Con un po’ di ritardo, leggo un intervento di Enrico Piscitelli su Alfabeta 2. Estratto:
“Nessuno dice la verità. O meglio: nessuno la scrive.
La verità è questa: la narrativa italiana ha un riscontro bassissimo. Al momento, il più basso degli ultimi anni. I librai prenotano pochissime copie dei libri di narrativa. Non si fidano. Sanno, o qualcuno ha detto loro, che venderanno solo un piccolissimo numero di romanzi italiani, e solo di alcuni autori. Qui stiamo parlando di numeri così bassi, che cinquecento copie vendute di un libro di una piccola casa editrice, sono un successo clamoroso, roba da brindare col prosecco (lo champagne costa troppo). Ci sono ottimi libri che vendono quaranta, cinquanta copie, e poi diventano remainders e poi, ancora, carta da macero.
Hai voglia a pubblicare libri di qualità. Hai voglia a lavorare per anni a un libro, perché sia quanto di meglio il pacchetto autore-editore possa sfornare. Tutto il lavoro che c’è dietro a un libro non è minimamente premiato. E questo da subito, dal momento delle prenotazioni in libreria.
I librai non si fidano, appunto. Prenotano solo una manciata di libri italiani, ovvero la narrativa proposta dalle major – soprattutto perché i grandi gruppi investono, per esempio pagando per gli spazi espositivi: quanti sanno che le vetrine delle librerie Feltrinelli sono a pagamento? – e qualche saggio semplificato o georiferito, cose tipo La storia dei laghi di Monticchio, ma solo nelle librerie della provincia di Potenza”.
(Nota della titolare: nell’ultimo romanzo di Houellebecq, “La carta e il territorio”, ci sono riflessioni molto, molto interessanti sul rapporto fra arte e artigianato, William Morris alla mano)
Ma qual è la ragione? Un problema di “spazi” e di “gestione” nelle librerie? In tal caso forse l’avvento dell’e-book potrebbe dare ossigeno a questa fetta di mercato? Oppure è un problema di politica schiacciante delle majors editoriali che fanno di tutto per soffocare i piccoli editori, o di scarsità del numero di lettori? In tal caso forse non c’è speranza. Mi chiedo allora: ma è sempre stato così? La risposta credo sia no, semplicemente per il fatto che una volta non c’erano tutti questi piccoli editori che sfornavano narrativa italiana, o sbaglio? Una volta c’erano sì, editori di nicchia, ma facevano soprattutto saggistica o poesia. L’editoria è una giungla fitta e spessa, e il machete dei piccoli editori è poco più di un temperino.
@ titolare: anche ne “Il Libro dei Bambini” della Byatt ci sono riferimenti analoghi (lì addirittura William Morris fa una comparsata). Quanto all’intervento di cui sopra, non mi sembra (più) vero che nessuno scrive questa verità. Forse non è sbandierata a titoli cubitali sui giornali, ma in realtà è risaputa e sotto gli occhi di tutti.
@ il grande marziano: l’avvento degli e-book, abbattendo i costi di produzione e distribuzione potrebbe cambiare questo stato di cose, se n’è già discusso a lungo proprio su questo blog, ma è ancora presto per capire come. I lettori italiani sono troppo pochi, e questo rimane – al netto di ogni monopolismo reale – il problema più grave per l’editoria. Quello che dovrebbe essere un mare in cui c’è spazio per tutti, è in realtà un laghetto in cui le imbarcazioni più grosse stringono ai bordi quelle piccole. Del resto hai pure ragione nel dire che i piccoli editori oggi sono una marea. La rivolzuione informatica negli anni Ottanta-Novanta ha fatto sì che mettere in piedi una piccola casa editrice non costi nulla. Vendere e stare sul mercato senza farsi sbranare dagli squali però è tutta un’altra cosa.
In compenso ci sono buone previsioni di vendita per ” Totti & Ilary – Una grande giocosa storia d’amore”, Fazi editotre. Ma Piscitelli non lo sa:-)
il problema non è che non lo scrive (dice) nessuno, il vero problema è che – ovviamente non ce l’ho con Piscitelli, ma parlo in generale – non c’è uno straccio di analisi con possibili rimedi incorporati…
P.S. Forse Piscitelli allude soprattutto alla propria raccolta di racconti edita da Zona editore*-°
forse l’artigianato e la cooperazione sono le unica forma di lotta alla mercificazione del prodotto libro,e all’orrore dell’acquisto degli spazi espositivi da parte dei grandi gruppi(quando un amico mi disse che il senso degli ipermercati era vendere tranci di scaffalature ai produttori pensai che si fosse bevuto il cervello).MI riferisco a una filiera che dalla scrittura arrivi alla commercializzazione previa adeguata promozione creativa non appaltata a professionisti esterni(insomma bisogna “fare reparto”).Il tutto fatto senza alcun business plane e con una coscienza non troppo modulata dalla paura di non trovare il proprio nome riportato nelle liste degli invitati ai salotti buoni della spassosissima cultura ufficiale
@WM4: quindi o si allarga il laghetto o si rimpiccioliscono le barche. Nell’impossibilità di fare l’una o l’altra cosa, sono convinto che l’unica via d’uscita per i piccoli editori, ancorché di difficile esecuzione, sia davvero quella dell’editoria elettronica, unita ai meccanismi di promozione in rete. E’ un cambio di paradigma per il quale ci vorrà ancora parecchio tempo per vederne gli effetti, forse una generazione intera, ma può essere l’unico modo per riuscire a camminare sulla schiena bagnata e scivolosa degli squali.
@ Il grande marziano: Sono d’accordo. Il cambio di paradigma può offrire nuove opportunità, anche se su tempi medio-lunghi.
Sono d’accordo anch’io, noi ci stiamo provando cominciando a pubblicare tutto anche in versione e-book, e tentando anche di “fare corpo” con altre piccole case editrici che pubblicano generi diversi da nostro e che si trovano in altre città. Certo ci vuole tempo e pazienza, ma l’editore è un mestiere che a mio avviso richiede una visione “progettuale” delle cose, il piacere per la costruzione lenta e costante, insomma è un lavoro per “fondisti”(anche nel senso di potersi permettere di avere un pò di soldi bloccati per parecchio tempo, purtroppo…), altrimenti si fanno un sacco di cazzate…
Non credo che l’e-book sarà la soluzione di tutti i mali. Chris Anderson, nel suo famigerato saggio su “La coda lunga”, ha mostrato come le nicchie di mercato sono GIA’ cresciute grazie alla vendita on-line, senza bisogno di commercializzare prodotti digitali. Prima di parlare degli e-book, qua in Italia, bisognerebbe parlare di e-commerce e più in generale di Internet a banda larga, due settori dove ci troviamo ancora al palo.
Il problema è lo scarso numero di lettori “attivi”, gente disposta a sbattersi per leggere qualcosa di interessante o di diverso dal solito. Se in Italia queste persone fossero centinaia di migliaia, il problema della reperibilità, dei magazzini, dello spazio in libreria, passerebbe presto in secondo piano.
Ma uno non è che nasce “lettore attivo”: lo diventa anche grazie a stimoli esterni. Tra questi stimoli, per molti, ci sono ancora le pagine culturali dei giornali, dove purtroppo conta moltissimo il “peso” di una casa editrice e del suo ufficio stampa, e molto meno la qualità effettiva delle opere presentate, recensite, proposte.
Sui tempi lunghi: credo che dipenda un po’ da noi ma anche dalle nostre istituzioni…
Per esempio trovo un pochino (!) fuori luogo che la “svolta elettronica” scolastica del nostro governo consista nel dotare le classi di costosissime lavagne elettroniche interattive multimediali.33.000 classi. Ecco qua.
@WM2: a mio avviso in linea puramente teorica l’e-book ha le potenzialità per contribuire a migliorare la situazione. Quanto alle faccende di connettività e banda larga, mentre ha molto senso per i contenuti multimediali e video, non penso possa costituire un ostacolo alla diffusione dell’ebook, essendo l’ebook qualcosa che si scarica una sola volta, pesa poco dal punto di vista delle dimensioni in byte e se ne usufruisce offline. Altra faccenda è invece la sua integrazione nell’ecommerce, ovvero da un lato la diffidenza del pubblico verso gli acquisti online ancora presente ma decisamente in calo, e soprattutto con quali politiche gli ebook verranno pubblicati dalle case editrici nella disputa tra royalties ad autori/agenti e politiche di prezzo. Attualmente, per esempio, i prezzi degli ebook mi sembrano in generale ancora molto cari rispetto alla relativa edizione cartacea. E questo non mi pare certo un incentivo ad acquistarli.
Piscitelli, prima e dopo, dice altre cose sulle quali vale la pena discutere:
1. che di editoria scrivono tutti, ma dicendo spesso mezze verità o imprecisioni, quindi
2. vista da fuori, l’editoria sembra il “meraviglioso mondo dell’esordiente” in cui chiunque (ma proprio chiunque) riesce, dal nulla, a pubblicare per una delle “grandi” e a diventare un astro luminoso del firmamento della narrativa
3. mentre invece, di solito, c’è bisogno di un duro, lungo, paziente, umile lavoro per arrivare a pubblicare. E non è detto che non ne venga fuori un flop;
4. che le piccole e medie case editrici predicano bene e razzolano male, cioè si lamentano dello strapotere delle grandi ma alla fine seguono le medesime logiche, senza innovare, senza investire.
5. Mentre il secondo “senza” è ragionevole (di frequente non si ha di che investire), sul primo forse si può fare di più.
(io direi, seguendo quanto già detto qui, che anche sul secondo si potrebbero trovare nuove strade utilizzando al meglio la rete)
6. Gli editori che cominciano con niente (un computer e poco più), e non si appoggiano al metodo di distribuzione giusto, abbastanza rapidamente decidono di farsi pagare per pubblicare, ingannando gli aspiranti pubblicandi dicendo: il tuo investimento iniziale sarà ampiamente ripagato quando diventerai famoso, ma
7. in realtà ben pochi guadagnano scrivendo e basta.
8. Il “dibattito culturale” intorno al libro è quasi sempre ridotto a mezze risse nei blog letterari. Il libro appare centro e punto di fuga di rivalità, precariato, disattenzione.
Punti in parte condivisibili, mi sembra. Pur sinteticamente, il discorso di Piscitelli mostra, se mai ce ne fosse bisogno, che nel particolare sistema comunicativo che è l’editoria bisogna tenere conto di tutti i fattori in gioco. Trascurarne uno crea storture.
Bene l’e-commerce, quindi. Bene l’educazione alla lettura dei ragazzi. Lettori consapevoli potranno diventare scrittori consapevoli, con maggiori strumenti per scrivere sempre meglio (o magari per capire che non è il caso di continuare a scrivere…). Più lettori e più libri di qualità faranno sì che gli editori non dovranno inventarsi di tutto per fare profitto, ma potranno dedicarsi, con tranquillità, a cercare nuovi narratori e nuove storie.
@ grande marziano: giustissimo il discorso sui prezzi dell’e-book, mentre sull’e-commerce non sarei tanto ottimista. E’ vero che la crisi lo ha fatto aumentare (+12% nel 2010), probabilmente perché le persone cercano su Internet prezzi più bassi, però è anche vero che in Italia siamo ancora allo 0,8% delle vendite generali, contro il 9,5% di UK, il 6,9% della Germania, il 4,9 della Francia (Fonte: Kelkoo/Centre for Retail Research/Sole24ore)
Allora, nessuno è costretto a fare l’editore, se decide di farlo sa cosa lo aspetta: un mercato viziato, un sistema corrotto (chiamiamo le cose col loro nome!), critici letterari che passano le serate nei salotti bene, un sottobosco di piccoli trafficanti da strapazzo che pubblicano libri senza che nessuno nella casa editrice li legga!!!!(posso fare nomi…) per cui è difficilissimo fare la differenza…Pure, il fascino del libro c’è e ti prende, quasi come il vizio del gioco, difficile smettere anche se perdi sempre…
Sensazione che conosce molto bene, non solo nello scrivere, di darsi da fare per fare un prodotto coerente e di qualità e vedere che passano lavori non eccelsi; riferito alla letteratura, oltre a copioni spesso simili tra loro, si hanno editing non proprio all’altezza di quello che dovrebbe essere un lavoro professionale.
Concordo con Wu Ming che ci sono pochi lettori; sul mercato elettronico solo il tempo potrà dire come andranno le cose, ma la disamina che ha fatto è corretta.
Così come lo è quella di danae.
intervengo solo per aggiungere una cosa a quanto dice Federico Guglielmi (Wu Ming 4):
>Quanto all’intervento di cui sopra, non mi sembra
>(più) vero che nessuno scrive questa verità.
>Forse non è sbandierata a titoli cubitali sui giornali,
>ma in realtà è risaputa e sotto gli occhi di tutti.
esatto, Federico, questa cosa la sappiamo tutti. ma non mi pare di averla letta spesso. secondo me va scritta. è un problema, grave. va discusso, affrontato sul serio. so bene che le quattro righe che ho scritto per Alfabeta, non fanno la differenza. potrebbero essere, però, un punto di partenza, perché altri molto più bravi di me [Wu Ming, Lipperini e quanti altri] ne parlino.
ah: e grazie a Loredana che ha rilanciato la discussione [non ho niente contro l’eventuale saggio sui Laghi di Monticchio] e a Danae, che ha letto tutto il pezzo.
e-
@WM2: vero, noi siamo sempre indietro su tutto e arriviamo tardi quando gli altri sono già andati oltre. Ma la tendenza all’aumento è comunque un dato di qualche significato. A proposito dell’ebook, una cosa che non capisco è perché non vengono venduti anche nelle librerie “fisiche”. Considerato che con un semplice computer dotato di connessione Wi-Fi/USB i negozi potrebbero fornire un servizio aggiuntivo a bassissimo costo e contribuire alla diffusione dell’ebook (giustificando così anche la vendita degli ereader), perché non lo fanno? Forse perché non ci credono ancora? O ci sono altre ragioni? Sebbene gli attori siano i medesimi, sembrano quasi due mondi, quello elettronico e quello cartaceo, che non si vuole fare entrare in contatto tra loro, come Superman con la kryptonite.
beh, c’è anche il discorso pde; ne è stato fatto un sol boccone un paio d’anni fa; la promo e distr si occuperà soprattutto dei libri del suo ‘padrone’, con buona pace dei piccoli e medi editori.
Una domanda (o meglio più d’una).
Ma quando si dice che “gli italiani leggono poco”, cosa intendiamo dire?
Che all’estero francesi, inglesi, tedeschi spagnoli leggono di più?
Leggono libri di piccole case editrici?
Leggono i worst-seller? Leggono classici ma anche gli esordienti?
Perché fosse così, ovvero che una parte discreta della popolazione estera supporta la narrativa o l’editoria in genere, direi che davvero il problema è a monte.
Nella scuola.
Tra le altre cose, lavoro da anni come editor in una piccola casa editrice, e cioè minimum fax e – dati alla mano – i numeri non sono quelli di Piscitelli. Quando vendiamo 500 copie di un esordiente, non brindiamo a champagne e nemmeno a prosecco, ci chiediamo in cosa abbiamo sbagliato, visto che nel libro mandato in libreria credevamo tutti.
Sull’esordio di Giorgio Vasta, per esempio, ci dicemmo: è un esordio bello ma molto difficile, a noi il libro piace un sacco, ma chi se ne accorgerà mai? Invece il libro fu ristampato varie volte in Italia, venduto in Francia, Olanda, Stati Uniti, Inghilterra, Germania…
In altri casi, come quello di Carlo D’Amicis, i suoi libri zitti zitti hanno venduto uno più dell’altro, in progressione.
L’esordio di Cognetti spiazzò noi per primi, idem il caso della Parrella.
Poi, in altri casi, per altri libri a cui pure abbiamo creduto moltissimo e continuiamo a credere, è accaduto che abbiamo venduto 500/1000/1200 copie, in quei casi rischiamo di andarci sotto economicamente, e speriamo solo che la prossima volta vada meglio, ed è proprio questa speranza (una speranza che non così di rado si realizza) che ci consente di ripubblicare un autore il cui precedente libro non ha pagato i costi.
La situazione non è insomma così disastrosa, anche se è vero che certi librai guardano con sospetto alle novità, e sconfiggere volta per volta lo scetticismo non è facile.
Non parlo mai di queste cose negli articoli di giornali o nelle interviste perché sembra che possa fare autopromozione. Lo faccio qui, nel post di un blog, solo per dire agli amici di Alfabeta che le cose – almeno per ciò che riguarda la mia esperienza quotidiana – stanno in un modo un po’ diverso.
Se uno pensa che la situazione è disastrosa (e non è disastrosa) allora temo possa sentirsi autorizzato a stare fuori dai giochi, a non mettersi in gioco, insomma.
Se invece si crede (come credo sia vero) che la situazione è molto difficile, ma non si tratta sempre di difficoltà insuperabili, ecco che ci si sente parte davvero attiva per costruire un paese migliore, anche sul piano culturale e editoriale.
Nicola
Nicola, considerla idealmente fatta, la correzione: i librai e i lettori apprezzano poco la narrativa contemporanea italiana non di major. con delle eccezioni, fra le quali Nichel, collana di Minimum fax.
e-
Condivisibile tutto quello che dice Nicola Lagioia, tranne la premessa: se la minimum fax è una piccola casa editrice, le altre centinaia in Italia che non si possono permettere la distribuzione, che non hanno dipendenti e vengono mandate avanti da due o tre persone, cosa sono? Eppure anche queste realtà stampano mille copie di un libro: e per loro sì che 500 sono un successo. io credo che Piscitelli si riferisse a queste, che sono tante e che spesso fanno davvero una serie operazione di scouting.
@Nicola Lagioia, quello che dici è vero, ma la mia impressione di lettore è che il caso di minimumfax rientri fino a un certo punto nella casistica a cui faceva (almeno credo) riferimento Piscitelli. Io penso che lui si riferisse principalmente a quella che è definita piccola editoria, minimumfax ormai è percepita come una medio-grande. È molto visibile, non ha problemi a stare in libreria. In altri casi, anche di fronte a prodotti editoriali di qualità, questo non succede. Certo è merito di un lavoro a monte che minimumfax ha avuto il merito di saper fare, il merito e il tempismo (la stessa progressione oggi, a distanza di una quindicina d’anni, forse sarebbe impossibile), ma proprio perché minimumfax si è saputa guadagnare una visibilità e uno spessore culturale che le consentono di stare in libreria, credo che non rientri appieno in questo discorso. È un esempio un po’ fuori scala insomma, lo dico da lettore.
Però minimum fax è un esempio di come si possa diventare una casa editrice di tutto rispetto iniziando come una piccolissima casa editrice… altro esempio la Volland…sono esempi positivi di intelligenza editoriale e tenacia, io guardo i loro libri in libreria e mi dico, come nel film “Si può fare!”
Ok, grazie mille della replica Piscitelli: mi sembra ne stia venendo fuori una bella discussione. Secondo me allora minimum fax è piccola (è una casa editrice che ha una buona esposizione mediatica, ma se si guarda ai fatturati – credo, prima di Camilleri&Lucarelli, che si superasse di poco il milione e mezzo, io stesso non lo so ma i dati che ci stanno su wikipedia mi sembrano fedeli, e credo che si riassesterà su quei livelli perché non ci sarà un best seller del genere ogni anno – sempre piccola è) e poi ci sono le molto piccole case editrici. Feltrinelli, Adelphi, Laterza mi sembrano medie case editrici, non grandi. Mentre di grandi gruppi credo ce ne siano solo tre: Rcs, Mondadori e gruppo Gems.
Comunque secondo me il problema è un altro ancora. Case editrici come minimum fax o Fanucci o Castelvecchi o Eliot non sono diventate quello che diventò Adelphi a partire dagli anni Settanta, e dubito che questo possa accadere (ovviamente ci spero, ma sono scettico). A loro volta, le case editrici che sono nate dopo gli anni Novanta (dopo cioè la nascita o ri-nascita di tanti marchi indipendenti o ex tali: Castelvecchi in primis, Fazi, mfax, Fanucci…) hanno ancora più difficoltà a farsi spazio di quanto ne avemmo noi all’epoca. Insomma, mi pare (questo forse il vero dramma) un imbuto che si stringe man mano che passano gli anni. Ho paura che – non sono un esperto di economia, quindi autodenuncio i rischi di una lettura istintiva – il problema consista nel fatto che viviamo in un sistema sempre più oligarchico. Chi ce l’ha fatta trent’anni fa ha oggi più possibilità di chi ce l’ha fatta quindici anni fa che ha più possibilità di chi è nato dieci o cinque anni fa. Bisogna far qualcosa per invertire questa rotta.
Grazie, davvero, della bella occasione di confronto.
Nicola
@ Enrico Piscitelli: fai benissimo a scriverle quelle cose, ci mancherebbe. Però, come faceva notare qualcuno più sopra, credo che ci tocchi un passaggio ulteriore, e cioè sviluppare l’analisi e formulare ipotesi per innescare una parziale controtendenza, o resistenza. Da un lato – come dicono il mio socio WM2 e Il grande marziano – c’è la potenzialità (che non è già atto, però) rappresentata dall’e-book e dall’e-commerce; dall’altro lato bisognerebbe capire quali pratiche si possono mettere in campo anche nell’editoria tradizionalmente intesa. Sono d’accordo per altro con chi sostiene che è fondamentale affrontare il problema del bacino di lettori a monte, cioè incentivare la pratica della lettura con ogni mezzo possibile (so che per qualcuno può essere considerata una “colpa”, ma ad esempio noi WM ci sforziamo di scrivere romanzi che abbiano trame avvincenti e livelli di lettura multipli). Ma anche ad esempio – per quelli di noi che hanno accesso ai giornali e un bacino d’ascolto – far conoscere ai lettori l’esistenza dei libri buoni pubblicati dai piccoli editori; o anche semplicemente lavorarci con i piccoli-medi editori. Quelli buoni, of course, perché l’esperienza insegna che piccolo non è sempre bello.
Recentemente a un mio amico una piccola casa editrice ha proposto l’esordio con una tiratura iniziale di 300 copie, di cui 50 da acquistare per uso personale. Gli ho consigliato di fuggire a gambe levate. Con quei numeri lì pubblicare e non pubblicare sono la stessa identica cosa. Idem con patate dicasi per le diligenti raccoltine di racconti che ogni microcasa accetta di stampare contando sul buon cuore del parentado dei numerosi autori stipati in ciascun volumetto. Piscitelli dovrebbe saperne qualcosa:- )
@Nicola Lagioia: se i tuoi criteri sono questi allora sì che la situazione è drammatica, molto più di come sostiene Piscitelli. e il sistema più che oligarchico è monopolistico.
@lucio angelini: togliendo l’editoria a pagamento che non considero neppure tale, secondo te non ha senso pubblicare se non con tirature di almeno tot copie? alla faccia della mercificazione della cultura.
@Nicola Lagioia
è bello complesso il panorama delle case editrici italiane. tu citi, per esempio, insieme Elliot e Castelvecchi. non tutti sanno che sono “la stessa casa editrice” – hanno in comune la proprietà, insomma. questo per dire che non considero Castelvecchi una piccola casa editrice.
altre case editrici sono partecipate dalle major.
@Wu Ming 4
sì. spero che qualcuno, più adatto e capace di me, affonti la questione in maniera articolata.
@Enrico Piscitelli.
Scusami. Avrei dovuto precisare. Lo faccio ora. Intendevo la Castelvecchi degli esordi. Cioè la Castelvecchi di Alberto Castelvecchi, prima di essere venduta a Pietro D’Amore e a Elliot.
La Castelvecchi dell’epoca (quella di Alberto Castelvecchi, poi in società con Francesco Coniglio, poi in società con Paulo Lucas von Vacano, prima di fallire e di essere rilevata da D’Amore) era una casa editrice incasinatissima e magari un po’ pirata, ma pionieristica e apripista su tanti fronti.
@Lagioia
era solo per accennare al fatto che è difficile definire “piccola” e “media” editoria. le ramificazioni, le connessioni, sono molte.
solo questo.
e-
@Nicola Lagioia: in effetti devo dire che, come lettore abituale e acquirente di un numero di libri annui di narrativa superiore alle 60/70 unità (non ho mai fatto il conto, ho troppa paura!), Minimum Fax viene ormai percepita – al di là dei numeri dei commercialisti – come una casa editrice media. Non mi viene da annoverarla tra i “piccoli editori”. Del resto basta citare tre calibri del vostro catalogo come Carver, Lethem e Foster Wallace per capire che non fate più parte di quella categoria. Per lo meno agli occhi del pubblico che si aggira per le librerie. Tant’è che i vostri libri sui banchi si trovano eccome, con una visibilità notevole. Al contrario di molti, moltissimi altri editori – mi viene in mente per esempio Perdisa – che mi pare stia facendo un buon lavoro, di cui però in libreria non è semplice trovare una copia.
@Ekerot, ho trovato solo dati parzialissimi e partigiani, visto che vivo in UK. Da un’indagine fatta nel 2000, molto elaborata e completa, sembra risultare che il 70% degli adulti in UK legge libri almeno una volta a settimana, con il 59% che legge libri piu’ di una volta a settimana. Anche che il 55% degli adulti legge libri per almeno 3 ore a settimana, con 15% che legge piu’ di 10 ore a settimana (sempre libri, non altro materiale). Se si aggiungono i bambini, le percentuali salgono. Non ho idea di quanto questo sia comparabile all’italia, se e’ molto o poco. A me pare un bel po’, ma andando a pelle. La scuola? Probabilmente si. I miei figli sono alle elementari qui in inghilterra, e la prima cosa che gli mettono in mano quando cominciano appena a sillabare sono libri, libri con poche pagine, libri con poche parole per pagina, ma libri, non pensierini astratti, libri, con inizio e fine, e quello che chiedono a noi genitori per aiutarli nei compiti e’ sviluppare il concetto di narrativa, chiedere loro cosa pensano possa succedere dopo, cosa possa esser successo prima, perche’ qui e perche’ li’. Again, questa e’ solo la mia esperienza, ma la sento diversa da amiche in italia.
(PS: la fonte per le statistiche la puoi trovare qui se ti vuoi divertire http://www.readingagency.org.uk/new-thinking/newthinking-uploads/Reading_Buying_and_Borrowing_habits.pdf )
@ Nicola Lagioia e Enrico Piscitelli: se mi permettete, vorrei aggiungere che anche se la tendenza monopolistica e oligarchica della grande editoria è un fatto innegabile, da certe logiche e pratiche (e modi di fare) la piccola media editoria non è affatto immune. E questo è vero a prescindere dal fatto che, come fa notare Enrico Piscitelli, in certi casi è perfino difficile distinguerle sul piano societario. La mia esperienza professionale e personale mi dice che per riuscire a lavorare in un certo modo, oggi come oggi i partner editoriali bisogna andarseli a cercare col lanternino tanto nella grande quanto nella piccola-media editoria. Il laghetto di cui sopra pullula di “pirati”…
Di cosa state parlando? Di letteratura? Di mercato? Come si fa ad “allargare la base della cultura”, come auspicava il buonanima di Sanguineti? E cosa rappresentano squallide operazioni come il Lucarelli&Camilleri di MinimumFax? Sono mali necessari? E perché i ruoli che un tempo furono di Vittorini e Calvino oggi sono ricoperti da un Mozzi (nomen sunt omen)? Chiliasti, amici, il problema, eventualmente, è nella qualità della scrittura, non nel mercato. Il problema è nell’ambiguità degli scrittori che criticano il sistema anelando di farvi parte. Il problema è che quando agli autori si tocca il tempo perché con il sistema sono collusi, ti viene risposto che è un loro dovere pubblicare per Einaudi o Mondadori, perché Einaudi e Mondadori sono un patrimonio italiano, un patrimonio che resterà, mentre Silvo Bellusconi, alla lunga, puff! Ma ragazzi! La buona letteratura (come la buona musica di X factor!) c’è! Ma voi conoscete Ottonieri o Frasca? E lo sapete che Gentiluomo ha pubblicato il suo primo romanzo per la Round Robin? Gentiluomo, uno dei poeti più noti degli ultimi 15 anni, che ha presentato il suo romanzo a RicercaBo due o tre anni fa. Grandi complimenti, pacche sulle spalle, non uno straccio di editore che abbia avuto il coraggio di pubblicarlo. Ma dove vivete? Dove gli acquistate i libri? Che idea distorta vi siete fatta?La soluzione c’è, eccome, ed è alla portata di tutti! Dei lettori che devono cercare canali alternativi per reperire informazioni e volumi, degli scrittori che devono agire con onestà e coerenza, dei recensori, quelli “cartacei” ma anche quelli che scrivono on line, che devono smetterla di farsi recensioni incrociate, e degli editori, che devono avere il coraggio che il loro ruolo impone. Scusate il tono, ma l’atmosfera da piagnisteo che sottende certe discussioni mi fa sempre un po’ incazzare.
grazie Supermambanana!
Non sono esperto di statistiche sull’Italia, ma posso credere che quelle percentuali inglese siano inimmaginabili.
Se non erro qui da noi una grossa fetta della popolazione legge 1 libro l’anno…Di solito sono comparati il numero di libri letti e non tanto le ore passate sui libri. Comunque prendendo un libro medio di 250 pagg, direi occhio e croce che con le statistiche inglesi si supera con agilità la media italica.
ovviamente “li acquistate”.
x Angelo Calvisi: posso dirti in gran sincerità che piombare nel mezzo di una discussione agitando lo stendardo del “Di cosa state parlando?”, non aiuta la discussione, né a farsi prendere in considerazione.
grazie della lezione di bonton, ne farò tesoro.
secondo me c’entra poco la netiquette. O, meglio, solo in parte. Mi pare più una strategia comunicativa sbagliata. Qui su Lipperatura è piuttosto frequente, ma non raggiunge grandi risultati. Parere personalissimo, of course.
Parere condiviso.
Insultare gli scrittori di oggi nel nome di Vittorini e Calvino, citare Sanguineti e Ottonieri, e poi scrivere: “dove gli acquistate i libri?” Però.
claudia b., dài, non ho insultato nessuno. e non è un problema di strategia comunicativa sbagliata. stavolta, che sanguineti mi perdoni, è un problema di sostanza e non di forma.
@ angelo calvisi: ti quoto, anche a me i piagnistei fanno incazzare. Ma pure l’atteggiamento di chi dice che sono tutte chiacchiere e che la soluzione al problema è evidente, lapalissiana, scontata, e tra noi ed essa si frappone soltanto la malafede. Per non parlare del Oh tempora oh mores, dove sono finiti Vittorini e Calvino, e guardate cosa ci tocca oggi, e voi non avete mai sentito nominare Tizio e Caio. Con tutto il rispetto, non ci vedo molto costrutto in un intervento del genere.
scusa wu ming, o tempora o mores proprio no, però, insomma, c’è un po’ di responsabilità in chi cura le collane? voglio dire, è colpa solo delle librerie feltrinelli? e dei lettori che non capiscono il genio? ma secondo te (voi) è normale che uno scrittore, in coscienza, si preoccupi di scrivere qualcosa che incontri il gusto comune? non trovi che sia quella la deviazione decisiva? ora dirò di gadda, che ha pubblicato il pasticciaccio su rivista, ma non perché prima era meglio, solo per citare un esempio. insomma, che si scriva, e che almeno gli scrittori non pensino sempre e solo al mercato, altrimenti non se ne esce proprio.
spiego meglio l’esempio di gadda. ha pubblicato il romanzo su rivista, forse la necessità di pubblicazione per un grande editore, che poi è arrivata, per carità, era per lui secondaria rispetto alla necessità di espressione, questo voglio dire.
Che si scriva, e senza presumere che i propri colleghi pensino sempre e solo al mercato, il che è atto – appunto – di presunzione.
Che si scriva: e possibilmente non si vengano a decantare i meriti della casa editrice con cui si pubblica, il che non è elegante, e anche Sanguineti avrebbe qualcosa da ridire.
no. non ci siamo proprio, lipperini. la mia casa editrice è talmente risibile che una pubblicità del genere non la sfiora neppure. e non ho detto che i “colleghi” (che poi “colleghi” di cosa? davvero non saprei) pensino sempre e solo al mercato. ho detto che secondo me non dovrebbe essere la prima preoccupazione. e ho citato gentiluomo perché per me è un caso eclatante. il caso di un poeta che è nelle antologie scolastiche e ha faticato a trovare un editore. e non ho parlato di malafede, ho parlato di necessità di maggiore coerenza.
@ angelo calvisi: non lo so se la “deviazione decisiva” sia quella dello scrittore che cerca di assecondare il gusto comune. Suppongo che svariati scrittori lo facciano – cioè che confezionino best sellers compiacendo ogni luogo comune del canone e che “tira” – ma molti altri no, scrivono quello che sentono di scrivere e che sono capaci di scrivere. E’ evidente che un editore che insegue esclusivamente il mercato pubblicherà soltanto certa roba, quindi sì, c’è una scelta a monte in chi scrive e in chi pubblica. Tuttavia:
1) non tutto ciò che vende è merda commerciale;
2) non mi sembra che gli editori grandi, medi o piccoli pubblichino soltanto aspiranti best sellers.
Secondo me bisogna stare attenti a non confondere una tendenza intrinseca al mercato con “tutto ciò che si pubblica” o “tutto ciò che vende”, perché altrimenti, appunto, si ricade nel piagnisteo che si voleva evitare.