A proposito di pop culture, ma non solo. Torno
sull’argomento sulla scia dell’ennesimo scandaletto di inizio autunno (relativo
ai diari scolastici, avete presente?), non soltanto squisitamente
stagionale (in Giappone i media dedicano ciclicamente lunghi servizi alla
fioritura dei ciliegi: sono tentata di credere che siano meno noiosi di quelli
nostrani sulla fioritura delle polemiche), ma perfettamente in linea con la panic
culture riservata all’infanzia (tutto quel che ti piace ti fa male.
Caldamente raccomandata, in proposito, la lettura di questo libro, già
citato nei commenti di due post fa). Atteggiamento che è fra l’altro storicamente inedito.
Ho ritrovato, nell’immersione negli archivi di questi giorni, un intervento di
Ida Magli datato settembre 1984, dove si dice fra l’altro:
Il bambino come "soggetto" ha cominciato ad
esistere molto tardi, perchè quello che è esistito è il "figlio".
Questo spiega come mai una storia dell’ infanzia si sia cominciata a fare
soltanto da pochi anni. La mancanza di storia è la prova della mancanza del
valore-bambino. Se ci rivolgiamo all’ archeologia, in mancanza di
documentazione storica, ritroviamo lo stesso vuoto: quali tracce della loro
presenza nella società hanno lasciato i bambini? Qualche giocattolo (che forse
non era neanche un "giocattolo"). Per il resto, soltanto le
iscrizioni sulle tombe. Vogliamo passare all’ arte? I bambini vengono
raffigurati pochissimo, oppure sono rappresentati in forma di adulto
rimpicciolito a testimonianza del fatto che non si riesce a coglierne la
realtà. Si spiega così come mai, malgrado l’ altissima morbilità e mortalità
infantile, la pediatria sia una scienza recente. La storia dell’ infanzia è
stata, in Europa, una storia tremenda di sopraffazione, di sofferenza, di
sfruttamento, di violenza di tutti i generi.
Il punto è: chi tenterà di scriverla, questa storia dell’infanzia,
si troverà di fronte a materiali nel migliore dei casi contraddittori, che
prevalentemente rappresentano la medesima con le parole dell’allarme e del
terrore. Poi, certo, ci sono le eccezioni: leggete qui.
Sicara che si tratti di eccezioni: penso che questa coscienza del sè sia piuttosto diffusa fra le piccole tribù dei nanetti…
Vedo che l’articolo non cita la Smemo.
Spero perchè essa è rimasta un’ottima agenda come lo era ai miei tempi.
A casa, io e mia moglie, abbiamo ancora i diari di quinta superiore, ricchi di parole alla rinfusa, appunti, note (anche musicali) e una copertina disegnata da noi. Io la sua, lei la mia.
Insomma un ricordo.
Non male direi.
Yours
MAURO
Ma come, Loredana!?
Vai su Fahrenheit e non ce lo fai sapere???
Brava! Ma brava!
😉
Un caro saluto…
Beccata:)
Domani vi racconto il tutto, prometto!
Philippe Aries ne scrive ottimamente, in Padri e figli nell’Europa medievale e moderna.
Ma effettivamente Ida Magli centra le due esclusioni: madri e bambini (vs padri e figli).
Sarà per questo che c’erano sopraffazione e violenza anziché panic culture?
:-S
Nel testo di Aries si legge : “…alla fine del Cinquecento …certi educatori..non tollerano più che si facciano leggere ai bambini scritti di tono equivoco.”
Una domanda: oggi come allora queste idee sono il risultato di precise istanze pedagogiche o sono il frutto inconsapevole dei processi generali di civilizzazione?