STORIA DI LETIZIA

Riporto, in testa alla storia di oggi, il commento lasciato poco fa in calce a un altro post, prima che si perda fra gli altri. Due commentatori, m e k,  si chiedono se pubblicare storie faccia bene alle donne o (k) se “questa specie di battaglia” (senza specie: è una battaglia, fattene una ragione) utilizzi le donne stesse “come scudi umani”. In primo luogo, ritengo che le donne abbiano bisogno di parlare delle proprie storie, di condividerle con gli altri, di ragionarci insieme. Proprio perché, in tutti questi anni, su quel che avviene a proposito di 194 e contraccezione d’emergenza è calato – salvo molte meritevoli iniziative – il silenzio.
In secondo luogo, stiamo, vorrei ricordare, parlando di una legge che è stata svuotata dall’interno e di una controffensiva (mi dispiace ma è così) del cattolicesimo più oscurantista per renderla inapplicabile e per non fornire alle donne stesse gli strumenti che richiedono. E che spettano loro.
Detto questo: non solo continuerò ad accogliere e pubblicare storie. Ma, come anticipato ieri, sto studiando con altre donne il modo di mettere in atto iniziative permanenti che riguardano sia l’illecito che si commette negando la pillola del giorno dopo sia l’obiezione di coscienza sulla 194. E, visto che è stata citata – a ragione – anche l’educazione sessuale nelle scuole italiane.
Ecco la storia di Letizia.

La mia storia è di più di vent’anni fa, si risale alla seconda metà degli ottanta.
Sposata da tre anni, nessun problema se non le normali tensioni e stanchezze dei reciproci lavori molto impegnativi. Ci diciamo che sarebbe ora di avere un figlio. Al primo tentativo compiuto quasi per caso, resto incinta. Un po’ di problemi (nausee molto forti, qualche piccola perdita di sangue…) e qualche apprensione all’idea che la nostra vita stia per cambiare, ma comunque ci si prepara all’evento.
C’è però un intoppo: alle analisi, i valori degli anticorpi della rosolia sono un po’ troppo alti. Non finirò mai di battermi il petto per non aver fatto analisi prima, o magari una vaccinazione quando mi sono sposata. Ma ormai, purtroppo, così è andata e non posso tornare indietro.
Il ginecologo minimizza, ma tutti gli altri, da mio marito ai familiari al medico di famiglia ai pochi amici con cui mi confido, mi suggeriscono di abortire.
Non sono del tutto convinta, sento che comunque la responsabilità è mia, e forse se dipendesse da me andrei avanti. Facile per gli altri, dall’esterno, decidere. Ma chi sente la cosa sulla sua pelle, sono io, con tutto il peso di una educazione cattolico repressiva che, ai tempi in cui ero stata bambina, era ancora fortissima, un imprinting che ti restava dentro anche quando, con la razionalità adulta, pensavi di essertene liberata.  Comunque la sola idea di problemi gravi del nascituro, magari da affrontare con tutti contro, mi fa decidere di non correre il rischio.
Il  mio ginecologo, un nostro coetaneo obiettore, prende atto e mi suggerisce di rivolgermi all’unico non obiettore dell’ospedale, che è anche quello con il maggior numero di parti al suo attivo.
Il quale è gentile e comprensivo, forse ha sempre un po’ troppa familiarità con le sue pazienti, specie quelle giovani, una familiarità che in qualche caso assume una sfumatura poco rispettosa, ma a parte quello niente da dire.
Io sono stata una persona fortunata: sposata, con tutti al mio fianco, circondata dal sostegno generale. Non ho dovuto affrontare isolamento, disapprovazione, biasimo, vergogna, sensi di colpa.
Se li avevo, era tutta roba mia, dubbi interiori.
Non so come avrei reagito se mi fossi trovata di fronte quei comitati della buona morte di cui si parla oggi, del movimento per la vita o simili. Forse, sarei stata tanto triste o vulnerabile da non sapermi difendere. Ma so con certezza cosa farei  adesso, se si trattasse di mia figlia in questa malaugurata situazione: sarei capace di ogni violenza fisica e verbale, fino alla denuncia, contro questi ignobili sciacalli e chi li appoggia.
Ma andiamo oltre. Frequentando la maternità dell’ospedale cittadino  mi resi conto di come le funzioni del corpo femminile siano circondate da atteggiamenti negativi, più ambivalenti riguardo al parto, abissali negli altri casi.
Innanzitutto, la differenza fra ostetricia e ginecologia: nel primo reparto, dove andai in seguito a partorire, sorrisi e soavità. E certo, è dove nascono i bambini, è dove la donna svolge la sua funzione più alta e più pura. Tutto è gioia, fiorellini, poster pubblicitari, pupazzi e passettini lievi. Peccato che le scomodità per le partorienti fossero enormi, e qualsiasi problema fisico, dai dolori alle emorragie ai disagi post partum, fosse spesso affrontato con indifferenza, minimizzando o sgridando. E ho sentito racconti simili anche da altre partorienti, in altri luoghi e altri periodi più recenti.
A ginecologia,  dove invece mi trovai in quelle tristi circostanze, modi bruschi e un lieve disprezzo. Come se dal  camerone delle donne che abortivano, (senza far distinzioni fra aborto terapeutico e non, fra gravidanze a rischio e non volute) bisognasse estendere freddezza, senso di colpa e biasimo sociale a tutte le ricoverate.
La prassi era che la visita per chi doveva sottoporsi a qualche intervento non dovesse svolgersi in corsia. No, avveniva in un salone dove la sventurata, dopo aver atteso il suo turno in corridoio in camicia da notte e dopo essersi sfilata le  mutande, tenendole in mano, anche se mestruata, scusate la fastidiosa precisazione  ( guai ad entrare ancora con le mutande! Si faceva arrabbiare il primario che ti insultava per la perdita di tempo!) si esponeva gambe all’aria di fronte ad almeno dieci fra medici e studenti,  che disquisivano il suo caso. Per quanto mi riguardava, l’analisi della mia situazione fu fatta a voce così alta, che penso sentissero anche nei reparti vicini. Ricordo bene l’enfasi del primario nell’annunciare, visitandomi: “feto come alla dodicesima settimana” , calcando il biasimo sul numero, come a dire che ero proprio al limite consentito. Cosa che a me, in base ai calcoli di quando ero rimasta incinta, non risultava.
Il fila dopo di me c’era una donna esile già anziana, non so cosa avesse, magari qualcosa di brutto, certo non la “colpa”: tutta curva, lo sguardo al pavimento, piangeva sommessamente con le sue mutande in mano in attesa di quella umiliazione.
Ho visto una donna di quarant’anni desiderosa di prole, al suo terzo o quarto aborto spontaneo, con lo sguardo perso nel vuoto, nel camerone delle “donne perdute” , trattate tutte indistintamente da baldracche persino dalle infermiere, o con disprezzo o con quella allegra familiarità pesante che è poi la stessa cosa o peggio.
Il resto, per fortuna, fu più agevole, da quando mi addormentai in sala operatoria.
Per me non fu doloroso.  Niente di niente, neanche un doloretto, una fitta, un rimescolio, io che di solito a ogni mestruazione soffrivo fino al vomito. Solo un flusso molto abbondante per qualche giorno. Neanche quel piccolo sollievo ai sensi di colpa.
Però non è neppure che questi sensi di colpa ti devastino, come dicono i più subdoli avversari della 194, che tu non sia più la stessa, che non riesca più ad avere un rapporto sereno con il tuo corpo e la gravidanza, che abbia bisogno di sostegno psicologico eccetera.
La mia successiva gravidanza filò liscia, benché la affrontassi in concomitanza con una grave malattia di mio padre; mia figlia nacque senza problemi, spero e credo di non averle fatto scontare alcuna proiezione ansiosa. Questo nonostante mio padre, purtroppo, sia entrato in  coma e morto pochi giorni dopo la sua nascita, senza neppure averla potuta conoscere.
Di questi episodi, l’aborto e la triste concomitanza, mi è rimasto dentro solo un gran dolore, una gran rabbia, la sensazione di essere in credito col destino.
Ma niente dubbi o rimpianti di alcun genere. Anzi, più si va avanti, più sento le argomentazioni grottesche e fanatiche, prive di supporto razionale, con cui si difende una vita minuscola e presunta, ben più di quanto si faccia con le vite reali, spesso anzi CONTRO di esse, più mi sento serena.
Non possono in alcun modo, essere dalla parte della ragione, coloro che dimostrano così tanta cattiveria e insensibilità. Per non parlare della loro buona fede.
Trovo , riallacciandomi al presente, che effettivamente ci sia stato un tornare indietro della mentalità corrente. In alcune mailing list letterarie che frequentavo di recente, la discussione OT riguardo la 194 assumeva toni apocalittici, di muro contro muro. E quando confessai quello che mi era accaduto, le reazioni andarono dalla cristiana condiscendente compassione umana, che sospendeva il giudizio per pietà,  al fiero apprezzamento un po’ distorto per il mio espormi, da parte di chi difendeva la legge.
E qui sta il punto: reazioni entrambe estreme, lontane da una pacata accettazione della realtà, figlie dei tempi da “tifoseria” che viviamo.
Perché se una possibilità è sancita da una legge, ribadita da un referendum, (il mio primo voto, fra l’altro), chi vi ricorre non può e non deve essere criminalizzata, ma neppure considerata coraggiosa, quasi che il semplice dire la verità fosse una sfida, un esporsi al biasimo della società. Dovrebbe essere naturale poterne parlare, invece, come si parla di una malattia o di un lutto, senza doversene vergognare.
Era molto meglio negli ‘80: non riscontrai intorno a  me reazioni isteriche, drammatizzazioni pro o contro, ma solo comprensione tranquilla  e solidarietà non pelosa, persino dai miei amici di matrice cattolica più profonda. Potrebbe anche essere stato un caso personale, ma sono propensa a credere che di mutamento in peggio dell’umore corrente, delle propagande e delle esasperazioni, invece, si tratti.

56 pensieri su “STORIA DI LETIZIA

  1. m, non è che la scuola possa/debba fare tutto, ma credimi, facendo counselling scolastico ci si rende conto di che genere di famiglie hanno un sacco di poveri ragazzi/e. A volte la scuola è l’unico luogo dove davvero sono accolti.
    Quanto all’obiezione di coscienza e al presunto uguale diritto della donna e del feto, lascio rispondere per me a un’intervista a Carlo Flamigni:http://www.cronachelaiche.it/2010/04/donne-aborto-e-%C2%ABmisoginia-di-stato%C2%BB-intervista-a-carlo-flamigni/
    Sottolineando due cose: un medico, oggi, sa benissimo a cosa va incontro nel momento in cui sceglie di fare una certa professione e una certa specializzazione, e in uno stato laico non può imporre le sue convinzioni ad altri/e. Concordo con Flamigni che ci sia molto più bisogno di compassione che di religione, e una religione senza compassione francamente non riesco nemmeno a concepirla, ma è quel che ci ritroviamo. Poi la religione non parrebbe essere la vera ragione di tante obiezioni, come è emerso e continua ad emergere.
    In riferimento anche al thread precedente, nell’intervita si accenna a due libri sulla pillola del giorno dopo, libri che conto di leggere attentamente, perché finora abbiamo sentito una campana scientifica, ma ce ne sono anche altre.

  2. @CloseTheDoor,
    il gioco è rendere le cose talmente confuse da non capirci più molto. Si vuole trascinare la condanna morale della IVG sulla contraccezione (sono tutte “pillole” e tutte moralmente inammissibili). Oltre alle ingiustizie, ci sono contraddizioni esilaranti: si obietta sulla contraccezione d’emergenza e non sulla IUD o sui preservativi. Poi c’è la questione dei farmacisti obiettori, ma lì siamo proprio nel terreno della malafede.

  3. Gentile Chiara Lalli,
    mi creda non ho copiato alcuno slogan.
    Ribadisco quanto affermato in un precedente commento: l’art. 9 della 194/78 impone al medico obiettore di praticare l’IVG nel caso la donna si trovi in imminente pericolo di vita e quel medico fosse l’unico presente.
    C’è un diritto all’autodeterminazione del paziente e un diritto all’autodeterminazione del medico e del personale sanitario.
    E’ proprio per salvaguardare il principio di integrità morale e autonomia della professione medica che si lascia libertà di coscienza in questioni controverse come l’IVG.
    Questo, come del resto è sancito dalla legge e dalla deontologia, non significa che un medico obiettore possa permettersi di trattare malamente una donna che abbia deciso di interrompere la gravidanza. Donna che va sostenuta, accudita e trattata come qualsiasi altra paziente. Ci mancherebbe!
    Agire secondo scienza significa che l’atto medico deve ispirarsi alla Best Medical Practice ossia deve avere motivazioni valide e validate presso la comunità scientifica. Agire secondo coscienza significa che l’atto medico non deve creare conflitti insanabili nel medico, potendo quest’ultimo percepire in un deterinato atto medico un contrasto netto con la finalità della professione stessa che è quella di prendersi cura e guarire persone ammalate.
    Nell’IVG di fatto si interrompe un processo che porta alla formazione di una persona umana. Questo può essere percepito dal medico come contrario agli scopi della professione che, come dice l’art. 3 del codice deontologico, sono quelli della “tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana”.
    Il principio dell’obiezione di coscienza è da tutelare perché, indipendentemente dall’IVG, in base a tale principio ad es. un medico può rifiutare di applicare un sondino naso-gastrico ad un paziente che non lo vuole, anche se è una legge ad imporglielo (come quella che stava per essere approvata riguardo le DAT).

  4. Dirò una cosa che è di una banalità disarmante, ma tant’è. Tutti sti ginecologi che non vogliono praticare IVG né prescrivere la pillola del giorno dopo…ma non potevano scegliere un altro mestiere? non lo sapevano, quando si sono iscritti a ginecologia, che nella professione si fanno anche quelle cose? siccome è evidente che lo sapevano, è altrettanto evidente che la loro obiezione è strumentale a un sistema di potere in cui proprio sull’obiezione (quindi sul corpo delle donne) si gioca il diritto di salire sul carro di chi comanda. Punto. Autodeterminazione de che? Cambiare mestiere è un ottimo gesto di autodeterminazione secondo me.
    Quindi i casi sono tre: o tutti sti obiettori vengono folgorati sulla via di Damasco, che guarda caso si trova a metà strada tra la facoltà e l’ospedale, oppure la religione non c’entra una cippalippa e si tratta di una questione di carriera. La terza opzione (che in realtà va a braccetto con le altre due) è quella della megalomania, che porta i medici a voler imporre le loro scelte sulle pazienti. Non la trascurerei.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto