SCHERZI DEL DESTINO

Con un occhio alle notizie da Londra (da leggere fra l’altro: le riflessioni di Genna su Carmilla, Babsi, Mozzi su Vibrisse, ieri scrivevo della morte di Evan Hunter-Ed McBain. Pensando a come la sua doppia vita letteraria sia stata, anche, una risposta alla recente ripresa delle discussioni su nickname e pseudonimi. L’articolo, uscito oggi sul quotidiano, è questo.

Evan Hunter –  Ed McBain: sul sito ufficiale, nero come si conviene al lutto recente, due sono le date (1926-2005) e due, meno convenzionalmente, i nomi. Ancor meno convenzionale la fotografia: Evan in giacca e farfallino conversa con  Ed in giubbotto sportivo. Due scrittori, due anime, due carriere folgoranti (Evan ha scritto Il seme della violenza e ha sceneggiato Gli uccelli, Ed, con le due serie dell’87° distretto e di Matthew Hope, era il padre riconosciuto del poliziesco contemporaneo): ma la stessa persona.

   Curioso, che nelle ore della morte di Evan-Ed, scomparso mercoledì a Weston, Connecticut, per tumore alla laringe, il web italiano venisse attraversato da una delle ricorrenti polemiche letterarie sull’uso dello pseudonimo, e che proprio lui, Hunter-McBain, venisse citato insieme a Pessoa come portatore di personalità diverse, oltre che di diversi nomi. Originariamente l’identità era unica: Salvatore Lombino, figlio di un postino, nella US Navy durante la seconda guerra mondiale, aspirante scrittore ambizioso, al punto di cambiare legalmente nome nel 1952 per una presupposta diffidenza degli editori nei confronti degli italo americani. Ma  con i nomi avrebbe continuato a giocare, per anni,  firmando libri come Curt Cannon e  Ezra Hannon, o ispirandosi ai tre fratelli (Rick, Mark, Ted) per l’ulteriore nom de plume di Richard Marsten, o ancora rubando all’Hunter College frequentato da studente la personalità di Hunt Collins.

   Le idee, però, erano chiarissime: “Evan Hunter non è uno pseudonimo – raccontava in un’intervista recente – E’ il mio nome, quello che è sul mio passaporto, quello con cui firmo gli assegni, quello con cui la famiglia e gli amici mi conoscono. Lo pseudonimo è Ed McBain: ho cominciato ad usarlo presto, quando mi pagavano un quarto di centesimo a parola per il mio lavoro e dovevo scrivere moltissimo per vivere. A volte  la stessa rivista pubblicava  tre o quattro racconti senza che l’editore sapesse che erano tutti miei”. E’ accaduto di meglio: nel 2000 uscì Candyland, romanzo firmato sia da Hunter che da McBain, che iniziava con lo stile mainstream del primo per precipitare nel pulp glorificato dal secondo. Come se le due identità letterarie, così simili a quelle raccontate in chiave horror da Stephen King ne La metà oscura, avessero finalmente firmato una tregua.

  Nei fatti, i due si dividevano tranquillamente i compiti. Aveva cominciato Hunter, con il successo clamoroso, nel 1954, di The black-board jungle, il romanzo da cui Richard Brooks trasse il film che lanciò, nell’ordine, Bill Haley, il rock e la stessa categoria dei giovani. Nel 1956 arrivò Ed con Cop Hater, primo episodio della lunga e fortunatissima serie dell’87° distretto di polizia. Hunter-McBain raccontò  così ad Andrea Pinketts la nascita del suo eteronimo: “Avevo già dato inizio alla mia carriera di scrittore, ero già Evan Hunter. Non mi interessava minimamente se McBain sarebbe diventato famoso oppure no. Così ho giocato il tutto per tutto”.

 I due andarono avanti in piena sintonia e con impressionanti paralleli: se nel 1955 Evan Hunter aveva scritto per la serie televisiva Alfred Hitchcock presenta, Ed, una decina di anni dopo, avrebbe seguito le orme del suo alter ego per il serial Ironside e poi per le avventure del tenente Colombo. Ancora: nello stesso 1963 in cui Hunter firmò per Hitchcock la sceneggiatura de Gli uccelli, dal romanzo di Daphne du Maurier, un altro maestro del cinema, Akira Kurosawa, girava il film Anatomia di un rapimento da Due colpi in uno di Ed McBain (il quale, peraltro, si sarebbe divertito a confondere ulteriormente le acque citando, in The last dance,  il film di Kurosawa come “tratto dal romanzo di un americano che scriveva gialli da due soldi”).

   Qual era, infine, la differenza? “Il cadavere”, ebbe a dire Evan-Ed. Perché mentre il primo firmava romanzi melò come Strangers when we meet (Noi due sconosciuti, poi film con Kirk Douglas e Kim Novak), testi per il teatro  e libri per bambini, Ed scriveva sceneggiature per Chabrol (Rosso nel buio) e, soprattutto, diventava un monumento del giallo poliziesco con il suo 87° distretto. Cinquanta romanzi con  protagonisti poliziotti ora assolutamente familiari, ma anomali agli esordi: intanto perché dicevano “fuck” (con grande gioia di un collega come Elmore Leonard, che ammise: “McBain mi ha insegnato a non temere di mettere nei miei libri le parolacce”). Poi, e in primissimo luogo, perché a McBain si deve la perfezione del police procedural, dove per risolvere un crimine non occorre l’intuizione di un unico e geniale investigatore, ma un team di normalissimi individui che mettono in atto prassi verosimili.

  Strapremiato, amato assai anche dagli scrittori italiani (almeno quattro dichiarati: Giancarlo De Cataldo, Gianni Biondillo, Tullio Avoledo, Wu Ming), lo scrittore dalle due anime e dai molti nomi vanta anche un’altra piccola primogenitura. The last dance è stato fra i primi libri a sperimentare il formato elettronico.  Lui, all’epoca, disse: “Sono arrivato nel mondo dell’editoria in un momento in cui ero costretto a pensare al mercato. Forse, prima della mia generazione, gli scrittori avevano solo la speranza di riuscire a essere pubblicati da qualche parte. Io non so se l’e-book è destinato a cambiare il modo di pensare degli autori. Ma potrebbe accadere. Gli scrittori si adattano molto a quello che succede nel mondo”.

28 pensieri su “SCHERZI DEL DESTINO

  1. @gli scrittori si adattano a quel che succede nel mondo@
    Illusione del compianto McBain. A me sembra che gli scrittori si facciano film per conto loro, vedi i commenti allo Strega con le parole della Centovalli.

  2. Il mondo (a)critico si adatta convenientemente molto bene a quello che potrebbe accadere agli scrittori, facendo passare supposti scherzi del destino per cronaca nera, per una questione d’identità.
    Allora io preferisco un semplice “Ciao Lombino, Ciao ciao al tuo farfallino”
    Iannox

  3. Iannox, ciao ciao al farfallino mi sembrava insufficiente per un articolo che doveva spiegare qualcosa in più su Hunter-McBain.
    A me non sembra affatto acritico l’accostamento fra la discussione sugli pseudonimi e la morte di un personaggio che con i medesimi ha giocato in modo geniale per tutta la vita.
    Ma sicuramente mi sbaglio 🙂

  4. Premetto che non ho letto niente di Hunter e Mcbain, ho solo visto il film Gli Uccelli, ma se non capisco male i nomi erano due ma anche i modi di scrivere erano diversi.
    Nel pezzo dedicato agli pseudonimi Ginsberg diceva “contengo moltitudini”, dunque credo che il significato della frase possa essere riferito alla storia dei due scrittori in uno.
    Mi domando però quanti scrittori sono in grado di contenere moltitudini. Spesso leggo di libri di autori che non riescono a contenere nemmeno una personalità, figuriamoci più di una.

  5. @ LOREDANA
    Nella semplicità la verità.
    Lombino-McBain, sì. Un farfallino, un simbolo “anarchico” (di libertà), andava bene.
    A me fa strano che si parli di nickname ancora, quasi aspettando la morte di Lombino. E forse in qualche casa (o caso) è proprio così – vedi coccodrillo promozionale su sito Mondadori che svende buona parte dei titoli di Lombino. Nessuna insinuazione, però mi fa strano lo stesso.
    E fa pure strano quella che è una nota a margine sul dramma di Londra, che però è l’incipit di questo pezzo: quanti piccioni con una fava! O se ne parlava in modo decente o niente, e non con dei link, quasi a scaricarsi… la coscienza. Ma sicuramente sbaglio io. 🙂
    Da quando non fumo più sono diventato più bastardo, sì. 🙂
    Abbracci
    Iannox

  6. Caro Iannox,
    qui non si tratta di essere bastardi, si tratta di mischiare le cose, spesso davvero senza motivo, e con quello che percepisco come un certo astio. Ma dal momento che io fumo ancora, tento di essere paziente.
    Numero uno: mi sembra evidente che quando sui Miserabili e poi qui si è nuovamente ripreso il discorso sui nickname (peraltro per l’ennesima volta tirato fuori qualche settimana fa su Nazione Indiana), nessuno sapeva che Hunter-McBain sarebbe morto. Mi viene da ridere a scriverlo, scusami: ma quel tuo “quasi aspettando la morte di Lombino” va oltre qualsiasi fantasia complottistica recente. Ma pensi che Genna ed io facciamo macumbe per poter creare un nesso che permetta a quanto si discute in rete di arrivare sul quotidiano? E perchè,poi? E cosa dire di Corrado Augias, allora, presente sul Venerdì di oggi proprio con una recensione di McBain, scritta evidentemente quindici giorni fa? Macumbava pure lui per ottenere più lettori?
    Ma per piacere!
    Quanto al coccodrillo mondadoriano, non l’ho visto, ma onestamente non mi scandalizzo. Qualsiasi casa editrice omaggia un proprio autore scomparso: tanto più, scusami, quando quell’omaggio non gli farà vendere più copie. Non ce n’è bisogno: McBain vendeva moltissimo e continuerà a vendere senza bisogno di strategie post-mortem.
    Infine, su Londra: non ho coscienze da scaricare. Piuttosto, in casi come questi faccio fatica, almeno inizialmente, a mettere ordine nei pensieri: altri sono riusciti a farlo, e li ho linkati semplicemente perchè non riesco – e sarà indubbiamente un mio limite personale e professionale- a far finta che non sia successo nulla e iniziare un post parlando di altro.
    Detto questo: ti prego, concediti una sigaretta
    🙂

  7. Cara Loredana,
    No, ma quali macumbe! Io infatti mi sbilancio in un “quasi aspettando la morte di Lombino”. Quel quasi è molto importante. Non è stato messo lì a caso. 1926 – 2005: si sapeva, si sapeva, o concedimi almeno che si sospettava.
    Il coccodrillo promozionale, be’, tanto li fanno tutti. Non sarà mai che in Mondadori si faccia un’eccezione.
    In quanto a Londra: ma non era meglio far prima ordine nei pensieri, poi eventualmente scrivere un pezzo, ed eventualmente linkare quegli articoli che invece oggi campeggiano come incipit o epitaffio sul pezzo a Lombino? Chiaro che essendo a casa tua, fai quello che credi più giusto. Io mi limito a fare delle osservazioni – che siano sbagliate, completamente? Comunque può darsi che sì, che sia la carenza di zuccheri a farmi dire ‘ste cavolate: vado a mangiare. Sì, perché ho fame.
    Saludos
    Iannox

  8. Io non ho proprio nulla da eccepire sul comportamento della Lipperini. Anzi, tutt’altro. Ma è inutile precisarlo, perché non può e non deve esistere polemica al riguardo.
    Come scrive Beppe Severgnini sul Corriere “Grace under fire: ricordiamocelo in queste ore. Se loro non si strappano i capelli, evitiamo di farlo noi. La cattiva letteratura, in tempi normali, annoia. In giornate come questa, irrita.”

  9. Grande autore. Ma quello della altrettanto grande – per, forse un po’ di più 🙂 – Daphne du Maurier era un racconto, non un romanzo, che si può leggere perchè Sellerio – credo – l’ha ripubblicato, con altri

  10. Sono sconcertato dalla logica implicita nei ragionamenti di Iannox. Sono nuovo, perciò mi viene da chiedere: siamo sicuri che Iannox e Lipperini non siano la stessa persona? Siamo sicuri che Iannox non sia il cadavere ambulante di qualcuno che non ebbe un dignitoso coccodrillo? Siamo sicuri che Iannox non sia Massimiliano Parente travestito da Iannox? Sto insultando Iannox o Parente? Veramente, non saprei decidere…

  11. Mi riservo di colmare il vuoto sulle letture di ‘Lombino’ che accorpa persone e stili così diversi. In qualche modo mi fa venire in mente Moebius/Giraud che pur essendo persona una disegna con stili diversi tra loro.
    Non sono riuscita a rispondere a B. di Monaco in un post precedente sui nickn. perchè il mio pc non riusciva ad accedere ad internet. Lo faccio adesso.
    Su stà storia dei nickn. mi pare di capire che sia facile accettarli qualora pseudonimi di persone creative e di interlocutori corretti, i problemi sorgono soprattutto quando si ha a che fare con autentici rompicoglioni che simulano moltitudini e schiammazzano (per non dire di peggio) in modo e aggressivo e maligno e puerile e offensivo e….ecc. diventando un ostacolo a qualsiasi dialogo in rete, fosse pure surreale. Come ho avuto modo di dire credo che non sia sola faccenda di nickn. Quando umani di questo tipo si materializzano non li argini certo facendo leva sul fatto che ne conosci nome e cognome. Non servono le minacce anche perchè una parte di loro non è stupida e riesce benissimo a essere molesta senza sconfinare in affermazioni che mettono a rischio di denuncia o di botte. A questi soggetti va riconosciuta una certa finezza psicologica dal momento che spesso la loro moltitudine muove al mobbing sistematico e basato su punti a cui l’interlocutore/i sono sensibili. In genere la loro è attività di censura: si tratti di idee o di presenza o di stili o…. La maggior parte si accontenta di far incazzare o inibire gli altri, di questo sembrano appagarsi. Non sono una psicologa, non ho ricette valide, ma credo che, se si ritiene opportuno, sia buona norma rispondere (o pacatamente o per le rime) e, se la cosa continua ignorare, ignorare, ignorare. Non mi sembra vergognoso, in casi estremi, chiedere la rimozione delle cose piu’ offensive e delle calunnie. Credo anche che una dose di anonimi spaccaballe sia fisiologica, con nickn. o senza nickn.
    Aggiungo che per me interloquire con una personanick o con un cognome vero, se la cosa avviene nel rispetto reciproco (non parlo certo di differenza di vedute, mi riferisco all’assenza di offese alla persona) non fa alcuna differenza. Non mi sento di usare nome e cognome (le ragioni le ho e non vedo il motivo di spiegarle) e non mi va di partecipare delle accuse di mancanza di serietà o responsabilità generali e generiche. Non mi riconosco in questi panni perchè il mio banale nickn. non significa niente, se un senso esiste (spesso sono la prima a dubitarne) sta nelle cose che scrivo.
    In ultimo: mi piace partecipare all’annullamento di copyright che l’uso di un nome non registrato comporta e sarei altrettanto contenta, (come sottolinea Roquentin in risposta a Benedetti) di leggere opinioni di apparenti sconosciuti senza subire il peso che il loro nome anagrafico può eventualmente avere in ambito letterario, accademico, ecc. Di solito non subisco l’ipse dixit di nessuno, ma credo sia interessante (e nell’interesse) per un intellettuale verificare quanto sono in grado di reggere da sole e senza supporto di cognomi affermati certe idee o visioni del mondo.
    Per quel che succede a Londra mi sento come Lolip, affranta e spaesata, con il vago sentore di assistere a quella che un tempo si chiamava strategia della tensione’, in versione globale, per interessi pochi e per morti tanti, basta che siano sempre tra i vuoti a perdere.
    Iannox, suvvia non so cosa significhhi aver smesso di fumare dal momento che non ho mai iniziato, ma posso capire molti altri tipi di incazzature. Non mi sembra il caso, anche se le tue ragioni fossero ottime, di attaccare (forse era meglio chiedere prima perchè aveva fatto quella scelta) così Lolip: non si può dire che pecchi di sensibilità o che non affronti argomenti anche scottanti e dolorosi.
    Spero che il pranzo sia stato buono
    Besos e abbracci
    P.s: suggerisco a Lolip di organizzare un incontro Lipperario in modo che chi vuole si incontri, credo che la cosa mi piacerebbe anche sottoforma di nickn.:-)

  12. @ spettatrice, che scrive: “In ultimo: mi piace partecipare all’annullamento di copyright che l’uso di un nome non registrato comporta e sarei altrettanto contenta, (come sottolinea Roquentin in risposta a Benedetti) di leggere opinioni di apparenti sconosciuti senza subire il peso che il loro nome anagrafico può eventualmente avere in ambito letterario, accademico, ecc. Di solito non subisco l’ipse dixit di nessuno, ma credo sia interessante (e nell’interesse) per un intellettuale verificare quanto sono in grado di reggere da sole e senza supporto di cognomi affermati certe idee o visioni del mondo. ”
    Devo dire che mi sembra un’ottima idea. I partecipanti potrebbero, semplicemente, scegliersi un numero come distintivo (per evitare risse, assegnerei i numeri con un sistema random): potrebbero benissimo rivelare l’identità due mesi dopo. A questi patti, o a patti simili, io vorrei già invitare un certo numero di persone. Avrei molto piacere che partecipassero Carla e Tiziano, tra l’altro, altrimenti si rischierebbe la vespizzazione (da Bruno Vespa) del dibattito.

  13. Ivan, sì ho l’e-mail, ma non voglio metterla on line, perchè faccio una certa fatica a gestire la posta che già ricevo. Ti scriverò, ma non riesco a farlo adesso.
    Per completare il discorso sul nome e sull’assunzione di responsabilità mi viene in mente che in Italia abbiamo casi di persone in alto loco (di cui conosciamo molto e spesso si tratta di cose non certo allegre) che agiscono come i piu’ inquietanti nick name. Sfottono capi di stato, rendono kapò persone che esprimono critiche, ci pigliano per il culo, ci derubano da una vita e poi e poi. Ebbene queste persone sono lì e continueranno a esserlo anche se noi sapppiamo benissimo chi sono. A dentatura spiegata, continuano a fare i loro porci comodi (affermare, smentire, riaffermare, rismentire…) e …non sono nickn. Se operassero allo stesso modo, usando pseudonimi, sul web ci saremmo stufati ampiamente di averli tra i piedi. Purtroppo hanno nomi altisonanti, occupano posti di comando e tutto quello che dicono, per la fetta di persone che li ha piazzati lì, è sicuramente al di sopra di qualsiasi critica …..non credo comunque che la cosa sia merito di contenuti, parole, programmi, opere e , perchè no, omissioni.
    ‘notte e abbracci

  14. @ spettatrice.
    Ti ho letto e ho visto anche il tuo riferimento a me.
    Ma ormai sui nickname credo di aver detto tutto.
    Non prenderla, perciò, per scortesia, se mi astengo dal riprendere la discussione.
    Ciao.
    Bart

  15. Guarda gli scherzi del destino: ho or ora postato da me uno scritto intitolato ‘Gli scherzi del destino’. A proposito di un mirabile ‘caso’ con cui la Storia si è ripresa i suoi diritti rispetto alla Union Jack. (E’ il caso di aggiungere: con il rispetto e il dolore per le vittime innocenti? Spero di no).

  16. @ Bart: io non credo che ci sia un punto in cui il pensiero si arresta, come di fronte a un passaggio a livello. In un dialogo, la scoperta dell’opinione dell’altro, solitamente, può indurre alla riflessione.
    In ogni caso, ti ho letto: riguardo la questione pseudonimo-responsabilità quasi nessuno ha scritto ancora niente di definitivo, per come la vedo io. Né ho letto alcun pensiero chiaro e conseguente (io, lo ammetto, parto dall’assunto che il “problema della responsabilità” sia anteriore alla questione nickname così come viene posta oggi)

  17. Ivan, spero di non essere stato frainteso.
    Non desideravo riprendere la discussione per il semplice fatto che non so più che cosa dire.
    Le cose che ho letto scaturite da altri punti di vista, non mi hanno convinto. Tutto qua.
    Ma non voglio rischiare di apparire scortese.
    Avrai capito che io dò molta importanza al nome anagrafico.
    Potrei dire che anche esso può configurarsi come un nickname (sono fatti della stessa materia: le lettere dell’alfabeto), se non fosse, però, che il nome anagrafico che ereditiamo dai nostri genitori porta con sé già dei contenuti.
    Dunque – fatti della stessa materia – io non esito a preferire al nickname il nome anagrafico, come segno di rispetto di quanto giunge a me attraverso quel nome.
    Il mio cognome è Di Monaco. Molti riconoscono subito nel mio cognome una origine meridionale. E infatti è così. Ne sono fiero, anche se sono toscano al 100%.
    Se avessi preferito ad un certo punto della mia vita cambiarlo e chiamarmi Ribechini, ad esempio, ecco che avrei implicitamente rinunciato ad una identificazione del passato che sta racchiuso nel mio cognome Di Monaco, alla meridionalità, ossia, che vi è espressa.
    Per farla corta. Io preferisco per una sterminata quantità di motivi presentarmi ovunque con il mio nome e cognome.
    Sembra paradossale a coloro che non la pensano come me, ma il fatto di poter usare il mio nome vero è uno dei più rilevanti segni tanto della mia personale libertà quanto anche della libertà acquisita dalla società in cui mi muovo. Nasconderlo significa diffidare che questa libertà vi sia.
    Non mi si risponda che non ci sono società libere.
    La nostra società – quella occidentale, non solo quella italiana – è una società in cui si esercita tutta la libertà possibile, la qual cosa significa che non vi è ancora una società nella quale la libertà goda della sua piena esplicazione.
    Comunque, ognuno è padrone del proprio destino, come si suol dire.
    Se qualcuno preferisce usare il nickname, che lo faccia, non compie alcun misfatto.
    Per me resta, comunque e sempre, un segno di debolezza.
    Naturalmente, l’uso corretto del nickname è cosa assai più accettabile (sempre dal mio punto di vista) dell’uso distorto.
    n caro saluto, Ivan.
    Bart

  18. “Per farla corta. Io preferisco per una sterminata quantità di motivi presentarmi ovunque con il mio nome e cognome.
    Sembra paradossale a coloro che non la pensano come me, ma il fatto di poter usare il mio nome vero è uno dei più rilevanti segni tanto della mia personale libertà quanto anche della libertà acquisita dalla società in cui mi muovo. ”
    Ti dirò: non mi sembra per nulla paradossale. Un nome, che sia di battesimo o meno, è un “segno”: di quel segno sei il proprietario, e sei tu ad assegnargli i valori che preferisci. L’importante è che quei valori non siano ambigui, che siano tuoi, etc. (questo è solo un aspetto della faccenda, me ne rendo conto). L’identico discorso vale per lo pseudonimo. “Pseudo” è una pessima caratterizzazione, un pessimo biglietto di presentazione (meglio eteronimo, “sinonimo”, e così via).
    In ogni caso grazie (evito di dilungarmi).
    Ivan

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