ROMA, LA PERIFERIA E IL NEOPROLETARIATO

A corollario del post di ieri, un frammento di Roma dal bordo.

 

Invece di provare a narrarla, posso dire che sono cresciuta e vivo oggi nella Roma pasoliniana. Da ragazza e da signora matura nella Roma di Ragazzi di vita, tra Ponte Mammolo e Pietralata, e da giovane donna nella Centocelle di Accattone. Ma quella Roma era già diversa quando ero ragazza ed è diversissima oggi. Come molte altre città, ma in un certo senso qui si coglie meglio il cambiamento. Provo a spiegarlo.

A cogliere la mutazione, più di tutti e da non romano, fu nel 2002 Tommaso Labranca, in un saggio che si chiamava Neoproletariato. Quel saggio conteneva un capitolo sulla “schiscetta”, che Italo Calvino chiamava pietanziera, ed era quel contenitore di metallo destinato a mantenere al caldo un pranzo prevalentemente operaio: ma, scriveva Labranca, non ne esistono più, “perché i proletari che le usavano sono stati decimati”, e i neoproletari attribuiscono al cibo un significato diverso. Non più quello che evoca la casa, cui la “schiscetta” rimandava, ma quello opposto che allude a un luogo lontano, possibilmente esotico, che attribuisca bellezza, e anzi eleghanzia, alla propria esistenza. Se un erede della vecchia pietanziera esiste, somiglia dunque alla vaschetta di alluminio dei take-away cinesi o giapponesi, che consentono a chi li utilizza di fare il percorso inverso: anziché conservare in un luogo altro (la fabbrica) la familiarità del luogo domestico, spostarsi in un Altrove immaginato per lo più attraverso la televisione in una casa che si percepisce come estranea rispetto al mondo rappresentato.
Il cambiamento era in atto già all’inizio degli anni Zero, e Labranca lo sintetizzò in un sillogismo: “I proletari sono comunisti. Mio padre era proletario. Mio padre era comunista. Io non voglio essere mio padre. Io non voglio essere proletario. Io non voglio essere comunista”. E dunque il pueblo unido diventa il pueblo bonito (dalla vera insegna di un vero centro abbronzatura) e non sogna tanto le tre I berlusconiane di Inglese Internet Impresa ma le più accattivanti tre F di Fashion Fitness Fiction, sostituendo il plusvalore marxiano con un meno astratto pluscool, difficile da definire quasi quanto il nobile termine di paragone: pluscool è la macchina ipercavallata, multiportierata, doverosamente fornita di accessori inutili e soprattutto ratealizzabile tasso zero, ma anche la spiaggia che si presume esclusiva, il muscolo sodo, il vestimento finto-etnico. Elementi che non indicano l’appartenenza a una classe ma una trasversalità fra quel che resta delle classi: meta bramata, non un capovolgimento di condizione, ma l’acquisizione di un apparente stato di benessere. Non intellighenzia, ma eleghanzia. Non sostanza, ma apparenza. Ovvero, il superfluo non rinunciabile e non tanto quantificabile in merce, quanto nell’insieme di quel che si fa, si dice, si guarda, si indossa, si frequenta. Così, se il proletario avrebbe trascorso le notti
d’agosto in canottiera sul balcone, mangiando cocomero e conversando con il vicino, il neoproletario sta chiuso in casa con l’aria condizionata al massimo, e a forza di pigiare sui watt accade che tutti i condizionatori saltino contemporaneamente e la cosa degeneri in gigantesca e sudatissima rissa. Infine: il neoproletariato non è più massa, ma una somma di individualismi restii a scambi con l’esterno. Perché è pur vero che il sistema industriale produce oggetti di massa: ma, come ricordava Labranca, “li riveste di sogni individualizzanti”.
Accanto alle rovine del popolo, i disastri degli intellettuali. I quali, lungi dal riproporre la passione pedagogica che fu dei predecessori gramsciani, si rivelano divisi fra il disgusto istintivo e la più redditizia attività che Labranca definiva “ipnomediatica”, ovvero di guida suprema al pluscool dalle pagine di quotidiani e dai salotti televisivi. Oppure, denunciava, smettono semplicemente di ricordare che la differenza tra operai e padroni sta nel numero di parole conosciute, ma ammoniscono a snobbare i marchi e disertare i McDonald’s in favore del lardo di Colonnata. Senza capire, probabilmente, che anche il neoproletariato disdegna l’hamburger per andare in cerca di sushi, perché ha letto che fa tendenza, e perché è molto più facile lottare per il totano crudo piuttosto che trovare casa o un contratto di lavoro che non sia ai limiti della legalità. Bene che vada, gli intellettuali ipnomediatici dedicano al pueblo bonito un piccolo libro trasudante odio e amore: è quello che fece Labranca, seguendo i passi dei neoproletari negli spot delle televisioni locali dove nasceva una nuova e terribile estetica del bagno, fra i tristi scaffali degli hard discount dove scelgono i cibi più a buon mercato, ma solo per pagare le rate della lussuosissima automobile maxicilindrata cinque valvole, turbocompressore e cerchi in alluminio fucinato. Li seguì, indomito, fino alla fine, mentre sfogliano il (vero) catalogo delle onoranze funebri dove viene elencata la suprema eleghanzia dei teli di velluto per la camera ardente e della bara modello “Cantico delle creature”, con uccelletti intagliati e rami in fiore. Degna, è scritto nel catalogo, di ricevere l’applauso commosso all’uscita dalla chiesa: proprio come in televisione.

Questo rimescolamento significa anche spostare più in là il disprezzo per i poveri, gli ignoranti, i barbari. Quello che un tempo apparteneva ad alcuni intellettuali e ai ricchi, e che appunto è stato raccolto dagli ex barbari divenuti alla moda, per destinarlo a chi non ha nulla, neppure le parole.
Avendo vissuto quel disprezzo dalla parte della barbara, lo riconosco negli altri, e soprattutto nei miei vicini di non quartiere che gli intellettuali ipnomediatici allora, e oggi ipnotizzati essi stessi dai social, non conoscono, perché la loro Roma è diversa dalla mia.

Quello che di Roma afferro io, allora, è il desiderio frustrato e infine abbandonato di chi voleva vivere in quella che riteneva la vera capitale, quella del centro: non più, perché infine si capisce che quella vera capitale non esiste, e dunque non vale la pena insistere.

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