ogni uomo ha sui beni della terra (o beni comuni, come qualcuno preferisce dire), nessuno metteva in discussione la proprietà privata finchè non si è visto che il proprietario di un brevetto farmaceutico può condannare a morire senza cure un popolo povero. In secondo luogo, prima di averne sperimentati gli effetti catastrofici, non si aveva affatto la coscienza del carattere entropico della crescita indiscriminata, nè dell’obsolescenza programmata (per usare una vecchia espressione marcusiana) cui conduce il consumismo. L’immaginario progressista era una specie di Bengodi (il paese di cuccagna del folklore) in cui tutti mangiano a crepapelle, e infatti il sogno realizzato in occidente ci ha regalato generazioni segnate dalle patologie alimentari. In altre parole, come ha insegnato Ivan Illich, è l’ideologia della scarsità che detta i ritmi delle accelerazioni e dei desideri. In ultimo, il confine tra una comunità e l’altra era ambiguamente accettato o in termini di appartenenza etnica o di barriere geografiche, per cui c’era sempre la possibilità che una cultura della guerra potesse “tecnicamente” porre rimedio a limiti imposti dalla natura. Oggi, dopo i no TAV, sappiamo che la dis-ponibilità di un territorio deve essere innanzitutto decisa da chi ci vive, non perchè bianco o nero o racchiuso da montagne, ma perchè concretamente lo abita. Quel che immagino io è la costruzione condivisa di un’idea di comunità, di giustizia e di sobrietà che le epoche passate non potevano nemmeno rappresentarsi ma che per noi sarebbe tutt’altro che un regresso: una sintesi vitale.

  24. Valter, grazie delle precisazioni. In effetti, condivido molte delle cose che dici, soprattutto sulle aberrazioni della c.d. proprietà intellettuale (come i brevetti farmaceutici), sull’obsolescenza programmata e su certe perversioni culturali del consumismo. Purtroppo non conosco il pensatore che citi (per qualche grafema sbagliato ho pensato a un giudice celebremente morto), quindi ti seguo solo parzialmente (per intuizioni diciamo così) sulla seconda parte del discorso.
    L’unico spunto che mi lascia perplesso è quello – scusa se sintetizzo con una slogan – della decrescita. Forse sono troppo immune dall’innegabile substrato romantico di questa visione, ma quando si parla di crescita indiscriminata e si suggerisce di “rallentare”, non riesco a non pensare a quei lavoratori che hai visto da Santoro. Quella è la decrescita. Avrò poca immaginazione, ma non riesco a pensare altre forme di decrescita se non quelle in cui diminuisce il benessere collettivo (con evidente effetto più che proporzionale per i più poveri e più deboli).
    La vita non è una festa di gala, siamo d’accordo. E tutti vorremmo fosse meglio. Ma a me la storia di questa “crescita discriminata” fino ad oggi ispira un po’ più di ottimismo.

  25. Sono cose difficili, Roberto, ci muoviamo tutti a tentoni.
    Siamo pronti a vincere la guerra precedente, come i generali della seconda guerra mondiale che speravano tanto nella linea Maginot, era tutto quel che conoscevano. D’altro canto l’immaginazione sociale senza etica e un’antropologia degna di questo nome produce terrore o deliri di grandezza.
    Se t’interessa Illich, molte sue opere sono scaricabili gratuitamente qui:
    http://www.altraofficina.it/ivanillich/

  26. Ma potresti offrirci uno spunto sintetico di come la tua proposta (maturata su Latouche, Illich ecc.) pensa di rispondere alle obiezioni che vengono subito in mente a una persona semplice? Cioè: se la recessione (cioè decrescita) crea disoccupazione e malessere economico e sociale, come fa la decrescita programmata a non nuocere ai deboli? se abbandoniamo la produzione industriale, non significa ripiombare nei tempi antichi (con tutto quello che ne consegue)? se per decidere cosa fare in un territorio (es. Val di Susa) ci vuole l’unanimità dei consensi, non c’è il rischio che non si decida un bel niente? per costruire qualsiasi cosa – da un asilo pubblico, a una mensa della caritas, da un aeroporto a un depuratore dell’acqua, si infliggono delle sgradevolezze o dei veri e propri danni significativi ad alcuni.

  27. @Roberto
    ovvio che oltre a Gallino e Viale ci sia dell’altro e, tanto per passare alla pars costruens, potresti linkarlo tu, contribuendo ad ampliare la discussione. Comunque, il punto di partenza di questa discussione è “una questione di classe” e le osservazioni di Gallino, così come l’esordio dell’intervista, a me sembrano tutt’altro che idee bizzarre. Non è forse vero che parlare di lotta di classe oggi appare anacronistico? Non è forse vero che la lotta di classe, come afferma Gallino, non ha mai cessato di esistere? Piuttosto, una strategica propaganda ideologica ha fatto sì che fossero i lavoratori e le lavoratrici ad abbandonarla, addormentati da una parziale e modesta distribuzione della ricchezza, briciole per obnubilare le coscienze e preparare il terreno al riformismo in atto. Anche le conclusioni a cui perviene Gallino mi sembrano tutt’altro che fumose: in fin dei conti, il suo è un appello, tanto al mondo intellettuale, quanto alla gente comune, a ricostruire una coscienza di classe. Ti pare poco? A me no, soprattutto tenendo conto del fatto che, di fronte al pensiero dominante che continua a rimuovere la questione, gli spazi e le occasioni per ri-costruire una coscienza di classe non mi sembrano così numerosi. D’altro canto, ogni volta che qualcuno/a ha il coraggio di portarci l’attenzione, i discorsi tendono a sviare e a parlare d’altro, come se, davvero, parlare di lotta di classe ad oggi non avesse senso, mentre invece assistiamo al ritorno di una società profondamente classista, in un Paese dove c’è una minoranza, il 10% della popolazione, che detiene il 50% della ricchezza e ha pure la sfrontatezza di imporre sacrifici a chi campa con 1000 euro al mese, quando gli va bene. Allora, invece di cambiare discorso e prima di perdersi nei meandri delle disquisizioni teoriche, è da questa consapevolezza che dobbiamo ripartire. Gallino dice questo. Se sembra poco è, evidentemente, perché non se ne avverte l’urgenza e ci si può permettere il lusso di indugiare a chiedersi:ma gli italiani sono liberisti?

  28. ps
    recessione e decrescita non sono lo stesso fenomeno e non basterà un Binaghi, né io, a spiegarlo nello spazio breve di uno o più post. In ogni caso, la discussione ha per oggetto la lotta di classe oggi secondo Gallino, non la decrescita serena secondo Latouche (che segue in gran parte Illich, se non ricordo male). Di nuovo, uno spostamento d’attenzione. Dà così fastidio parlare di classi sociali?

  29. antonella, francamente non capisco l’astio con cui rispondi ai miei commenti, che potranno essere sbagliati o infondati, ma ti assicuro che sono in buona fede e non sono né volti a sviare l’attenzione né hanno scopi misteriosi se non quelli che manifestamente dichiarano. spero che possiamo discutere sulla base del riconoscimento della reciproca buona fede, altrimenti ha poco senso continuare (di sicuro non lo farò io).
    nel merito, porsi il problema di classe oggi sia molto interessante e offra una prospettiva che – a mio avviso – è potenzialmente feconda.
    una particolare applicazione dell’analisi è proprio quella approfondita dal brano riportato nel post. mi sembra molto interessante la diagnosi per cui le imprese oggi sono alienate tanto quanto i lavoratori e provano a trasferire su questi ultimi la precarietà del mondo globalizzato. in questo quadro – come dicevo sopra sbrigativamente – la lotta della classe lavoratrice dovrebbe ripensare gli obiettivi che il tradizionale operaismo ha perseguito lungo il corso del novecento. Infatti, se prima aveva senso la difesa del legame tra il lavoratore e la singola impresa, oggi questo senso si è deteriorato. Proprio perché l’impresa stessa è in balia di un dinamismo estremamente violento. Legare il lavoratore all’impresa può voler dire legarlo a un cadavere o a un’entità comunque incapace di sostenerlo. Uno spunto – dicevo – potrebbe essere visto proprio nel diverso obiettivo di tutelare il lavoratore in questo transito dinamico. Sostenerlo cioè mentre subisce il cambiamento da un’impresa a un’altra.
    Era quello che dicevo nei miei primi commenti. E credo che questa sia una lotta che i lavoratori e la sinistra dovrebbero intraprendere. Capire il dinamismo (dunque non accettarlo supinamento né negarlo irrazionalmente) e lottare perché la collettività possa farsi carico dei suoi effetti traumatici per i più deboli.
    Questo approccio, ovviamente, presuppone comunque un’economia che guarda con favore alla “crescita”. Di qui il collegamento (che poi si rifaceva a degli altri commenti non miei).
    Quindi, non mi sembra di sviare un bel nulla (né volontariamente né involontariamente).
    Concordo con te che c’è un tema di ineguale distribuzione della ricchezza e anche – aggiungo – del reddito. Quest’ultima è particolarmente preoccupante e ci sono parti del mondo in cui questa ineguale distribuzione (il cosiddetto coefficiente di Gini, come lo chiamano gli economisti) è immane (come in Cina, in Brasile, in America Latina, nell’ex URSS e negli Stati Uniti) e parti del mondo in cui è abbastanza contenuto (come la nostra Italia e gran parte dell’Europa) e parti in cui è ancora più basso che da noi (cioè paesi più “uguali”) come quelli di lingua germanica e i paesi scandinavi.
    Il tema della diseguaglianza è immenso e studiato da molti economisti. Di recente è stato persino effettuato uno studio (pubblicato sul Journal of Roman Studies) sulla distribuzione del reddito nella Roma Imperiale del II secolo d.c.. (Gli autori sostengono che la diseguaglianza dell’Impero fosse minore di quelli degli attuali U.S.A., ma comunque parecchio superiore a quella dell’Italia di oggi o dell’Europa occidentale di oggi).
    Comunque in parte sto divagando (spero non mi aggredirai).
    Da qui a dire che è la globalizzazione a determinare tutto ciò, be’, ne corre. Non si possono qui discutere gli studi fatti in questi anni (non ne sarei minimamente in grado), ma mi sembra che i dati mostrano che negli ultimi anni a una crescita della diseguaglianza si è anche accompagnata una crescita del benessere individuale medio (cioè: il ricco del 2012 sta molto molto molto meglio del ricco del 1980, ma il povero del 2012 sta comunque molto meglio del povero del 1980 in termini assoluti). Inoltre, i dati mostrano anche che una globalizzazione del commercio ha migliorato in senso più equo la distribuzione del reddito nei paesi interessati. Mentre invece ci sarebbe da riflettere sulla globalizzazione finanziaria, i cui effetti ancora non sono chiari e – secondo me – molto sospetti.
    Perdonami se non mi soffermo sul tuo poscritto su recessione e decrescita. Ovviamente il mio punto era sintetico e come dici tu sarebbe complesso discutere qui i più basilari concetti della macroeconomia.
    Comunque, il tema del ripensamento del mercato del lavoro mi sembra un banco di prova cruciale dell’analisi di classe.

  30. @Roberto
    senza astio: chi ha pubblicato (e finanziato) gli studi che dimostrano un aumento del benessere diffuso? Perdonami, ma davvero non riesco a prestar fede ad affermazioni così generiche come “il povero del 2012 sta comunque molto meglio del povero del 1980” (cioè?) che hanno tutto il sapore della retorica e della propaganda liberista, mentre,i ntorno a me, vedo una società dove, per la prima volta nella storia, i figli, e soprattutto le figlie, laureat*, specializzat*, masterizzat*, overeducated stanno di gran lunga peggio, in termini di diritti e reddito, dei loro padri. Parlo della base della popolazione, non delle classi alte, ovviamente. Idem per i dati che dimostrerebbero in senso più equo la distribuzione del reddito dei paesi interessati. Di quali dati stai parlando, di quali studi, di quali paesi “interessati”? Hai presente le condizioni di vita e di lavoro di un operaio cinese? E soprattutto, è un’idea ormai obsoleta quella che fa coincidere la crescita, il progresso, il benessere, con l’aumento del PIL. Hai mai sentito parlare di indice di sviluppo umano?
    Quanto alla decrescita di Latouche, ti cito una sua metafora arcinota: quella dell’ obeso che continua a ingozzarsi. Alimentarsi è indispensabile, ma quando si è obesi bisognerà in qualche modo diminuire di peso, se si vuole star bene. E’ questa, in 4 parole povere povere, l’idea di fondo della decrescita (che condivido per molti versi, ma non completamente). Viviamo in un pianeta con risorse limitate, continuare a insistere con un’idea di crescita illimitata è votarsi al suicidio, come l’obeso che continua a mangiare smodatamente non è un esempio di benessere.

  31. @antonella, spero che tu non pensi che qualsiasi tesi che non corrisponde alle tue convinzioni sia dettata da malafede o addirittura da cospirazioni della propaganda liberista – anche se effettivamente le tue risposte hanno sempre questo approccio.
    vedo che non hai voluto dar seguito alla mia proposta costruens sulla lotta dei lavoratori per una tutela dinamica nel transito da impresa a impresa. credo sia un argomento di grande interesse.
    sulla globalizzazione. ammetto che gli studi sono parecchi (finanziati un po’ da tutti: onu, ilo, imf, università americane ed europee e un po’ chiunque) e i dati sono molto contraddittori. difficile trarre delle conclusioni dalle rilevazioni empiriche. quindi faccio un passo indietro per correggere l’eccesso apodittico del mio commento di prima. però tendenzialmente si tende a negare una correlazione significativa tra globalizzazione e aumento della disuguaglianza interna (salvo forse nelle economie capitalistiche più avanzate in cui l’apertura ai paesi meno industrializzati ha avuto degli effetti di incremento della disuguaglianza). i dati dicono cose diverse a seconda che ci riferiamo alla globalizzazione commerciale e finanziaria e a seconda che si parli di diseguaglianza interna o diseguaglianza tra paesi. gli studi danno anche risposte diverse da paese a paese (ad es. ci sono dati che parlano di aumento di diseguaglianza nell’apertura al libero scambio per i paesi dell’america latina negli anni 70 e 80, mentre di riduzione della diseguaglianza per le cosiddette tigri asiatiche negli anni 90). Comunque, è difficile avere risposte chiare. abbastanza forte è invece la correlazione tra globalizzazione e aumento del reddito pro-capite (anche qui ovviamente il tutto è da prendere con le pinze ma ci sono tendenze statistiche più solide). quindi, non voglio far passare per verità solide cose molto discutibili, ma quantomeno non si può dire che abbiamo delle certezze sulla correlazione statistica.
    sull’indice di sviluppo umano. sì, ne ho sentito parlare, antonella (è un po’ fastidioso questo argomentare per domande retoriche che suggeriscono l’idea che l’interlocutore non sappia di cosa stia parlando, non trovi?). dire cose del tipo che il PIL è uno strumento obsoleto per misurare la crescita significa proiettare le convinzioni proprie (e di qualcuno) su scale iperboliche. di sicuro il PIL è uno strumento imperfetto (come tutti gli strumenti umani). forse parecchio imperfetto. è stato molto criticato sotto diversi profili. ma dà comunque parecchie informazioni utili.
    peraltro, forse rimarrai delusa, l’indice di sviluppo umano non è che ci dia chissà quali informazioni aggiuntive rispetto al PIL. infatti, tra PIL e HDI c’è una correlazione fortissima (.95), tanto che salvo per alcuni paesi per tutti i paesi del mondo la distribuzione per GDP (gross domestic product) coincide con la distribuzione per HDI (human development index). Cioè: più PIL uguale proporzionalmente a più I.S.U. (se aumenta l’uno, aumenta l’altro e in proporzioni uguali – e viceversa). Puoi guardare un bel grafichetto qui: http://www.nytimes.com/images/blogs/freakonomics/posts/Human1.jpg
    sulle metafore di obesi ecc. non mi pronuncio. le suggestioni metaforiche rischiano a volte di traviare dai dati e dalla sostanza delle cose.
    sono assolutamente aperto a spunti e sono assolutamente disposto a cambiare idea sulla decrescita. tant’è che ho messo nella mia lista delle prossime compere di amazon (che forse però è uno strumento liberista) sia gallino sia latouche. tu sei disposta a prestare orecchio a tesi diverse?

  32. Le classi sociali esistono senz’altro, ma siamo sicuri che sono identificabili nei termini ottocenteschi della proprietà o meno dei mezzi di produzione? A me l’articolo di Gallino fa pensare che la divisione vera è tra chi lavora all’interno di un processo produttivo che non controlla e accusa l’anello più vicino della catena di prendersi troppo del poco che c’è da spartire (io vedo operai disperati e imprenditori anche, che si suicidano) mentre dall’altra parte chi può incidere sul processo produttivo spostando il credito o pezzi di produzione o entrambi è alla fin fine solo l’anarchia del mercato.
    Ci sono pirati puttosto, in queste acque infide, e sono erogatori e naturalmente creditori di capitali che hanno potere di vita e di morte su pezzi a scelta del sistema. La follia dei politici, aggiungo io, è stata quella di indebitare e insieme concedere pezzi di sovranità nazionale non alla politica europea ma a una moneta NON-SOVRANA come l’euro, e quindi a chi se ne fa davvero garante cioè banche cioè privati.
    Antonella, nessuno vuole sviare il discorso: la lotta di classe oggi porta esattamente qui.

  33. aggiungerei, valter, che quasi nessuno ha il controllo del processo produttivo in cui è inserito. né l’operaio manifatturiero, né l’impiegato di servizi, né il quadro di banca, né il piccolo e medio imprenditore e neppure la stragrande maggioranza dei dirigenti e dei professionisti. ovviamente c’è tutta una tavolozza di gradazioni.
    il discorso della moneta non sovrana è giusto, anche se molto difficile. però non so bene cosa voglia dire che garante dell’euro sono i privati. innanzitutto credo debba essere detta una cosa: i privati creditori dello stato sono per la gran parte piccoli e medi risparmiatori. poi ci sono fondi pensione e altri investitori istituzionali. e ci sono anche fondi speculatori. ma il problema della crisi del debito sappiamo che non è nella malizia di qualcuno, bensì in una somma di fattori tra cui importantissima l’ingessatura data dalla non sovranità monetaria come dici.
    come per il processo produttivo, anche il processo del credito è frammentato e decentrato. difficile individuare dei centri decisionali autonomi cui può riconoscerci potere di vita e di morte sul sistema nel suo complesso. persino colossi industriali come chrysler o finanziari come parecchie banche usa ed europee si sono ritrovati inermi di fronte al collasso.
    c’è però, nell’esperienza di tutti, un discrimine importante. c’è chi in questo processo dinamico riesce a sopravvivere più facilmente e meglio dell’altro. in quel transito dinamico c’è chi perisce e c’è chi trova nuove opportunità. una prima cesura di classe a mio avviso sta lì: tra chi è tutelato (perché particolarmente qualificato, o perché ricco di famiglia o perché supportato da una legislazione illuminata di welfare intelligente – quindi non gli italiani) nel transito del mercato e chi non lo è. a questo primo discrimine dovrebbe guardare innanzitutto una nuova lotta per la tutela del lavoro.
    la classe non si caratterizza per la proprietà (statica) dei mezzi di produzione – chi ce li ha oggi? nessuno. chi ha la proprietà dei mezzi di produzione della coca cola, della general motors, di alitalia? una miriade di piccoli e grandi azionisti (tra cui mia zia, per qualche centinaia di euro). la classe forse si caratterizza oggi per il potere (dinamico) di transito nelle trasformazioni continue delle strutture imprenditoriali e dei processi.

  34. @roberto
    io sono dispostissima a prestare orecchio a tesi diverse dalle mie, a patto che queste non siano fondate su luoghi comuni e che, pertanto, possano rendere conto delle fonti e della loro paternità e maternità. A me è stato insegnato che questo è un atteggiamento serio e rigoroso, che nulla a che vedere con la presunzione di malafede. Non ho nemmeno prestato attenzione alla “lotta dei lavoratori per una tutela dinamica nel transito da impresa a impresa” perché, essendo io flessibile e precaria da sempre, so benissimo, per esperienza, che queste idee possono venire in mente solo a chi, come Ichino, non ha idea di cosa significhi un continuo passaggio da impresa a impresa, perché non ha mai fatto i conti con la flessibilità, ma ne parla comodamente seduto dalla poltrona per la cui perdita non ha da temere. Quella che viene chiamata flexsecuirty si traduce in una instabilità che da lavorativa diventa esistenziale, impedendo, di fatto, il formarsi di una sinergia tra lavoratori e lavoratrici stessi e impedendo, dunque, la formazione di una coscienza di classe. L’unica logica perseguita, laddove non sia chi lavora a scegliere di passare da un’azienda all’altra, è quella del profitto d’impresa, a cui la vita di chi lavora deve adeguarsi. Tu sai cosa significa cambiare ogni anno il posto (e la città) in cui si lavora? Non è una domanda retorica. Io lo so perché lo vivo e ti posso garantire che è devastante. Quanto alla tua affermazione “dire cose del tipo che il PIL è uno strumento obsoleto per misurare la crescita significa proiettare le convinzioni proprie (e di qualcuno) su scale iperboliche” ci tengo a precisare che il superamento del PIL quale strumento di misurazione del benessere di uno paese non è stato deciso da me, ma dall’organizzazione delle nazioni unite negli anni novanta. Sono state queste ultime, e non io o un generico qualcuno, ad affiancare al PIL altri due parametri, l’alfabetizzazione e la speranza di vita. La loro media aritmetica concorreva a determinare l’isu, per cui il PIL contava un terzo. Dal 2010 il metodo del calcolo dell’Isu è stato cambiato e inoltre il PIL è stato sostituito dal reddito nazionale lordo. Il “grafichetto” si riferisce al 2006 ed è, per questo, bello che superato e non è una mia convinzione, ma un dato oggettivo verificabile con una breve ricerca in internet.
    Ripeto, io sono disponibile a un confronto, ma le idee su cui questo si fonda devono essere sottoposte a verifica e valutate, prima di poterle accettare e/o respingere.
    @valter
    In effetti, anch’io penso che le classi sociali non siano più identificabili con categorie ottocentesche e che, aggiungo, il pensiero marxista e le sue categorie interpretative vada riletto alla luce delle trasformazioni sociali ed economiche del presente. Questo lavoro di analisi, rilettura e ampliamento ad oggi è portato avanti, ad esempio, dal collettivo Uninomade, ma in questo caso non sono ancora adeguatamente informata, per cui preferisco tacere invece di andare a braccio. La rilettura e il superamento di categorie ottocentesche va fatta, a patto di non negare l’evidenza, e cioè che le classi e il conflitto esistono. Quello che mi sembra interessante studiare e discutere è quali sono e da chi sono composte oggi le classi sociali e quali sono i conflitti intercorrenti (e rimossi dal pensiero dominante) tra loro. Gallino invita anche a queste riflessioni, che reputo tutt’altro che inutili.

  35. Antonella, certo che dobbiamo verificare tutto. Io sono qui per discutere mica per convincere e sono pronto a imparare. e sono soprattutto sereno.
    Ma la tua esperienza non può essere misura di un discorso collettivo. Potrei citarti la mia esperienza o di altri, ma questa è aneddotica e non voglio farti perdere tempo.
    Anche gli attacchi che continui a fare cercando di sminuire gli interlocutori (ichino dalla sua poltrona, io forse lontano dai tuoi problemi esistenziali) sono un tipo di retorica improduttiva e scorretta che non mi appartiene.
    Perche non mi citi dei dati che sostengono che non c’è più correlazione tra pil e isu dopo il 2010 alla luce del cambiamento nella formula.
    Ti prometto che li cercherò anch’io, ma mi sa che con te sto perdendo tempo perchè il tuo obiettivo non è fare diagnosi e discutere soluzioni possibili, ma esprimere indignazione e insoddisfazione e urgenza indeterminata di cambiamento. A me interessa altro. Ti auguro una buona giornata

  36. @Antonella e Roberto
    Ho apprezzato l’articolo di Gallino più di quanto forse ho dato a vedere.
    Secondo me tocca il punto vero: dico che autonomia e controllo (anche dei bisogni) sono la strada per la libertà. Ezra Pound diceva che una nazione senza debiti fa rabbia agli usurai. Aggiungo che una sobrietà consapevole fa rabbia agli spacciatori di sogni. E con questo mando a fare in culo politica e pseudocultura degli ultimi quarant’anni, non per tornare agli anni cinquanta ma per togliermi di dosso le sanguisughe che mi uccidono.
    Buon week end.

  37. Gli attacchi?!? ma di quali attacchi stiamo parlando?
    Comunque è veramente incredibile che alcuni, quando si vedono contraddetti con cognizione di causa e/o non riescono a dare spiegazione delle loro affermazioni, ricorrano alla presunzione di malafede, all’accusa di retorica improduttiva e alla sentenza definitiva: mi sa che parlare con te è perdere tempo. E quest’ultima sarebbe veramente un’offesa, se l’interlocutrice (o l’interlocutore) fosse tra quell* che danno retta alle chiacchiere di chiunque.

  38. Antonella, non voglio rubare spazio al blog per questa inutile polemica. Chiunque abbia avuto la pazienza di leggere avrà maturato la sua idea su chi abbia usato un approccio di rigore e rispetto e chi invece abbia semplicemente sudato fiele senza offrire uno straccio di cornice interpretativa che non fosse il brusio aneddotico dei collegamenti esterni di Piazzapulita. La mia umile opinione è che tu non abbia mai fatto neppure un corso base di macroeconomia undergraduate. Ma forse mi sbaglio. Se vuoi gli studi da cui ho tratto le conclusioni sintetiche sulle correlazioni tra globalizzazione e ineguaglianza, posso inviarteli via email. Se vuoi discutere nel merito di flexsecurity – offrendo dati e studi invece che dire che la gente siede su poltrone senza sapere la fatica che tu hai fatto nella tua vita, be’ dovrai aspettare una persona più prona al sacrificio e alla pazienza di quanto io possa essere.
    Con questo smetto di commentare con un’enorme delusione – speravo di intavolare una discussione proficua con chi partiva da prospettive e letture diverse. Grazie per l’ospitalità.

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